Lucio Silla alla Scala: inutile paccottiglia

LorrainDa sempre fautori degli allestimenti tradizionali ed oleografici quanto basta mai avremmo immaginato che davanti ad un aborto di questi avremmo provato profondo dissenso dalla scelta, considerata non rispetto della tradizione, ma dileggio ed oltraggio della stessa. Legittima domanda: cosa mai successo e perché il Corriere della Grisi, che per scelta e gusto di molti dei suoi autori considera ancillare l’allestimento provi tanto ribrezzo e censura per il Lucio Silla scaligero. Si potrà dire che sia sterile desiderio di polemica perché c’era una ambientazione, che, in linea di massima, occhieggiava (copiava sarebbe più corretto) gli spettacoli di Ponnelle con l’ambientare in una struttura classicheggiante un dramma coturnato, vestendo di abiti contemporanei o simil contemporanei l’epoca di composizione, i personaggi del dramma. E allora di che lagnano i grisini, che cosa, questa volta non gli va bene? L’idea di fondo che dalla realizzazione traspare. Quando si allestisce in maniera diciamo tradizionale si accetta e ci si adatta alla poetica ed al genere del dramma, che si va ad allestire. Il lieto fine con lo scioglimento e la celebrazione corale della generosità del sovrano non elidono la natura di dramma serio e le tragiche tensioni affettive che vi si rappresentano esattamente come le situazione drammatiche e sceniche sono sempre le medesime comuni a tutti i melodrammi coevi. Per cui le arie sono sempre legate ad un genere può esserci l’aria di furore, l’aria di scongiuro, la grande scena di tomba o sotterraneo, l’aria di paragone, l’aria sentenziosa. Non solo i personaggi sono intensamente ed assolutamente legati al cosiddetto tipo perché Giunia è la prima donna tragica a lei ne spetta, depositaria di valori etici, la difesa ed in nome di quelli scagliarsi contro il presunto tiranno contrapposto a lei. Mentre Cecilio è il modello delle romana virtus e come tale deve armarsi contro il tiranno soffrire per mano del medesimo il carcere e correre il rischio di morte. A loro le arie più impegnative dove i sentimenti e le “dramatic situations” sono al massimo grado. All’altra coppia da amorosi quelli che nel melodramma ottocentesco diventeranno confidenti, compagni d’armi non spetta manifestare questi alti sentimenti, a loro può essere riservato il commento alle drammatiche sofferenze degli eroi, il conforto l’ausilio e le loro arie a questi sentimenti più limitati e pudichi si ispirano. Tutto ciò porta conseguenze sul piano delle scelte vocali e degli atteggiamenti scenici. E qui le scelte denotano che quest’arte fortemente tipicizzata e di genere non è stata affatto compresa. Si equivoca che il lieto fine possa essere un giustificativo e il mezzo per espungere dall’espressione e dalla recitazione l’ampiuezza tragica o peggio per farne la parodia. Chi avesse visto ieri sera Giunia con un abituccio nero da telefilm sulla vita di Sissi volteggiare come una Traviata di provincia nelle più tragica delle scene, ed ancora Giunia ed il suo corteggio con passo spedito e danzante andare alla tomba paterna, Cecilio, che si muoveva come Cherubino e Silla, che gigioneggiava a metà fra l’Arlecchino servitor di due padroni e mio figlio Nerone di Alberto Sordi non potrebbe pensare che in quelle scene si consumino autentici drammi psicologici ed umani, tanto meno quando Giunia si agita e smania in scena come Paolo Poli che fa la caricatura della attrice tragica (tipo la Duse o la Bertini) nella famosa paradia della Nemica di Nicodemi.
Desta stupore che con l’elevata scolarizzazione con una sempre maggiore attenzione nell’insegnamento e nello studio della letteratura piuttosto che dell’arte ai generi ed agli aspetto formali meraviglia che sia i soggetti che hanno predisposto la parte visiva che quelli che hanno assistito allo spettacolo possano aver creato gli uni e sopportato in silenzio gli altri un tale travisamento. Per altro non era il solo travisamento dello spettacolo e della sua cifra quello derivante dall’allestimento perché il peggio veniva dal palcoscenico dove per fare le graduatorie nessuno raggiungeva la misurata o stentata sufficienza.
