Rigoletto a Bologna: cast “alternativi” o stocastici?

Ai tempi delle tavole pittate, magari riciclate di spettacolo in spettacolo in omaggio a una politica di oculato contenimento dei costi (politica che poteva essere appannaggio solo del teatro di matrice impresariale, quello a conduzione pubblica, che vuol poi dire partitica, privilegiando per sua stessa natura mance, prebende ed elargizioni a fondo perduto), la Gilda di Marcella Sembrich era celebre, oltre che per la maestria vocale, per il gesto (un passo all’indietro) che compiva nel momento in cui, entrando in scena al secondo atto, scorgeva il padre in mezzo ai cortigiani del duca. Un semplice gesto in cui c’era tutto lo sbigottimento, l’orrore e la vergogna della figlia, che scopre in maniera inequivocabile quale sia la professione del padre e quanta parte lo stesso abbia nell’ambiente in cui ella è venuta, suo malgrado, a trovarsi. Non sappiamo se il gesto fosse frutto delle personali intuizioni e riflessioni della signora Sembrich o se le fosse stato suggerito da qualche maestro ripetitore o di palcoscenico, ma c’era in quell’improvviso recalcitrare di Gilda più teatro di regia che in tanti patinati allestimenti pseudoinnovativi (sempre e comunque pagati per tali). Buon ultimo della serie quello di Alessio Pizzech, proveniente dal teatrino di Busseto e riproposto, con variazioni, al Comunale di Bologna (che lo annuncia, però, quale nuovo allestimento).
Superfluo soffermarsi sulle infinite caccole dello spettacolo, che qualche penna in vena di facili e dobbiamo supporre onesti entusiasmi ha elevato a manifesto del teatro di regia, che il pubblico nostrano proprio non vuol decidersi a mandare giù (fischi a scena aperta e al termine della recita, indirizzati ai mimi in assenza del signor regista, sono volati anche in occasione della replica pomeridiana di sabato 12, seconda recita della seconda compagnia, o compagnia alternativa, come la definisce, con pudico quanto inutile eufemismo, il personale addetto alla biglietteria del teatro felsineo). I soliti ammiccamenti a devianze tossico-sessuali, al ruolo della donna ridotta a bambola e/o puttana, i soliti tristissimi cappottini alternati a completi giacca e cravatta, qualche mimo di bella presenza a cattivare la benevolenza di buona parte del pubblico, zero movimento di solisti e coro, qualche riuscito effetto di luci e stop. Davvero un misero trattamento per un titolo in cui la tragedia del protagonista, carnefice involontario della propria figlia, dovrebbe essere totalizzante e qui finisce per risultare tiepida, piatta, grottesca anche oltre le evidenti intenzioni dissacratorie.
Ma c’è ben di peggio, nella fattispecie la direzione di Renato Palumbo, una successione di colpi di mazza ferrata (preludio, a base di ottoni spernacchianti, chiusa dei diversi quadri, ingresso della disonorata Gilda, temporale) alternati ora a ritmi saltellanti e marcette puntute da teatro dei burattini (con pasticciata tenuta del palcoscenico, come nel concertato che precede l’ingresso di Monterone), ora a ritmi slentati e letargici che mettono in seria difficoltà i solisti, costretti per giunta a confrontarsi con un muro di suono che spesso e volentieri li seppellisce (ascoltati da un palco di proscenio, Rigoletto e più ancora Gilda e il duca, per tacere dei comprimari, sembravano cantare da una distanza siderale, con voci prive di minimale espansione). Nessuna capacità di sottolineare il contrasto fra la frivola deboscia della festa e l’irruzione di Monterone, di rendere la tinta sinistra del duetto Rigoletto Sparafucile, il senso di tragica beffa del finale primo oppure l’insostenibile tensione dello slancio suicida di Gilda alla taverna (qui trasformata in chiatta) sul Mincio. Insomma un autentico nulla, che il pubblico felsineo ha in seppur minima parte riprovato ai saluti finali. Male!
