L’elisir d’amore e Der Fliegende Holländer a Cremona

wagdonDopo l’Otello inaugurale, la stagione ASLICO prosegue con L’elisir d’amore e Der Fliegende Holländer. Due spettacoli molto diversi e dall’esito artistico opposto. Mentre infatti l’opera di Donizetti è stata eseguita con garbo e cura – nei limiti di una fisiologica scarsità di mezzi, a cui supplisce, però, impegno e coesione tra gli interpreti – Wagner ha mostrato tutti i limiti di un “passo più lungo della gamba”, poiché l’intento di onorare anche in provincia il bicentenario del compositore tedesco si è scontrato con la realtà di oggettivi impedimenti nell’affrontare una partitura decisamente più impegnativa. Entrambe le produzioni spostavano la vicenda negli anni ’50/60 del secolo XX – evidente pegno pagato alla moda odierna e all’obbligo di modificare l’ambientazione – ma mentre in Elisir la trasposizione in un’italia da “Ladri di biciclette” funzionava molto bene (merito anche della mano leggera del regista, che non carica di inutili trovate la già perfetta drammaturgia donizettiana), nell’Olandese si si è assistito alla replica in minore di certe suggestioni da “teatro di regia” tedesco: ma come scriveva Marx, la storia si ripete sempre due volte e mentre la prima è una tragedia, la seconda è una farsa. Già perché se alla scarsità di idee e al riciclo di trovate pseudo dissacratorie si aggiunge la scarsezza di mezzi, il risultato non può che essere grottesco: e non c’è nulla di più estraneo allo spirito dell’opera wagneriana – così intrisa di cupo romanticismo gotico – del comico involontario. E del brutto consapevole. Quindi si vedono suggestive video proiezioni di onde e tempeste marine, purtroppo inframezzate da ridicoli fantasmi o vascelli volanti che paiono usciti da un brutto video anni ’80, o immagini di bussole e carte marine che si muovono al ritmo della musica. Non mancano scelte incomprensibili che paiono derivare dalla mancata conoscenza del libretto più che dagli intenti di “modernizzarne” la drammaturgia: che senso ha, infatti, trasformare le donne all’arcolaio in apertura dell’atto II, in operaie addette alla stiratura? Sarebbe stato più logico rappresentarle come operaie tessili. Ma ancora, che senso ha trasformare la festa che apre l’atto III in una specie di sagra dove uomini ubriachi fanno trenini agitando le mani, fan gare di bevute (ci fanno grazia di quella di rutti) e si prendono a botte? Perché Erik è una guardia giurata? Il peggio però accade proprio durante il festino simil gay dell’atto III quando il coro dei marinai dell’Olandese, invece di suonare lugubre da dietro le quinte, viene “sparato” in sala da un altoparlante posto sul palco reale, che diffonde una base preregistrata a volume altissimo con effetti di distorsione (e chiasso di vento, catene, spumeggiare di onde) degni della casa dei fantasmi di Gardaland. Una vergogna! Una soluzione da concerto rock o da discoteca. L’opera si chiude in “bellezza” con il suicidio di senta che si spara (peraltro potevano almeno coordinare il rumore del colpo al gesto: in questo caso, invece, è partito mentre ancora non puntava l’arma alla sua tempia). In Elisir invece, l’ambientazione non strideva mai con la musica e la caratterizzazione dei personaggi emergeva con poesia e delicatezza (Nemorino non solo come stupido sempliciotto, ma anche bulletto di paese, Dulcamara imbonitore capace di sfruttare le nuove possibilità della TV – molto gustosa la sortita con la pubblicità in stile Carosello – il tutto inserito nelle campagne lombarde). Coerente con le differenti messinscene, era ciò che accadeva sul palco e in buca. Innanzitutto la bacchetta: il presunto enfant prodige Andrea Battistoni – lanciato da stampa e TV come fenomeno – ha rivelato, in questo Elisir di provincia, un’ottima conoscenza della materia e una grande capacità di tenere buca e palco (in presenza di un’orchestra non certo impeccabile), privilegiando l’aspetto ritmico e le suggestioni rossiniane più che la malinconica poesia che è comunque presente nell’opera (anche se Adina credimi e Una furtiva lagrima vengono dipinti con un giusto lirismo). Forse il direttore – parso immaturo in certi titoli (come Falstaff e Nozze di Figaro) ritrova nella più semplice creatura donizettiana una miglior sintonia, anche fuori dai riflettori che  lo continuano a puntare. Al contrario Roman Brogli-Sacher pare in difficoltà a gestire un’orchestra decisamente impreparata e inadeguata a reggere la partitura wagneriana: in particolare gli ottoni, invariabilmente slabbrati e stonati (i corni erano strazianti). Non è riuscito dunque a dare una lettura personale, preoccupandosi di portare a termine la serata: non per colpa sua, intendiamoci, ma per oggettive mancanze tecniche che avrebbero dovuto consigliare diversamente in merito alla scelta dei titoli. Idem per i due cast. Se in Elisir tutti gli interpreti sono stati apprezzabili – salvo la stanchezza finale di Adina (Lavia Bini) – in particolare Dulcamara (Paolo Vultaggio) e Belcore (Julian Kim), ma anche il Nemorino di Enea Scala ha convinto maggiormente rispetto a più discutibili esibizioni rossiniane, nell’Olandese le cose sono andate molto peggio: a parte il bel timbro di Thomas Hall (Olandese) c’è poco da salvare (pessima mi è parsa la Senta di Elena Nebera che ha letteralmente massacrato la ballata). Bravo invece il coro. Due serate opposte dunque, che ripropongono le due facce della provincia con tutti i pregi e i limiti.

