Cronache dalla Ville Lumière: Saint-Saëns alla Bastille

Samson et Dalila

Si è trattato di un trionfo incondizionato per tutti e tutto quello tributato a Samson et Dalila di Saint-Saëns in occasione dell’avant-première riservata ai giovani all’Opéra Bastille; i due o tre ragazzi di numero che, altrettanto incondizionatamente, hanno buato tutti e tutto sono stati ininfluenti oltre che inudibili (a meno di non trovarseli a fianco). Personalmente non ho sposato alcuno di questi partiti, ma sono uscito da teatro complessivamente soddisfatto dall’esito di questa produzione, pur se lungi dall’essere ideale.

Innanzi tutto vi è stata la gioia di poter ascoltare dal vivo un’opera di grande valore che in Italia, purtroppo, costituisce da decenni una rarità e, la più piacevole delle sorprese, la bellissima direzione di Philippe Jordan, attuale direttore dell’Opéra, che ha dimostrato che il suo amore per questo titolo è sincero, non banalmente dettato dalla necessità di pubblicizzare l’evento. Jordan è riuscito a conferire a questo capolavoro stilisticamente composito e ambiguo – annosa la questione, fin dal suo apparire, del genere di appartenenza, cioè melodramma o oratorio – una grande coerenza; le scelte dei tempi e i contrasti dinamici richiesti all’orchestra si sono rivelati vincenti e determinanti nel mantenere sempre alta la tensione, anche nei momenti più statici e solenni. Se le scene corali del primo atto e le perorazioni di Samson volte a destare l’orgoglio degli ebrei in catene hanno trovato accenti prima mesti e dimessi, poi gradualmente più convinti fino a diventare infuocati al momento della ribellione contro gli oppressori, nella prima aria di Dalila “Printemps qui commence” il tempo lento e sostenuto da un raffinato accompagnamento evocava, invece, un estasi che sembrava non voler mai finire. Il secondo atto si è aperto con un “Amour viens aider ma faiblesse” molto energico che ben evidenziava la cattiveria e la pervicacia della protagonista abilmente celate sotto un aspetto sensuale e una musica all’apparenza dolce, mentre al successivo duetto tra Dalila e il sacerdote di Dagon il direttore ha saputo rendere la concitazione e il drammatico senso d’urgenza che il brano richiede. Il capolavoro di Jordan, però, è stato il confronto tra i due innamorati che, dopo l’oasi estatica di Mon coeur s’ouvre à ta voix, imperniata su un tempo lentissimo, ricamatissima e satura di tensione ipnotica e sensuale, si scontrano con parole concenti e prossime alla disperazione. Il trionfo della violenza persuasiva di Dalila nello strappare a Sansone il suo segreto si concretizza nella direzione serratissima che conduce a un finale d’atto assolutamente entusiasmante… che la mente si è trovata ad associare a quello del terzo atto di Aida. Nell’ultimo atto i cori e il baccanale sono stati affrontati con un un piglio orgiastico e dionisiaco estremamente pertinente e le ultime scene si sono susseguite fino all’epilogo in un crescendo trascinante in cui la tensione drammatica, esasperata e palpabile, sembrava rimanere viva anche quando l’eco degli ultimi accordi si era spento.

Con una direzione così curata, partecipe e spiccatamente teatrale, oltre che rispettosa dei cantanti, il cast, seppur complessivamente mediocre ne ha tratto buon partito e ha fatto una figura migliore di quanto le singole doti avrebbero normalmente consentito. I vari bassi hanno tutti gli stessi problemi: voci ingolate, bitumate, difficoltà sia in alto che in basso. A partire da Eglis Silins, Grand Prêtre de Dagon, passando per Nicolas Cavallier, un Veillard hébreu, fino al “migliore” dei tre, l’Abimélech di Nicolas Testé. Il coro si è disimpegnato bene con una prestazione di livello, sebbene il settore dei soprani abbia rivelato qualche oscillazione di troppo che dovrebbe essere assolutamente corretta.