Del resto anche con gli interpreti è stata usata clemente misericordia. La merita, in parte, Vladimir Stoyanov, che si sforza, almeno, di trovare accenti castigati e dimessi (fatta salva qualche occasionale scivolata nel parlato), sebbene non abbia la necessaria saldezza in acuto e più in generale l’espansione vocale che dovrebbe caratterizzare l’autentico mattatore del dramma. Non la merita affatto Scilla Cristiano, classica voce microbica in basso, fissa e sistematicamente stonata nel registro medio-alto, in debito di ossigeno fin dalla sortita, imbarazzante nel “Caro nome”, in cui, complice l’infelice abbigliamento, si produce in una plausibile imitazione di Olympia prossima alla rottura definitiva. Per inciso il primo atto è quello in cui una voce di cosiddetta soubrette dovrebbe trovarsi meno a disagio. Nei panni del Duca Raffaele Abete ha una voce di bel colore ma che, dal passaggio superiore in su, risulta schiacciata e nasale, con effetto caricaturale su frasi come “adunque amiamoci donna celeste”, sigla della sfrontata sensualità del personaggio, mentre in zona centrale la mezzavoce risulta in difetto di appoggio e dà origine a suoni prossimi al parlato. Tra gli altri interpreti, il solo Antonio di Matteo (Sparafucile) dà prova di mezzi interessanti, benché poco governati e quindi solo parzialmente soddisfacenti.
Una chiosa merita la recita di giovedì 17, sulla carta ultima rappresentazione affidata al primo cast (che dico…? compagnia principale). Prima della recita, in coda al consueto comunicato/pistolotto sindacale a sipario chiuso circa l’insensatezza dei tagli governativi agli enti che promuovono e tutelano le magnifiche sorti e progressive della cultura italiana, si annuncia che a Di Matteo subentra Enrico Iori, mentre Marco Caria viene sostituito da Vladimir Stoyanov, che si esibirà pur non essendo in perfette condizioni di salute. Le non perfette condizioni di salute, che avevano costretto il baritono bulgaro a cancellare la rappresentazione del giorno precedente, emergono fin dalle prime scene, in cui si percepisce una certa mancanza di volume (notevole soprattutto in una sala di modeste dimensioni come quella bolognese), ma il dramma, quello vero, arriva al “Veglia o donna”, in cui il cantante rimane letteralmente senza voce e deve chiedere al direttore di fermarsi. Applauso di incoraggiamento, quindi la rappresentazione in qualche modo prosegue fino all’intervallo. Alla ripresa, nuovo annuncio: Stoyanov non può continuare, quindi la palla passa a Devid Cecconi, che aveva cantato anche alla recita precedente in sostituzione di Stoyanov. Cecconi, specialista del last minute verdiano (ricordiamo il salvataggio della Giovanna d’Arco scaligera), ha esibito una buona quantità di voce, ma è stato ben lontano dal fornire una prova sufficiente, atteso che una parte come quella di Rigoletta va cantata e soprattutto scandita, non, di volta in volta, berciata o soffiata in una sorta di maldestra imitazione nucciana. Ma il biasimo non va certo al solista, che dà prova di notevole tempra e sangue freddo e anche solo per questo merita il plauso, non certo di cortesia, che gli riserva il pubblico: biasimevoli, anzi indegni, sono gli organizzatori che, avendo contezza dell’indisposizione dei due baritoni scritturati, non si sono decisi a convocare il terzo (o a cercare un eventuale quarto) prima che si alzasse il sipario, dando così vita all’ennesimo spettacolo grottesco, raffazzonato e improbabile (il ricordo dell’Attila di qualche mese è, in questo senso, ancora vivo). La rappresentazione, così conciata (o meglio, così sconciata), rimane non valutabile, anche se i fischi, non isolati, che ai saluti finali accolgono, encore une fois, Palumbo indicano chiaramente il nadir di una produzione mediamente poco felice. Archiviato un primo atto in cui si barcamena fra intonazione e agilità ugualmente faticose (la chiusa del “Caro nome”, complice un’accorta cadenza, così come il finale della “Vendetta”, è comunque imparagonabile a quella della seconda Gilda), nonostante una voce che risulta piuttosto legnosa e povera di colori, Irina Lungu risolve il personaggio in forza di una precisione musicale, una sobrietà espressiva e una presenza scenica spontaneamente elegante (malgrado il guardaroba da mentecatta) che si fanno apprezzare anche nel confronto con i compagni di palcoscenico, primo fra tutti Celso Albelo, di limitato volume, spesso a corto di fiato, propenso a emettere suoni bassi di posizione, gonfi e “indietro” nel registro centrale, falsettanti e stonati nella zona dei primi acuti.