35 pensieri su “L’elisir d’amore e Der Fliegende Holländer a Cremona

  1. Limitarsi ad un “non sono d’accordo” sarebbe davvero poco. Mi chiedo davvero a quali spettacoli abbia assistito chi scrive.
    Le opinioni dovrebbero basarsi su fatti, per essere credibili. La base pre-registrata di cui si parla, per esempio, non è un fatto ma una panzana. Dietro alla scena c’erano 12 coristi davanti ad un microfono, con accanto una macchina del vento e un gong. Amplificare l’intervento dei “fantasmi” è in uso ormai da tempo. E’ una scelta criticabile ma le forze produttive di Aslico non assicurano 30 persone fuori scena per un intervento di 5 minuti scarsi.
    Lo spettacolo, a mio avviso, era più che godibile, trascinante e cupo. Anzi, direi gotico e romantico, e non capisco come un ferro da stiro possa essere una presenza così scandalosa. Se chi scrive conoscesse il libretto, per altro, non si stupirebbe neppure del festino da ubriachi dei norvegesi nel terzo atto, che è esplicitamente concepito in contrasto con l’aura lugubre che promana dalla nave dell’Olandese.
    Assurdo il confronto tra Brogli-Sacher e Battistoni. Battistoni è stato fischiato a Brescia e chiunque lo ha guardato dirigere, ascoltando contemporaneamente l’orchestra, si è accorto che lui era da una parte ed essa dall’altra. A Cremona non sono successi disastri perché palcoscenico e buca lo hanno semplicemente ignorato. Portare a fine lo spettacolo, nel caso dell’Olandese e di Brogli-Sacher, dovrebbe essere un merito. Sono pochi quelli che ci riescono degnamente con Wagner e, allo stesso modo, sono pochi quelli che hanno il tempo e l’arroganza di pensare ad una propria interpretazione. I pomeriggi musicali e Aslico non hanno neppure il tempo di sognare ad una interpretazione epocale di Wagner, stupirsene è, appunto, da stupidi, considerato che ieri il Ponchielli era mezzo vuoto. Chi scrive l’articolo pensa che Olandese sia stato una scelta sbagliata, io credo che il giudizio debba seguire la conoscenza, e sono entusiasta che Wagner sia approdato nel circuito lirico lombardo

  2. Caro Thallo, potrei rigirarti la domanda: a quali spettacoli hai assistito?
    Davvero non so da dove cominciare:
    – parli di un Olandese “cupo” e gotico…certo, peccato che – come ho scritto nell’articolo – l’atmosfera è stata pesantemente compromessa da scelte involontariamente comiche: come definisci l’ologramma di quella “navicella volante” che saltella sullo sfondo? E le stiratrici che senso hanno? Ed Erik guardia giurata? A me sembrano soluzioni gratuite e poco riuscite. Ho dato atto che le proiezioni marine erano molto suggestive…
    – conosco bene il libretto dell’opera e ancora mi chiedo che c’entri quel festino goliardico con annesso trenino da veglione di capodanno!
    – ero seduto in settima fila di platea, il coro dei marinai dell’Olandese proveniva DISTINTAMENTE da dietro. Era sparato a tutto volume e distorto con un fastidioso effetto eco. Dici che il coro era dietro al palco: e perché usare un microfono…e se proprio lo si vuole usare, perché non usarlo meglio? A parte che i 12 coristi potevano mettersi direttamente sul palco reale, con un effetto musicale infinitamente migliore. Ad un certo punto era così alto il volume del vento e del coro di fantasmi che neppure si sentiva quello in scena (e cantava bello forte!)
    – ti assicuro che se il fine di un direttore deve essere portare a termine la serata, allora ce ne sono tanti lo fanno. E molto bene. Sacher-Brogli ha fatto ciò che ha potuto, ossia poco con un’orchestra che oggettivamente è inadeguata a reggere le richieste di Wagner…almeno per quel che riguarda i fiati (particolarmente sollecitati): forse da venerdì a domenica è accaduto un miracolo, ma alla prima i corni erano palesemente stonati, gli attacchi erano sempre sporchi e i tromboni suonavano a volume eccessivo.
    – e qui torniamo a Wagner: anche a me farebbe il suo approdo all’Aslico, ma visti i risultati, forse, occorreva preparlo meglio.
    – quanto ad Elisir: non sono certo un fan di Battistoni – anzi – però lo spettacolo cremonese (finito in un trionfo) è stato molto piacevole. Non vi sono state sbavature tra palco e buca.
    – poi parliamo anche dei cast…e non dirmi che quella Senta era accettabile

  3. Anch’io devo aver visto gli stessi spettacoli di Thallo… 😉
    Dell’ELISIR (la mia era la recita di domenica a Brescia) ho apprezzato il cast e lo spettacolo molto divertente. Invece ho trovato pessima, senza mezzi termini, la prova di Battistoni, buato, fischiato e invitato a un sonoro “vai a casa” durante gli applausi finali. Scuciture a non finire tra coro, solisti ed orchestra. Tempi catatonici seguiti da corse alla Ridolini. Male, male male.
    E poi io sarei un “buonista”… 😀
    Viceversa, non ho trovato così disastrosa la prova musicale dell’OLANDESE, che certo necessita un rodaggio, ma che ai nastri di partenza si è presentato con risultati più che accettabili.
    Dopo l’orrore scaligero, la regia (e l’impianto scenico) mi son parsi una boccata di aria pura: il mare, almeno, c’era.
    L’attualizzazione accettabile, tenendo conto che ormai è quasi inevitabile e comunque, tolta la pistolettata finale e le stiratrici al posto delle filatrici, la drammaturgia rispettata.
    Erik “guardiagiurata” ha un suo perché e giova all’approccio brutale con Senta, a cui a un certo punto sta per mollare -comprensibilmente- un ceffone, in contrasto con il fascino tenebroso e nobile dell’Olandese. Senta non m’è parsa così indecente: era un po’ nervosa durante la ballata, ma poi si è ripresa e a portato a buon fine la recita.
    Il coro dei fantasmi è stato amplificato, me lo hanno confermato i coristi e non preregistrato. L’organico è comprensibilmente ridotto, sia d’orchestra che di coro, ma per gli spazi angusti del Ponchielli e degli altri teatri associati mi sembra una scelta condivisibile.
    Poi è chiaro che, se vai a Cremona, sei cosciente di non andare a Bayreuth. Ma, mentre alla Scala mi sono irritato, qui me la sono goduta. Ingenuamente se si vuole con un Wagner un po’ ruspante che “odora di vanga”, ma genuino. E poi un tentavo di proporre Wagner si doveva prima o poi fare nella nostra provincia. Che in quella tedesca sai cosa circola, vero…

  4. Io non so che è successo a Brescia con Elisir, ma so cos’è accaduto a Cremona, in entrambi gli spettacoli… Capisco le pretese abbassate per via di certe circostanze, ma per l’Olandese si poteva/doveva far di più. Dici che il coro era “solo” amplificato…e va bene, lo sarà anche stato, ma il suono proveniva da dietro la platea, sparato a tutto volume e distorto: si poteva ottenere qualcosa di meglio con i 12 coristi (così mi dicono) messi sul palco reale invece che davanti al microfono. La Senta era accettabile dici? Ma se ha stonato per tutta la ballata? E gli acuti di Erik? Ne parliamo? E degli ottoni?