Aleksandrs Antonenko nei panni di Samson, personaggio forzuto e testosteronico, è risultato più tollerabile del solito perché l’emissione brada e assai poco rifinita qui sembrano meno fuori luogo. Antonenko canta male e in modo piuttosto volgare, la dizione non è ottima, come del resto la sua tecnica fondata sulla spinta e sul gonfiare la voce – naturalmente piuttosto consistente – per fare il tenore drammatico. I suoi modelli per il ruolo erano chiari: Domingo, del quale imitava il fraseggio e persino il modo fastidiosissimo di prendere gli acuti oltre che a tratti il timbro, e Vickers per quanto riguarda i pianissimi (anche se qui purtroppo rochi e non ben sostenuti) e l’interpretazione molto maschia e violenta. Con la direzione di Jordan sotto persino lui sembrava avere il suo perché se non altro per la voce corposa e la determinazione di non risparmiarsi in nulla, acuti inclusi.

Di ben altro livello la Dalila di Anita Rachvelishvili: presenza scenica molto curata, ottima dizione, bel timbro e una tecnica senza dubbio superiore alla media odierna. Ha studiato tanto e si è visto il suo grande impegno: le tre arie sono state risolte bene, la prima tutta in piano con un buon legato, la seconda con molto temperamento e la terza con buon legato e molto fascino timbrico e scenico. Il tempo lentissimo di Mon coeur s’ouvre à ta voix l’ha vista lievemente in difficoltà coi fiati, ma si è destreggiata egregiamente considerato che non abbiamo davanti una cantante onnipotente. Nei duetti ha risolto bene gli slanci drammatici e ha saputo trovare sempre gli giusti accenti nel corso dell’opera. Gli acuti e i centri sono certamente la parte migliore della voce, i gravi, in questo caso molto più curati del consueto, sono più deboli, meno naturali e non perfettamente omogenei rispetto al resto della voce. Solo due estremi acuti sono risultati un poco sporchi seppur ben intonati (il Je le brave nel II atto e Dalila venge en ce jour son Dieu son peuple et sa haine nel III). Resta il dubbio che la signora Rachvelishvili, cantante interessante che mi ha fatto molto piacere ascoltare e per di più in questa forma vocale, sia un soprano falcon piuttosto che un vero mezzosoprano… ma questo discorso può calzare anche a celeberrimi mezzosoprani venuti prima di lei.

Sull’opportunità di modernizzare sempre e comunque non voglio dilungarmi… questo passa il convento. Di questo tipo ormai prevedibile è stata l’attesissima regia di Damiano Michieletto che, a mio avviso, ha complessivamente funzionato. Nonostante la vicenda fosse trasportata in un epoca recente, la trama, grazie al cielo, non è stata stravolta eccessivamente: gli oppressi restano tali, gli oppressori anche, seppur coi fucili automatici, la dimora di Dalila diventa una sorta di tenda-appartamento di lusso, il tempio di Dagon una sorta di torre di controllo-ufficio del potere. Colori e scene cupi, grigi e minimali dominavano nel primo atto, mentre nel secondo il luminoso interno di Dalila contrastava con un esterno scuro e non ben definito, nell’ultimo atto, infine, vi era un tripudio di oro (tutte le pareti), costumi antichi, denaro, tappeti e ricchi ornamenti per il baccanale inteso come una sorta di toga-party o una di quelle feste in maschera tanto care alle classi elevate. Discutibile assai la concezione del personaggio di Dalila secondo Michieletto: ella, pur odiando Sansone, ne è contemporaneamente innamorata al punto da mostrarsi pentita e affranta nell’ultimo atto nonché addirittura pronta ad aiutare l’amato nemico a compiere la sua vendetta. Ciò confligge inevitabilmente col libretto. Alcuni momenti fuori luogo (qualche nudo, qualche violenza di troppo dei soldati filistei sugli oppressi, le avances sessuali del sacerdote di Dagon a Dalila) non disturbano eccessivamente la visione. Particolarmente riuscito è il finale ad effetto in cui Dalila, cosparso il luogo dell’orgia di benzina, porge un accendino a Sansone che, facendone scaturire la scintilla, provoca una scenografica esplosione che squassa le pareti dorate (che vanno in pezzi) e fa piombare tutto nell’oscurità.