A questo travisamento scenico è seguito quello in orchestra e concertazione. Se le movenze erano da farsa lo stesso era per l’accento e la scansione dei recitativi, che in difetto di autonomia dei cantanti il direttore dovrebbe insegnare loro. Nessuna scansione, nessuna ampiezza, nessun senso della parola da parte di tutta la compagnia di canto. Tralasciamo pernacchie di corni e ottoni e fuori tempo del coro (due interventi in tuta la sera) per parlare del suono meccanico e pesante di tutti gli accompagnamenti senza che fra le arie di furore e sdegno e quelle di comparazione l’orchestra abbia un colore ed un tono differente, spacciando pesantezza per solennità, clangore per grandiosità, secchezza per castigatezza (duetto fra i due innamorati).
Quanto ai solisti, Inga Kalna (Cinna) imita l’indiscusso eidolon della vocalità baroccara, signora Cecilia Bartoli, con una linea di canto spappolantesi a ogni nota che oltrepassi il sol acuto e una quinta grave vuota e sorda. Tacciamo dell’apparato cadenzale, che in condominio con le colleghe (massime con Marianne Crebassa – Cecilio) si caratterizza per scarsa fantasia e limitato tasso acrobatico, oltre che per l’esibizione di assoluta insipienza tecnica nelle transizioni dall’acuto al grave e viceversa. Abbiamo poi gustato una Celia (Giulia Semenzato) che si ingolfa sugli staccati della prima aria e squittisce le arie di paragone o genericamente brillanti e un Silla (Kresimir Spicer, sostituto nonché imitatore del forfettato divo Villazon) che guaisce e latra e per giunta recita -perdonate la ripetizione- come Alberto Sordi in Mio figlio Nerone (a conferma del fatto che la parodia è la vera chiave di volta di questo bel – si fa per dire – allestimento). Lenneke Ruiten, che sarebbe Giunia, è afona e verista nei recitativi, con una voce minimal da soubrette nelle grandiose arie concepite dal “maestrino” per la De Amicis. Il meglio di questa supposta primadonna si dispiega al finale primo, la grandiosa scena presso la tomba di Gaio Mario, massacrata anche da coro e orchestra, in sistematico décalage: nel canto degli amanti ritrovati non un accenno di legato degno di questo nome, non un colore o una scelta dinamica, a meno di non considerare scelta dinamica o peggio espressiva lo sfoggio, generosissimo, di suoni fissi. Vanno poi segnalati, nella prima parte del secondo atto (qui mutata in parte terminale del “primo tempo”, come al cinematografo d’antan), il cantar di sbalzo di Cecilio e della di lui fidanzata, l’aria di Cinna di fatto accennata, con acuti piccoli e gridati, di quelli che in altri tempi avrebbero fruttato all’esecutrice l’apostrofe, meritatissima, di “gallina”, la scena di furore del protagonista, che miagola il recitativo e urla l’aria, o ancora il terzetto Silla-Cecilio-Giunia, sulla carta tesissimo, qui privato di qualunque accento e ridotto a una pagina da intermezzo napoletano, l’ultima aria di Giunia, trionfo del canto in bocca ancora una volta di matrice baroccara (con tanto di acuto finale stonato e fisso, per giunta sulla tonica, scelta sulla cui antistoricità sono stati versati fiumi d’inutile, spesso compro inchiostro). E siccome il prescelto (e poi involato, non si sa se solo momentaneamente) divo aveva a Sasliburgo annesso l’ultima aria di Silla dalla versione a opera di J. Ch. Bach, questa viene riproposta anche in assenza del divo medesimo, dando modo al signor Spicer di coprirsi di ulteriore ridicolo, se un pubblico profondamente diseducato all’ascolto o forse solo ormai stordito dalla noia e dalla stanchezza non perdesse l’occasione di accettare rantoli e bisbigli per sublime arte vocale e interpretativa.