  5. Sono il tecnico audio/video di olandese. Posso confermare che il coro esterno c’era ed era amplificato e forse anche male. Non voglio prendere scuse ma purtroppo la mia vera prova audio non è stata nella generale ma nella sera del debutto. Non ho mai potuto effettuare una prova in sala con coro ed orchestra. Nella replica ho apportato alcune modifiche e i commenti di chi ha ascoltato sono stati migliori. Comunque sia non essendo direttamente in sala in mezzo al pubblico e non avendo che solo una possibilità si fa non poca fatica amplificare un coro in un teatro. Spero di migliorare ancora fin dalla prima a Como. Un saluto, Alberto

  6. Grazie mille Alberto: l’effetto alla prima era sgradevole (l’assenza di prove purtroppo gioca a sfavore di opere complesse come Olandese). Ma posso chiederti perché non è stato messo il coro direttamente sul palco reale..amplificando eventualmente i soli effetti?

    • Se devo essere sincero avevo pensato a questa soluzione ma al momento non ricordo perchè fosse stata cassata. Per me andrebbe benissimo anche perchè in quei momenti dell’opera ho diverse cosette da fare per i video e togliermi l’impegno di seguire anche l’audio mi toglierebbe un bel pó di stress. Comunque riproporró la soluzione consigliata. Un cordiale saluto, Alberto

  7. Glielo dico io perché il coro non è stato messo in palco reale. Perché al Ponchielli, come in tutti i teatri del circuito lirico lombardo, non esistono luoghi preposti alle regie tecniche, ovvero soprattutto alla regia luci. Questo posto è, nella quasi totalità delle situazioni, il palco reale. Questa ragione, assieme ad altre considerazioni di carattere tecnico (ci sarebbe stato bisogno di un riporto audio e di un riporto video del gesto del maestro, ci sarebbe stato un “delay” importante, il maestro del coro non avrebbe potuto dirigere l’interno perché impegnato fino a poco prima col coro in scena) ha impedito il posizionamento del coro interno lì. Se ci si rassegnasse una buona volta all’idea che la tecnologia audio risolve i problemi in teatro, allora si affronterebbero queste situazioni con più attenzione…
    Detto questo, è scorretto fino all’inverosimile il confronto tra Elisir e Olandese. Battistoni ha diretto male un’opera di repertorio, Brogli-Sacher ha diretto decentemente un’opera difficile. Mi chiedo, poi, come mai si parli sempre e solo di stupidaggini poco importanti senza sottolineare i pregi della produzione. Chi se ne frega dei ferri da stiro e del costume di Erik? Hall (l’olandese) aveva una voce della madonna, e non ne ha parlato. Erik è stato bravissimo, come presenza scenica, vocalmente e musicalmente, e se afferma il contrario mi chiedo quale curriculum abbia lei per affermarlo. Possiamo parlare dello stile di Daland, ma la voce era grande, bella e la presenza scenica invidiabile. Senta non è la migliore cantante che ho sentito nella mia vita, ma NON ha stonato. Direi che è quasi impossibile stonare con quell’orchestra che ti urla l’accordo nelle orecchie. Piuttosto sarebbe criticabile il suo timbro, il suo modo di mettere la voce e di prendere gli acuti, ma a Cremona mi va più che bene una cantante che regge tutta l’opera, passa perfettamente l’orchestra gigantesca richiesta da Wagner e va a tempo. Per altro, giustificare Lavinia Bini, che non è riuscita a reggere bene un’opera di repertorio, con sotto l’orchestra donizettiana, e criticare la Senta del Ponchielli mi sembra scorretto.
    Tutto il resto sono pretese da frustrati di provincia, legati al CD che non hanno idea di cosa significhi la vera produzione musicale. A me sono venute le lacrime agli occhi sapendo che FINALMENTE si sarebbe fatto Wagner a Cremona e nel circuito lirico lombardo. Ma domenica la cittadinanza era più interessata alla festa del torrone. Che dire, se quelli che vengono in teatro hanno il suo atteggiamento acido, le consiglio davvero di andare a mangiare qualcosa di dolce alle bancarelle

    • caro Thallo, personalmente discuto uno solo dei suoi argomenti, quello di principio.
      Trovo sbagliato che la provincia si cimenti da qualche tempo in qua in titoli che nemmeno i grandi teatri sono in grado di allestire come diocomanda. Oggi siamo al cospetto dell’inflazione generalizzata della lirica, per cui tutti cantano tutto e si allestiscono opere che sino ad una trentina d’anni or sono, quando ancora esistevano cantanti di prima e seconda fila, nemmeno ci si permetteva. Olandese, assieme a puritani, otello, vespri siciliani etc sono casi esemplari se si fa riferimento al circuito lombardo, ma la questione si potrebbe generalizzare. delle lacrime agli occhi perché Wagner arriva a cremona poco ce ne facciamo, nel senso che il principio dell’andare in scena dovrebbe ancora essere, ad ogni latitudine, allestire ciò che si può allestire con dignità. E non è che obbligare con la retorica delle piccole cose, degli begli sforzi, dell’abbassare l’asticella a seconda del teatro, si faccia un teatro migliore ed un migliore servizio alla musica. semplicemente si istituzionalizza una forma di pensiero per cui tutti fanno tutto, anche in parrocchia: siccome siamo una parrocchia di dilettanti applaudite il nostro sforzo, lo siamo ma lo facciamo con amore e per questo ci dovete applaudire. E poi di ciò che si vede e sente chi se ne frega, e tutto finisce compromesso come accade or ora.
      E’ ora, e lo dico in generale senza paura di riconoscere le valide cose allestite dal circuito lombardo in questi anni, di gettare la retorica alle spalle e ricominciare a fare solo ciò che sappiamo di poter fare. e di fare bene, in assoluto, perché le storture che impediscono alla lirica di sopravvivere, di rigenerarsi, nascono da comportamenti e principi di selezione degli artisti basati più sul volemose bbene, siamo tutti amici, tutti ci diamo all’arte, l’arte è di tutti, siamo tutti artisti e robaccia retorica e vuota del genere, che non fa altro che corrodere e degenerare ogni criterio qualitativo necessario al sostentamento di questa come di ogni altra forma artistica. filastrocche che poi, portate nel grande, rendono lecito il marketing più spietato degli artisti e il giustificazionismo imperante sui fondamenti di questo mestiere. non ce lo siamo dimenticati l’adagio scaligero del ” si butta”, ” da se stessa” per tiziana fabbricini in violetta, non molto diversi alle sue lacrime agli occhi. Spiacente ma la soluzione al cambiamento, ammesso sia possibile, è il ripristino di valori qualitativi VERI, quelli generatisi all’interno della storia del canto lirico, tra cui il riconoscimento di gerarchie di valori e di tassi di difficoltà esecutive specifiche delle singole opere, dei singoli compositori. Wagner non è mai andato a cremona perché a cremona non c’è mai stata orchestra da Wagner, ed in italia per tanto tempo la sola orchestra che poteva dimostrare con milano era bologna. cremona continua a non avere orchestra da Wagner e Wagner sarà sempre zoppo in partenza. il provincialismo non è pretendere che si suoni come si deve suonare, ma credere di poter suonare Wagner senza il requisito più impegnativo per un teatro ( il cantante lo si scrittura per l’occasione specifica, l’orchestra è stabile )ossia l’orchestra, quindi la bacchetta. e se non si capisce come deve essere un’orchestra adeguata a Wagner, quanto sia impegnativo creare il presupposto tecnico, un certo tipo di suono etc per essere adeguati al compositore vuol dire che non si ha la preparazione sufficiente per fare. non ci si riempie la bocca con i titoli, occorre vantare una qualità, tanto più complessa da ottenere quanto più complesso è ciò che si manda in scena. se non si hanno gli strumenti per farlo, si faccia ciò per cui si è adeguati. “provincia” è un termine che non ha mai significato qualità scadente o pubblico incompetente che deve trangugiare tutto….

