Don Carlos o Don Carlo è un dilemma che, prima che gli ascoltatori, deve avere riguardato l’autore. In fondo si può parlare di due titoli differenti e per la lingua e per i numeri che li compongono. Siccome questo titolo verdiano è una passione diffusa e condivisa fra tutti gli autori del Corriere abbiamo già molto dedicato alla stessa e in occasione di questo lungo excursus attraverso tutti i titoli verdiani andare a parlare di don Carlos poteva dar luogo a inutili ripetizioni. E allora ci siano concentrati dapprima sulla drammaturgia perché l’insigne fonte (Schiller) obbliga a riflessioni e poi abbiamo deciso di lasciar parlare gli appassionati delle registrazioni a 78 e il nostro gusto personale , ovvero spiegare o più correttamente raccontare i motivi che inducono due di noi a preferire un don Carlos a don Carlo e viceversa. Senza discutere minimamente che ci troviamo dinnanzi ad uno dei prodotti più elevati della fucina verdiana.
Difensore della versione in cinque atti preciso che per versione in cinque atti non intendo né quella di Modena (1886) che è una terza versione né quelle composite che hanno visto l’esecuzione come quella di Abbado in Scala 1977 dove si cantava in italiano quel che Verdi aveva musicato solo in francese o quella di Pappano dove si faceva l’esatto contrario. Intendo quello che venne rappresentato al Palais Garnier il 13 marzo 1867 . Potrei forse aggiungere che si potrebbero aggiungere quei numeri che non vennero eseguiti alla prima causa l’eccessiva lunghezza del lavoro. Era un “incidente di percorso” che capitava di frequente quando si metteva mano ai meravigliosi polpettoni del grand-opéra. Tutti questi titolo vantano infatti numeri espunti o eseguiti talvolta dopo poche sere con pesanti scorciamenti. Aggiungo che non vi è nessun motivo da parte mia ( che sogno una Semiramide con i numeri alternativi di Carafa o i balli aggiunti per Parigi nel 1859) per disprezzare versioni che uniscano l’una e l’altra versione a condizione di avere ( e non mi pare sia mai accaduto) l’onestà intellettuale di dire quali siano gli ingredienti con cui è confezionato il prodotto mandato in scena. Tanto premesso devo parlare del fascino dell’abbondante del fascino del pletorico e del retorico che pervade il don Carlos in francese e che ne costituisce la versa differenziazione da quello in quattro atti che consente al titolo verdiano di reintrare con pregi e difetti nel genere francese a pieno titolo. Certamente la versione originale privilegia l’affresco rispetto al rapporto fra i personaggi. Non per nulla Verdi rimaneggiò passando da Parigi all’Italia il duetto Filippo-Posa del secondo (primo) atto stemperando la tragedia del re e l’anelito libertario del nobile spagnolo che nell’incipit plateale e solenne di Parigi molto si perdono. Ancora il terzetto Eboli/Posa/don Carlo nella versione parigina si trova nel mezzo della festa dopo l’esecuzione del canonico balletto, che doveva stare al terzo atto e diviene una parte del primo quadro di un terzo atto vastissimo e variegato. Nella versione italiana è il primo quadro del terzo atto dove, come spesso accade nei terzetti si scontrano amore ed odio, desiderio respinto e conseguente sede di vendetta. Sempre in Verdi il Trovatore, Ernani e Battaglia di Legnano. Sentimenti stemperati a vantaggio del contesto degli avvenimenti, situazione dilatate all’interno del grande quadro questa è la sigla del don Carlos. Può piacere o non piacere. Ma siamo al “prendere o lasciare”. E lo siamo perché siamo in un genere musicale e drammaturgico peculiare. Prendiamo ad esempio il terzo atto quello, come detto sopra, che prevedeva il balletto, ma Verdi lo dilata ulteriormente perché piazza il divertissment nel primo quadro, ma il vero affresco storico è il secondo quadro ovvero l’autodafè, che coincide anche con l’acme drammatico dei rapporti Filippo II – Infante . Più grandioso persino del Meyerbeer, che si contenta di un solo grandioso concertato ( al terzo atto di Ugonotti ed al quarto di Profeta dove la marcia iniziale è parafrasata dal Verdi