Concert Saint-Saëns

La Brise, La Solitaire, La Splendeur vide (1870) Soprano Adriana Gonzalez

Désir de l’Orient (1871), Mezzo-Soprano Emanuela Pascu

El Desdichado (1871), Soprano Adriana Gonzalez e Mezzo-Soprano Emanuela Pascu

Quintette avec piano op. 14 (1855): violon, Marc Desjardins e Aymeric Gracia; alto, Marion Stienne; violoncelle, Annabelle Gouache; piano, Thibaud Epp.

Viens! (1855) Soprano Adriana Gonzalez e Baryton-basse Mikhail Timoshenko.

L’Attente (1878), Le Rossignol et la rose (1902), Papillons (1878), Soprano Pauline Texier

Violons dans le soir (1907), Mezzo-Soprano Emanuela Pascu, Violon Aymeric Gracia

Clair de lune, L’Étoile (1878), Mezzo-Soprano Emanuela Pascu

Le Pas d’armes du Roi Jean (1852), Danse macabre (1873), Baryton-basse Mikhail Timoshenko.

Si vuol dare anche un breve resoconto del recital-concerto di musiche del compositore che ha avuto luogo il 6 ottobre all’amphithéâtre Bastille. Il programma, interessante per gli ascolti assai poco comuni, è stato una selezione di una serie di melodie per piano e voce, composizioni anche molto lontane cronologicamente e basate su testi poetici di autori vari (nella seconda parte in special modo V. Hugo), e un Quintetto con piano (op. 14). Ad accompagnare i solisti il giovane Federico Tibone, vero trait d’union della serata, che ha dimostrato buone doti di accompagnatore trovando il tocco giusto per le diverse pagine e sostenendo al meglio i cantanti dell’accademia dell’Opéra, giovani a loro volta e con limitata esperienza alle spalle. Se nella prima parte erano i colori e le suggestioni esotiche (orientali e spagnoleggianti) a farla da padrone, nella seconda, invece, si sono scelti brani che si inseriscono in un clima più intimo, notturno e nostalgico; a chiudere la serata, infine, due pagine che hanno offerto un esempio di umorismo gioviale e gradevolmente grottesco in una patina di colore medievale (Le Pas d’armes du Roi Jean, in particolare, rivelava il debito nei confronti di alcune arie meyerbeeriane per basso-baritono). A metà del concerto è stato collocato il Quintetto con piano, ben eseguito dai solisti, con una menzione particolare per il violinista Aymeric Gracia (ottimo anche in Violons dans le soir) e, soprattutto, per il pianista Thibaul Epp che ha affrontato brillantemente il virtuosismo previsto (non va scordato che, prima che come compositore, Saint-Saëns era rinomatissimo come virtuoso della tastiera). Più composito il giudizio sui cantanti: bellissima voce e tecnica sicura con pronuncia francese perfettibile ha dimostrato Adriana Gonzales, soprano lirico del Guatemala che mi è parsa pronta per debuttare in ruoli più importanti, sperando che non le affidino subito parti troppo pesanti e non si rovini; molto entusiasmo per Pauline Texier (l’unica francese dei cantanti), soprano leggero che, tolta qualche iniziale fissità e asperità probabilmente dovute alla tensione, ha interpretato con molto gusto, abbandono e convinzione i suoi brani raggiungendo con notevole facilità i più impervi sopracuti (fa tenuto compreso); male Emanuela Pascu soprano rumeno che, per motivi ignoti, si crede o vuole essere mezzosoprano pur non avendo affatto i gravi e trovando sfogo solo in acuto… solo nell’ultimo brano, quello con con la tessitura più acuta è stata accettabile; il basso baritono Mikhail Timoshenko non ha una buona dizione francese e ha fatto parecchia confusione coi testi delle sue canzoni, il suo modello, nonostante le origini russe, è chiaramente Samuel Ramey (questo è un punto a favore), ma i risultati sono piuttosto interlocutori perché l’inventato registro grave (sarebbe un baritono chiaro o forse un tenore se cantasse con la sua voce) è ben lungi dal magico artificio del suo modello. Successo di stima per tutti e pubblico soddisfatto per la piacevole serata dedicata a Saint-Saëns.

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