  8. Completamente d’accordo con Giulia, che centra esattamente la questione. Il sottoscritto – insieme ai colleghi del sito – mai ha trattato la “provincia” con toni snobistici o pretese eccessive. Tutti noi abbiamo sempre apprezzato il lavoro fatto da realtà territoriali in difficoltà e che restano escluse dai maggior benefici dei contributi statali (spesso regalati a istituzioni che non ne hanno bisogno o non le meritano). Personalmente ho sempre apprezzato gli sforzi dell’Aslico nel produrre spettacoli dignitosi in cui l’impegno e la cura supplivano, spesso, a oggettive carenze strutturali o artistiche. Del resto non si può andare al Teatro Ponchielli illudendosi di essere alla ROH. E questo è un fatto mai sottostimato dal sottoscritto e dal sito. A Cremona ho visto spettacoli ottimi, buoni, discreti e anche pessimi. Capita. E ho sempre cercato di riferire una cronaca sincera e scevra di preconcetti: proprio non ci sto a passare per acido incontentabile con pretese assurde. I due spettacoli che ho visto sono stati diversissimi tra loro. Ho apprezzato Elisir non perché fosse perfetto (né posso essere considerato un fan di Battistoni o Scala: anzi…spesso ho scritto delle disastrose e rispettive esibizioni di entrambi), sarei disonesto, però, se scrivessi per puro pregiudizio contro i suddetti artisti all’esito dello spettacolo donizettiano a cui ho assistito. Non che se l’opera sia più abbordabile – ed Elisir è oggettivamente più abbordabile dell’Olandese – allora deve essere apprezzato in modo minore. Più abbordabile non significa più facile. In Elisir ho visto garbo e cura – con mezzi scarsi certo – per una serata nel complesso molto piacevole (a Cremona almeno: non c’ero a Brescia o a Como). Cosa che non ho visto in Olandese. Facciamo grazia della retorica: davvero ci vorrebbe più umiltà. O meglio più consapevolezza. Wagner richiede determinate prestazioni all’orchestra che I Pomeriggi Musicali non possono garantire: persino numericamente. Wagner non è Cherubini (eppure Medea era ben più complessa di Elisir) e affidarsi solamente all’impegno e alla riconoscenza per il bel gesto è sbagliato. Non è obbligatorio fare Wagner a Cremona. Certo sarebbe splendido, ma ad oggi è un “vorrei ma non posso”…

    • Ancora una volta, critico un dato. “Numericamente” i Pomeriggi possono tutto e il contrario di tutto. Se si avesse un minimo di conoscenza di come vanno le cose in teatro, in generale, e nel Ponchielli, nello specifico, si saprebbe che i limiti sono della buca. E della partitura. A chiamare 60 violinisti in più i Pomeriggi non ci mettono nulla, il problema è che 60 violinisti in più non ci stanno in buca. Grave vulnus della produzione è questo, alle orecchie attente sarà balzato il mancato equilibrio tra archi e ottoni, perché i secondi non possono essere diminuiti di numero.
      Mi lasci scrivere, Duprez, che se si fosse parlato di questo nella sua recensione, invece che del costume di Erik, sarei stato ben felice di intavolare una conversazione piacevole. In cui, comunque, avrei concluso che dal mio punto di vista è meglio un Wagner a ranghi ridotti che niente Wagner.

      • Lo squilibrio tra archi e ottoni era evidente, ed evidentemente il numero ha giocato a sfavore (so quali sono i limiti della buca), certo è che non è scritto da nessuna parte che gli ottoni debbano perennemente suonare sul “forte”, come era venerdì, soprattutto dal lato destro della buca.