Domenico Donzelli, Antonio Tamburini

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11 pensieri su “Lucio Silla alla Scala: inutile paccottiglia

  1. ho assistito alla seconda rappresentazione, putroppo sono d’accordo con il commento principale di Tamburini sulle voci, specialmente sull’imbarazzante Kresimir Spice che non capisco come alla fine della rappresentazione abbia potuto raccogliere un discreto aprrezzamento. Non concordo sul giudizio negativo della resa scenica che invece ho trovato efficace e pertinente. Mi ha ricordato la pittura di David ed alle sue visioni classiche. In generale le tre ore abbondanti della rappresentazione sono per me volate con grande piacere e francamente suggerisco la visione dell’opera senza riserve, anche per scoprire un Mozart Milanese poco noto a molti.

  2. in effetti c’è molto poco da aggiungere al commento qui sopra (l’ultima aria di silla era uno strazio, non ridicola)

    durante la recita mi è tornata in mente una mia vecchia lettura (che non saprei citare adesso, ma potrei farlo con qualche ricerca) in cui si sosteneva che maria callas avesse eseguito giunia al teatro apollo di roma nel 1950. io – che evito di fare questi sogni – sognavo! :)
    sapete qualcosa a proposito o sono solo falsità messe in giro dopo qualche recita sfortunata di lucio silla?

  3. credo che in quella stessa stagione 1950 diretta da mitropoulos la callas cantò in italiano, però, elektra di strauss nel title role. Le cronologie riportano che klitemnestra fosse ebe stignani e la crisotemide madga olivero che aveva appena fatto la sua reentrée. Si dice che ci sia il nastro conservato in una cassetta in una banca svizzera (sai per via del marito dell’olivero, che era svizzero) dove si trova anche “in si barbara sciagura” un cilindro 1897 inciso da barbara Marchisio e l’aria di Desdemona cantata da Giannina russ. Otello di rossini!!!! ma sognavo ed il bel sogno svanì!!! ciao
    dd

  4. caro albino il giudizio sulla bacchetta te lo riporto estrapolandolo dal contesto così non devi rileggere!
    “A questo travisamento scenico è seguito quello in orchestra e concertazione. Se le movenze erano da farsa lo stesso era per l’accento e la scansione dei recitativi, che in difetto di autonomia dei cantanti il direttore dovrebbe insegnare loro. Nessuna scansione, nessuna ampiezza, nessun senso della parola da parte di tutta la compagnia di canto. Tralasciamo pernacchie di corni e ottoni e fuori tempo del coro (due interventi in tuta la sera) per parlare del suono meccanico e pesante di tutti gli accompagnamenti senza che fra le arie di furore e sdegno e quelle di comparazione l’orchestra abbia un colore ed un tono differente, spacciando pesantezza per solennità, clangore per grandiosità, secchezza per castigatezza (duetto fra i due innamorati…”
    ammira l’efficienza e la dimensione del servizio
    ciao dd
    se poi devo dirlo con povere parole mie” un pestasolfa baroccaro”

  5. Hai ragione sono stato superficiale nella lettura.ma diciamo che,senza voler essere offensivi,trattandosi di un giudizio inerente soprattutto al gusto,la mia era una domanda retorica.ho sentito il suo giulio cesare: velocita’forsennata,eccessiva asciuttezza,estremamente monocorde.eppure avevo sentito un suo buon amadigi,per nulla “baroccaro“ alla jacobs.

  6. RECITA DI SABATO 14
    A I U T O ! oltre l’assurdo ; lasciata ogni speranza non si poteva che ridere o ridacchiare di quanto avveniva in palcoscenico e di
    quanto aihmè udito ! Perfetta la vostra recensione;
    Aggiugno solo che la sera prima ho assistico agli arcimboldi al
    concerto dell’orchestra italiana di Renzo Arbore è assicuro tutti
    che è stata una serata vocalmente e musicalmente superiore a quanto propinato dal ‘massimo’ teatro lirico italiano!!!!!
    . Sono inorridito e attonito!
    Ma i loggionisti sono/siamo tutti morti ?

  7. alcune parti dell’articolo sono logicamente illeggibili, magari prima di pubblicarle una rilettura…
    mi fa morire il pubblico scaligero, che è capace di fare rumore solo su Verdi… della serie: fate pure uno schifo, basta che non lo facciate sul nostro Verdi!
    il loggione è in mano a dei 90enni, per forza di cose siete tutti morti.
    io vado stasera a vedermi questo Mozart, ma grazie per aver distrutto un capolavoro assoluto, quale è quest’opera.

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