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9 pensieri su “Rigoletto a Bologna: cast “alternativi” o stocastici?

  1. Su La Stampa del 10 novembre, Alberto Mattioli gratuitamente offensivo nei confronti dei contestatori.

    http://www.lastampa.it/2016/11/10/spettacoli/palcoscenico/com-verdiano-rigoletto-in-calze-a-rete-kU0NMaM2VlwOtKF0QhZ4OK/pagina.html

    Dunque, il signor Mattioli, come tutti gli “illuminati” che, a differenza dei “decerebrati”, hanno la facolta’ di “pensare”, sempreche’ opportunamente stimolati da un geniale regista, s’intende, dunque i “pensatori” fin dove possono arrivare ? Pensate. grazie alla fila di ragazze che sfilano sul palcoscenico, si puo’ arrivare a scoprire che Gilda non e’ che l’ultima delle prede del Duca. Ma bisogna avere delle particolari facolta’ intellettive, pero’, mica ci possono arrivare tutti.
    Non e’ che magari, ascoltanto la ballata del Duca, ci sarebbe arrivato anche un bambino di 3 anni ?

    • Mattioli è un personaggio che non ha credito ne stima da parte di chi va davvero all opera da tanto tempo e può vantare di aver sentito qlcsa. Minaccia querele per chiunque si permetta anche solo di punzecchiarlo sulla sua presunta competenza ma…. A mio avviso, non sa. Il libro che lo ha reso famoso è un concentrato di anedottica trita e ritrita e fa dubitare della sua vantato esperienza teatrale. Credo sia un pr di ciò che i teatri o gli agenti sostengono essere il meglio, quella stampa che vuole condizionare e creare il pubblico e che non è interessata ad informare. Scrive per un giornale importante, va in tv, fa conferenze ergo è noto. Il che non significa che sappia o.sia supra partes quando scrive. Anzi, è la sua contiguità al sistema , il suo propagandare la lieta novella che si vuole propagandare che lo fa gradito e pare anche ben pagato. Ripeto, un pubblicitario come tanti altri che circolano nel mondo.dell arte in generale. La critica è ben altra cosa

      • Ma su La Stampa un tempo non scriveva la critica operistica un certo Massimo Mila? Io mi ricordo bene i suoi articoli, vera autentica ponderata critica musicale, opera di uno che conosceva bene la musica. Ed anche quando potevano essere non del tutto condivisibili (una certa idiosincrasia per i titoli veristi o per la Turandot), non erano mai banali o poco meditati. Lo stesso quando scriveva di alpinismo.
        E prima non c’era un certo Andrea Della Corte?
        O tempora o mores! (Cic. In Catilinam I, 1, 2)

        • Il professor Mila oltre un musicologo era anche un alpinista,un rifugio porta il suo nome.Della Corte cui e’ intitolata la Biblioteca Musicale alla Tesoriera,e che spesso si ricorda con Gatti,per un dizionario di Musica,era della generazione precedente.Successivi a Mila conosco gli ottimi critici musicali professori dell’Universita’.

          • I Professori Giorgio Pestelli e Paolo Gallarati,alla Facolta’ di Lettere di Torino,anche presenti sul quotidiano La Stampa..Sempre un piacere leggere i loro scritti .

          • Esattamente, il prof. Mila era anche un alpinista ed uno scrittore di cose di montagna. Nella mia biblioteca possiedo, da qualche parte, la sua opera Gli eroi del Chomolungma (Torino 1954), dedicato alla conquista dell’Everest.
            Concordo su Pestelli e Gallarati. Gallarati adesso sta contribuendo con meditati e chiarificatori interventi ai DVD pubblicati da Repubblica ed Espresso all’evidente scopo di fare conoscere l’opera italiana a chi non la conosce bene. In detti DVD la voce narrante è di Elio (stavolta senza storie tese), che dice sull’argomento – a modo suo ovviamente – cose molto più corrette e sensate di quelle che si leggono o si sentono dire da certi pseudosoloni, anzi, parafrasando Goethe (Faust, parte prima, v. 4144 ss) pseudosoloni proctofantasmisti.

  2. Io c’ ero, a questo Rigoletto, e sottoscrivo
    ogni parola di Tamburini. Vorrei fare una chiosa al comizietto sindacal-culturale che da qualche tempo ci tocca di ascoltare prima di ogni recita. Se questo Rigoletto, e in genere le produzioni che da anni il Comunale di Bologna perpetra, costituiscono esempio di quella cultura che il denaro pubblico dovrebbe sostenere, bene: lasciamo che la cultura requiescat in pace. Tremonti disse che con la cultura non si mangia. Sbagliava: con la “cultura” mangiano in tanti, a spese pubbliche, spacciando per “cultura” le ultime secrezioni del “teatro di regia”. Non capisco perché, per ogni opera, non venga reso pubblico il costo di allestimento: compenso al regista, al “drammaturgo”, al costumista, allo scenografo, ai cantanti, al direttore; insieme agli stipendi annui , ragguagliati alle ore di lavoro, dei dipendenti stabili del teatro. E mi fermo qui, altrimenti roempirei pagine e pagine.

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