  9. Trangugiare tutto? Lei, o chi scrive l’articolo, o me, o altri, siamo tutti parti di un mercato in cui siamo liberissimi di non acquistare. Millantate di avere una conoscenza del mondo della produzione operistica (e mi permetto di dubitarne), e sapete benissimo che le produzioni di Aslico usufruiscono di una sola orchestra, quella dei Pomeriggi musicali. Ma allora perché non vi tenete i soldi in tasca e comprate altri biglietti, piuttosto che guardare uno spettacolo di cui siete già certi in partenza che parlerete male? Scrivo al plurale perché considero il suo commento (Giulia Grisi) una difesa d’ufficio nei confronti di Gilbert Duprez. Non mi risulta, infatti, che lei abbia assistito allo spettacolo di cui si parla, a meno che non affermi il contrario. Questo mi fa pensare che lei dia più fiducia al giudizio del suo collaboratore piuttosto che al mio. Mi farebbe piacere conoscerne il perché. Mi farebbe piacere avere più informazioni su Gilbert Duprez, il blogger, avere ragione di fidarmi del suo giudizio e non per pura simpatia ma dopo aver valutato un curriculum.
    No, perché, se si parla di qualità e di valore, in teatro ci sono musicisti e cantanti che si esibiscono con nome e cognome, hanno studiato per fare il proprio lavoro e vengono pagati, non solo in provincia, per farlo. Se esistono convenienze e inconvenienze teatrali, esistono convenienze e inconvenienze critiche. Chi esprime giudizi dovrebbe accettare il giudizio degli altri su di sé. La recensione anonima è, di per sé, scorretta, ma diventa vile, a mio avviso, quando si trasforma in acido pamphlet.
    Soprattutto, in un’arena di questo tipo, il mio giudizio vale tanto quanto quello di Duprez. Nessuno conosce la nostra vera identità, i nostri studi, le nostre capacità musicali. Lui dice che Senta ha stonato. Io ho assistito, per privilegi di cui godo felicemente, ad alcune prove di assieme, alla prova generale e ad entrambe le recite finora andate in scena. E dico che non ha stonato. Per evitare che il mio giudizio sembri una semplice difesa stolida, dico perfino che ha fatto degli errori, in generale c’è stata anche una stecca, e di certo non impazzisco per la tecnica e la voce della sig.ra Nebera. Ma reputo assurda la recensione della sua performance fatta dal sig. Duprez.
    Da cui ne deriva il mio metro di giudizio, e di qualità, e di valore. Io valuto questo Olandese un ottimo spettacolo. Penso che non siamo di fronte alla morte dell’arte e non credo che mi attaccherò alle tende deprecando gli usi contemporanei.
    Voi fate come credete. Unicuique suum.

    • Beh, Thallo…la ballata di Senta è iniziata con qualche bella stonatura ed è proseguita tra incertezze. E non lo dico solo io. Quanto agli altri interpreti – visto che me lo chiedi con insistenza. Thomas Hall ha sfoggiato bel timbro e buon controllo, salvo poi – verso la metà dell’opera – mostrare la corda soprattutto negli acuti. Il Daland di Patrick Simper ha ecceduto, a mio gusto, nella caratterizzazione “gaglioffa”, e la voce ondeggiava spesso pericolosamente. Di Senta ho già detto. L’Erik di Kor-Jan Dusseljee, aveva sì un certo squillo, ma l’emissione era acidula e nasale, troppo sforzata nell’intento – forse voluto – di presentarsi come personaggio violento e volgare. Contento?

    • guardi noi non millantiamo nulla, se proprio la mette su questo piano.il sito è qui, tutto da leggere, e di cose ne ha dette e parecchie in questi anni. Quanto a lei, non so chi sia né cosa faccia di mestiere ma non mi permetto di sindacare quanto conosca e sappia del mestiere, anche se forse sta lei provare quanto conosca.
      Dubitare di lei che ha scritto due post è più facile che dubitare di noi che ne abbiamo prodotti centinaia.la competenza sta in ciò che si dice, nei contenuti, come la qualità artistica sta nel prodotto artistico in se stesso. lei è già nel trito terreno delle chiacchiere, le manca solo il più ridicolo e squallido dei luoghi comuni, cioè che chi non canta non può parlare di canto. duprez non ha bisogno di difese d’ufficio, lo sa fare benissimo da sé né in questo sito l’unità di vedute è presupposto allo scrivere, anzi ( ma forse lei nemmeno questo ha capito ). ho espresso la mia opinionne sul fatto che ci si permetta di mettere in scena olandesi, otelli, come i vespri siciliani penosi che stanno attraversando l’emilia romagna in nome delle lacrime, di una falsa emotività che è fatta solo di ciance di fronte alla necessità di riprendere il filo del fare bene e con vero significato il teatro lirico, e smetterla con le millanterie o la vanità di cimentarsi in cose che sono ormai fuori dalla portata di certi teatri. non ci riesce più nemmeno Bayreuth a fare bene Wagner, ma volete farlo a cremona? se per lei è tutto indistinto, buon per lei. io la penso molto diversamente!

      Detto questo, il discorso è finito.

      Ps una sola nota in fatto di competenza musicale: tu insegni educazione musicale, ma duprez è diplomato in oboe….non credere di essere tanto speciale o che qui si sia degli sprovveduti che non pensano prima di scrivere. sei molto ma molto più giovane di svariati di noi, tanto per parlare di esperienza. pensaci prima di insultare, ok? ciao

  10. Caro Er Gratta, ci terrei a dire che Peter Konwitschny, il figlio di Franz, è tutt’altro che un degenerato di famiglia, come tu sembri insinuare. E’ invece un vero, verissimo Konwitschny, del tutto degno dell’illustre genitore. Un grandissimo regista, uno dei più grandi del nostro tempo.
    Ciao
    Marco Ninci

    • Addirittura? Un Don Carlos con Posa’s Pizza e una “presentatrice TV” che parlotta sopra l’autodafé (iniziato “a sorpresa” mentre il pubblico stava nel foyer); una Salome che finisce con Herodiade sodomizzata da tutti i presenti con membri, dita, mani e pure con una bottiglia di champagne mentre Herodes sodomizza il cadavere di Narraboth; un Lohengrin ambientato in una scuola elementare durante l’intervallo: a me questa pare merda. Pura e semplice.

  11. Cito Thallo:
    “Senta non è la migliore cantante che ho sentito nella mia vita, ma NON ha stonato. Direi che è quasi impossibile stonare con quell’orchestra che ti urla l’accordo nelle orecchie. Piuttosto sarebbe criticabile il suo timbro, il suo modo di mettere la voce e di prendere gli acuti, ma a Cremona mi va più che bene una cantante che regge tutta l’opera, passa perfettamente l’orchestra gigantesca richiesta da Wagner e va a tempo. “
    “Io ho assistito, per privilegi di cui godo felicemente, ad alcune prove di assieme, alla prova generale e ad entrambe le recite finora andate in scena. E dico che non ha stonato. Per evitare che il mio giudizio sembri una semplice difesa stolida, dico perfino che ha fatto degli errori, in generale c’è stata anche una stecca, e di certo non impazzisco per la tecnica e la voce della sig.ra Nebera. “

    Insomma, secondo Lei questa cantante non mette bene la voce, non prende bene gli acuti, fa degli errori, ha steccato… e non stona, perché “è impossibile stonare con l’orchestra che ti urla l’accordo nelle orecchie”?

    Guardi che le competenze non si appendono al muro in cornice assieme ai diplomi e alle lauree, si dimostrano nelle argomentazioni.

    “No, perché, se si parla di qualità e di valore, in teatro ci sono musicisti e cantanti che si esibiscono con nome e cognome, hanno studiato per fare il proprio lavoro e vengono pagati, non solo in provincia, per farlo.“

    La differenza tra i musicisti/cantanti e Duprez è che, come ricorda giustamente Lei, i primi vengono pagati, il secondo paga per vederli. Lascio al suo intuito la postilla sul chi abbia diritto di criticare chi.
    Un artista sa nel momento in cui si tuffa nel mestiere che verrà criticato per tutta la vita, in primis dal critico più intransigente, cioè sé stesso. Sa che i risultati non per forza saranno proporzionati agli sforzi e ai sacrifici, in quanto all’arte si può dare ma non si può pretendere. Se non si ha voglia di convivere con questa realtà si può scegliere un altro mestiere.

    Sul discorso delle produzioni in provincia, la scelta dei titoli dovrebbe avere criteri più complessi del numero di violini, grandezza della buca, anni di assenza di un titolo dalle scene sul territorio, altrimenti il direttore artistico potrebbe essere un software. La provincia è stata la parte sommersa di un iceberg, quello del movimento operistico italiano, di cui tutti hanno celebrato solo questo o quel teatro, cantante, direttore… Altro che curricula, qui manca proprio la consapevolezza del tipo di mestiere richiesto e, cosa ancora più grave, delle finalità da conseguire.

    • finalità da conseguire, mi interessa molto questo argomento. Io credo nella musica come costante antropologica, non come atto con finalità. Apprezzo chi canta sotto la doccia e quando pago per ascoltare musica (non lo fa solo Duprez) non penso che il mondo frema nell’attesa di un mio giudizio, cerco solo di godermi una bella serata.
      Detto questo, tutte le volte in cui ho letto recensioni su questo blog (che è un blog, non una testata giornalista né tanto meno una rivista accademica) ho trovato grandi considerazioni sulla tecnica vocale e minori considerazioni sulla musica nel suo complesso. Pur avendo studiato canto, e lavorando nel mondo del canto, io non considero il giudizio sulla tecnica vocale come prioritario nella valutazione di una performance d’opera. Forse perché mi accontento, forse perché credo in un approccio olistico all’ascolto musicale, ovvero mi annoia scindere i vari elementi di una performance e preferisco fare la media dei pro e dei contro, ancora di più, forse, perché nel mondo dei cantanti la tecnica è un feticcio così pesante che preferisco ignorarla e basare i miei giudizi su meri dati musicali.
      I dati musicali “oggettivi”, quelli su cui, a mio avviso, i critici musicali possono discutere seriamente, sono abbastanza basilari: ritmo, intonazione, fraseggio, aderenza alle richieste dello spartito. Credo che la Senta di questa produzione sia stata più che sufficiente, in relazione a questi elementi di giudizio. E questo a me basta. Una stecca non mi scandalizza e non mi fa sobbalzare sulla poltrona, ed il fatto di aver pagato il biglietto non mi fa sentire più autorevole di nessuno. L’idea del “pago e pretendo” è abbastanza gretta, ma soprattutto elimina tutto il valore che secoli di filosofia occidentale hanno dato all’ascolto della musica. Tranne che in rare situazioni, io cerco di prendere il meglio dalla musica che ascolto.
      E le volte in cui ho scritto di musica o di spettacoli o di registrazioni ho sempre cercato di dare conto dei pregi più che dei difetti.

      • caro thallo, molto di ciò che scrivi è condivisibile, ma non tutto. l’idea che pago e pretendo ti pare gretta, ma non si pone nei termini in cui tu la credi posta. sono spettatore ed ho il diritto di pensare, di stabilire io quello che mi piace o meno, come di esprimermi. l’approccio olistico al canto è idea corrente e solo contemporanea, fatto di reiki per migliorare la propria artisticità, fumi assortiti, sentimentalismi esteriori, energie mistiche etc.. che a me suonano un po’ come cultura da centro estetico. il canto, come il suonare qualunque strumento, o dirigere o altre discipline artistiche è saldamente basato sul dominio tecnico dei ferri del mestiere. più si domina il proprio strumento e più aumentano le possibilità espressive di ciascun individuo. più grandi sono i limiti tecnici e più la libertà espressiva sarà condizionata, limitata, zoppa, e tutto il farneticare sull’arte sarà solo la chiacchiera su scelte non libere. quindi non sarà mai arte, per raggiungere la quale occorre lavoro, disciplina, adeguatezza a ciò che si fa, capacità, cultura storica e stilistica, tutti aspetti saldamente e razionalmente fondati in modo e misura ben diversi dalle genericità emotive delle discipline olistiche. chi non ha strumenti si rifugia nelle credenze e nella superstizione professionale, come chi non ha fede si rifugia nei centoni religiosi new age che anziché mettere a fuoco la persona, la imbambolano con un qualunquistico buonismo che sfogia nella superficialità e nella banalità. quanto al pubblico, è in re ipsa che il conoscere, il pensare, l’amare una certa forma artistica porti con sé una forma di pensiero. solo oggi, dove tutto è imposto dall’alto ed i valori in campo sono bassissimi, si pensi che il pubblico non deve né pensare né esprimersi, perché fa comodo ad un meccanismo marcio e putrefatto che orami sta per chiudere i battenti. situazione chiara, oggettiva e…assai poco olistica.

        • a chi cercasse su google il termine “olismo” apparirebbe tra i risultati una pagina di wikipedia, la cui prima frase copierò io per comodità:
          Quando, nella mia frase, ho parlato di approccio olistico all’ascolto, non mi riferivo alla New Age ma al significato letterale dell’aggettivo (che è di derivazione greca e tradizione occidentale, non è affatto un atteggiamento moderno): scindere una performance in elementi non dà conto della sua unitarietà, ignora la famosa “mozione degli affetti” che da secoli viene considerata primo “fine” della musica. Ma sono una persona onesta, onesta accademicamente, e non mi sognerei mai di parlare di “arte” in modo banale, o di mozione degli affetti come morale estetica.
          Ma questo è un altro discorso, che credo non vi interessi particolarmente.
          In postilla: se il “tu” di qualche messaggio fa si riferiva a me, beh, no, non insegno educazione musicale.

          • ritenevo che il tema fosse esaurito tempo fa. la PAsta scrisse a lungo sul tema dell’olismo, che in opera funziona come LOGICA COMPENSATORIA di cui la nostra cara pasta ci ha parlato tempo fa nei suoi brillanti post sulla wagnerizzazione del repertorio , le logiche compensatorie appunto. non so se l hai letti, ma la risposta alla tua definizione è già data là.

      • Mi permetto di commentare in risposta “diffusa”, premettendo che non ho avuto ancora modo di assistere ad Elisir.
        Sono vicino all’ambiente di cui si parla, conosco molte persone che hanno lavorato e lavorano tutt’ora in aslico, e molti che non ci lavoreranno più. Sono anche un semplice amante di opera (ma le mie conoscenze sono un infinitesimo rispetto ai frequentatori di queste pagine) ed in quanto amante in senso lato la cerchia di emozioni quando vi ho a che fare è la più ampia. Per intenderci, a me la Traviata con la Netrebko e Villazon non dispiace, e so che molti di voi avranno un’espressione di disapprovazione leggendolo.
        Ecco perché, dopo aver assistito alla prima di quest’Olandese a Pavia sono stato preso da sentimenti contrastanti. Il piacere ed il brivido, sì, ma anche l’essere combattuto, il dubbio, e poi la delusione, l’amaro in bocca.
        I primi perché, avvicinandomi relativamente di recente a Wagner, ho iniziato ad apprezzarne le meraviglie che, nonostante tutto, possono fuoriuscire dalla musica scritta, anche quando concertata o allestita in maniera non adeguata. Il resto perché, pur apprezzando lo sforzo della scommessa di una produzione di Wagner in un ambiente distante, non mi ha lasciato quasi nulla.
        Certo, ho assistito dal vivo ad una recita di Fliegende Holländer allestita a pochi km da casa mia, ma con che risultato?
        Apprezzare lo sforzo è un conto, e credo che, per quanto si possa esser critici in quest’ambito, non sia nemmeno corretto abbandonarsi ad elogi solo per lo sforzo. Non stiamo parlando del saggio di piano della nipotina, che anche se ha segato mezzo pezzetto e senza un minimo di costanza ritmica, è stata bravissima. Stiamo parlando di una produzione sì provinciale, ma comunque lirica professionale. Quindi, mi dispiace (davvero), ma non posso dire che sia stata obiettivamente una bella esperienza, né un bell’allestimento. Se una cosa non si sa o non si può fare, per quanto si apprezzi lo sforzo, parlando di una produzione (e quindi, permettetemi il nesso, un prodotto) deve funzionare, non basta lo sforzo. Se McDonalds vendesse piatti di alta cucina, per quanto si sforzino, sarebbero prodotti dalle loro cucine, dai loro “cuochi”, con i loro mezzi. Andreste a mangiare da loro apprezzandone lo sforzo? (e non sto paragonando aslico a mcdonalds, beninteso)

        Non me ne intendo abbastanza per dare un giudizio attendibile sul canto, anche se riconosco il valore del baritono e non mi ha convinto appieno Senta – piacevole, ma nemmeno impeccabile. La scelta registica ha sempre i suoi pro e contro, la scelta delle stiratrici invece delle filatrici può far chiedere “perché?”, ma ai fini dell’opera forse non è nemmeno così fondamentale (sebbene Mary risponda “io filerò”, mentre è palese che lì sia l’unica a non filare/stirare). Ma forse se si ha l’elasticità di ragionare per metaconcetti (altrimenti il 90% delle produzioni sarebbe da cestinare, ad esser puntigliosi) si può anche convenire che l’adattamento non nuoccia così tanto. Per contro l’aspetto visivo, che di suo poteva anche funzionare, è stato palesemente rovinato da videoproiezioni fatte bene a metà. Abituato all’uso di queste tecnologie, alle prime scene del mare ero quasi colpito: finalmente una videoproiezione non invasiva, coerente e piacevole. Finché non è apparso uno scatolotto che si muoveva a scatti sulla riva. I primi corti della Pixar avevano un rapporto di realismo esponenziale al confronto – e parliamo di 25 anni fa, secoli per l’informatica. E da lì un continuo di proiezioni poco significative, inutili o insensate (una carta marina che mostra il pacifico?), fino alla nuova partenza del vascello, di nuovo a vomitevoli scatti. Sinistra-fermo-alza-vai. Ho visto più realismo nei primi episodi di Star Trek del ’66.
        Confermo altresì la presenza del vero coro (più macchina del vento e gong) dietro le quinte. E qui, lo sconforto. Era fastidioso per tutti.
        Mi dispiace per Alberto che ha commentato qui sopra (fidati, conosco i problemi logistici, pratici ed economici cui andate incontro, specialmente quando c’è da discutere con registi, direttori di scena, produzione e via dicendo), e lo capisco. Nessuna prova fonica seria, nessuna verifica diretta del suono, nessuna qualità.
        La scelta di avere il suono alle spalle della platea non è criticabile di per sé (ha anche senso avendo il coro che canta nella direzione giusta e può funzionare), ma amplificare così non significa nulla. Le possibilità c’erano: senza l’altoparlante, nel palco utilizzato per i sovratitoli ci stavano comunque almeno altre 8-9 persone potendo vedere il direttore (gli altri potevano stare poco dietro “seguendo” i compagni); utilizzare un secondo palco nell’ordine superiore e/o eventuale riporto video; fare una prova fonica seria con un’equalizzazione, un volume ed un sistema audio adeguato. E sono le possibilità più semplici, ce ne sarebbero altre, anche registicamente affascinanti. Invece no, si raffazzona una cassa qualsiasi, la si mette col volume “alto”, si microfona e via. E la tecnologia audio permette molto di più, basta un po’ di intelligenza.
        Questo purtroppo è il sunto di tante scelte organizzative e tecniche pessime che ottengono sempre risultati di scarso valore, soprattutto nel lungo termine: il pubblico viene talmente abituato ad un certo tipo di mediocrità, che poi crede sia giusto così. Ed i risultati li abbiamo a qualsiasi livello, basti vedere gli elogi alla Traviata di sabato scorso.
        Ad aslico va indubbiamente riconosciuto il giusto merito nel continuare a sforzarsi portando avanti il teatro lirico in un periodo ostile, ma, come dicevo sopra, non basta riconoscere lo sforzo. La critica è importante e, anche a fronte di uno sforzo, va fatta.
        È vero, 60 archi non ci stanno nelle buche del circuito lirico lombardo (e cmq ho da ridire sul fatto che ai pomeriggi non costi nulla avere tutti quegli archi, ormai cominciano a sentire pure loro gli acciacchi della “crisi”). Allora o non si fa Wagner, oppure si adeguano dinamica, sonorità e bilanciamento dell’orchestra. Fare le cose a metà solo per dire “abbiamo fatto lo sforzo” non significa nulla. Ho visto allestimenti di opere di un minimalismo scenografico sconcertante, ma fatti con intelligenza e gusto: con poche centinaia di euro si ottenevano risultati comunque molto più gustosi di un’animazione a scatti che rovina una scenografia ed una scena.
        Aveva senso provare a fare un Olandese volante “provinciale”? Sì, ma non con le solite premesse (quindi no). Perché ormai subiamo ovunque decenni di mala evoluzione dovuti principalmente a 3 fattori: tradizione, lavoro (sindacalismo) e moda mediatica. La tradizione nel senso più lato (“si è sempre fatto così”) si scontra con un mercato del lavoro contorto (che strapaga primedonne di poco valore, fa sprecare migliaia di euro per una videoproiezione di bassa qualità e poi non ha soldi per 2 aggiunti in bandina, un’amplificazione audio decente o rinunciare ad un palco per il coro) e delle mode insensate da seguire “perché il pubblico vuole così” (???).
        La musica – l’opera – ha bisogno di ben altro. Se poi viene a mancare anche questa, peggio ancora. E mi dispiace, Tholle, ma sulla tecnica non si può aver da ridire. Certo, nessuno pretende la perfezione assoluta-costante-sempre, di Scotto e Toscanini non ne nascono tutti i giorni – e, giustamente, non vengono a lavorare in aslico; nessuno vuole delle macchine (la stecca, lo scrocco, possono capitare, ma è un altro discorso), ma musica e tecnica non sono nulla da sole: si possono avere lievissime lacune in un senso o nell’altro, ma ci sono dei requisiti che vanno rispettati e bilanciati a seconda dell’ambito – altrimenti tanto vale ascoltare giulia mazzoni (no, vi prego, non fatelo). La Lirica richiede profonda capacità tecnica ed espressività musicale; entrambe, non si scampa.
        Quindi non si pretende di avere un Holländer da Bayreuth al Ponchielli. Ma un conto è lo sforzo encomiabile a fronte di un risultato più che dignitoso (ed Aslico come altri han saputo dimostrarlo in più occasioni), un altro è credere di vincere il campionato in serie A avendo solo due attaccanti validi ed uno sponsor.
        Si possono fare le cose in grande anche con poche risorse, ma bisogna impegnare quelle giuste risorse dove servono, non solo sprechi qui e là. Ecco perché avremmo potuto avere un bellissimo Olandese, ma non l’abbiamo avuto.
        Scusate la prolissità, il disordine (e le parentesi). Avete toccato tanti argomenti, tutti mi stanno a cuore e mi era difficile rispondere senza perdere il filo.

  12. Le “finalità da conseguire” non erano evidentemente riferite a chi paga per entrare a teatro, discorso certo nobilissimo sul quale intellettuali di ogni epoca hanno argomentato in modo più analitico e interessante di quanto possa fare io, ma a chi ha la responsabilità artistica di un teatro e deve decidere sul cartellone. Anche questo è un tema non da poche righe di commento su un blog, con tutto il rispetto che ho per questo e altri blog, ma già parlandone a grandi linee trovo curioso come si discuta sempre di mezzi (non solo denaro, ma anche orchestra, buca, palcoscenico, coro…) senza mai discettare sull’intrinseca valorizzazione di questi. Faccio riferimento ovviamente non a beni materiali, ma alle risorse umane. Il direttore artistico di un teatro di provincia non è solo colui che offre un prodotto al pubblico di piccole o medie città italiane, ma è anche l’interfaccia tra un territorio, i talenti musicali che produce, e il mondo per esempio dell’opera. Individuare i talenti del luogo e capire quale tipo di repertorio possa incrementare e valorizzare le loro qualità naturali, proteggendoli dal gorgo commerciale che ovviamente attraversa ogni arte, è un elemento chiave che lubrifica e fa funzionare un movimento artistico. Certo, richiede orecchio, competenza, profonda conoscenza del territorio e delle sue realtà e una presenza costante in tutti gli eventi che vi si tengono. L’esempio sui cantanti o sui direttori di orchestra è più scontato, ma lo stesso vale per gli altri musicisti e per le masse artistiche. Di certo quando un direttore artistico lascia un teatro di provincia, il giudizio sul suo operato dovrebbe riguardare – più che biglietti venduti, grandi nomi chiamati e titoli famosi rappresentati – quali artisti ha scoperto, instradato, cresciuto e le condizioni in cui ha trovato le masse e quelle in cui le lascia, visto che in questo caso si parla di valori “del” teatro. E queste “finalità” si raggiungono anche con scelte mirate di repertorio, quindi di titoli in cartellone.

  13. Ho assistito all’Olandese di Pavia, secondo Turno (ottava ed ultima rappresentazione nel circuito).
    Che dire? Da semplice appassionato d’Opera , e non da addetto ai lavori, non posso che concordare con quanto dice Thallo:
    “ … Hall (l’olandese) aveva una voce della madonna, Erik è stato bravissimo, come presenza scenica, vocalmente e musicalmente, …. Possiamo parlare dello stile di Daland, ma la voce era grande, bella e la presenza scenica invidiabile … Senta non è la migliore cantante che ho sentito nella mia vita, ma non ha stonato … piuttosto sarebbe criticabile il suo timbro, il suo modo di mettere la voce e di prendere gli acuti, …. e va a tempo”.
    Concordo sul’Olandese e su Dalan , un po’ meno su Erik, ma complessivamente i tre maschietti se la sono cavata egregiamente.
    Senta è stato invece il personaggio peggio riuscito della serata, pur intonata ha strapazzato il suo tema centrale nel secondo atto cantando senza passione e senza spessore e si è solo in parte riscattata nel terzo atto. Complessivamente insufficiente.
    Il coro dei marinai dell’Olandese è stato invece reso molto bene, sempre amplificato dal fondo sala ma stavolta al giusto volume che ha ‘riempito’ l’ambiente: davvero ben riuscito. Un plauso al tecnico audio (Alverman) – evidentemente stavolta è riuscito a fare le prove ….
    Nel complesso è stato un bello spettacolo, con diverse persone del pubblico che hanno presenziato ad entrambe le recite.
    Averne di spettacoli simili in provincia. E lo dice un accanito Verdiano!

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