dell’autodafè). Verdi no: perché anche il quarto atto con la sommossa nel carcere e la grande trenodia di Filippo sul cadavere di Posa è una grandiosa scena di assieme degna dei titoli meyerberiano sopra citati e non solo la risoluzione dello scontro Stato-Chiesa e l’apparente risoluzione di quello padre re- figlio aspirante re. E non è il solo caso. Ne devo evidenziare altro ovvero la scena Eboli /Elisabetta che precede il famoso “don fatale”. Qui le due donne cantano al pari di Berthe e Fides o di Rachele ed Eudossia. Manca solo la cadenze in stile rossiniano. E credete non è una battuta, perché ancora nel 1849 Meyerbeer le predispose per madre e fidanzata di Jean de Leida. Eppure una situazione del genere nel Verdi verdiano (ovvero nella versione italiana) viene sbrigata con poche battute fra le due donne, ovvero la confessione di Eboli e la erogazione della pena da parte della regal “cornuta” alla reproba. Qui no, le due dame cantano: amore, delusione, rimpianto si dilungano, si perdono nei propri sentimenti come molti personaggi del grand-opera, che ha ben evidente la derivazione rossiniana, se non più musicale, drammaturgica. Amare o quando meno prediligere il don Carlos o il don Carlos in fondo è una scelta che deriva dalla predilezione per qual fascinoso ed incomparabile “carrozzone vocale- scenico”, che si chiama grand-opéra ovvero amare Verdi, forse più autenticamente verdiano con le sue nevrotiche prescrizioni di concisione e verità drammatica.
Domenico Donzelli
Apparirà una scelta controcorrente, provinciale e – ovviamente – da “retrovia culturale” o da “terzo mondo musicale”, ma io difendo e difenderò sempre il Don Carlo rivisto nel 1884, in 4 atti e in italiano (anche se la versione ritmica ha molti difetti). Per ragioni musicali, estetiche e drammaturgiche. Il grand-opéra, inteso come genere, rappresentò sì un’occasione per i compositori di esprimersi su larga scala e con impiego di ogni risorsa immaginabile, ma allo stesso tempo comportava il rispetto maniacale di regole (scritte e non scritte) che finivano per castrare l’ispirazione più autentica: non a caso i grandi ebbero rapporti solo occasionali con il genere (lamentandone spesso l’organizzatissima disorganizzazione) e lasciandolo appannaggio di più mediocri mestieranti che piegavano il loro buon artigianato alle esigenze di spettacoli che procedevano di titolo in titolo con la stessa identica struttura (come i nostri “cinepanettoni” in cui il contenuto è un mero diversivo per inserire situazioni abusate e reiterate sino alla nausea). Verdi stette al gioco, costruì un vero e proprio grand-opéra con tutti gli orpelli del caso: ingombranti scene di massa (spesso inutili e drammaturgicamente insignificanti), triangoli improbabili, mascheramenti, lungaggini volte a “tirare il brodo” (come il finale nella sua prima stesura) e l’immancabile appuntamento con il balletto (il momento più importante per l’annoiato pubblico parigino, dove i vecchi e nuovi ricchi ammiravano le loro costosissime “protette” esibirsi sulle punte). Leggendo le lettere che l’autore scrisse nel periodo delle prove (1866/67) si nota l’insofferenza verso quel mondo, verso quella superficialità sbandierata che sottoponeva la creazione artistica (e la libertà del compositore) alle esigenze di capricciose primedonne interessate solo a soluzioni che potessero garantire loro più applausi del rivale, alle proteste delle ballerine e, persino, agli orari dei mezzi pubblici (perché l’opera non doveva portar via spazio alla cena o al boudoir). Verdi, dicevo, tollerò tutto questo e confezionò l’opera secondo le regole imposte, ma rimase insoddisfatto del risultato tanto che, appena ne ebbe occasione, revisionò l’intera partitura. Già si è parlato abbondantemente della portata della revisione del 1884 (e si rimanda ai tanti articoli sull’argomento per avere una visione più dettagliata degli stessi): tanto che il Don Carlo è da considerarsi opera molto diversa dal Don Carlos. E a mio giudizio migliore. Innanzitutto perché viene eliminato il “troppo e il vano”, ossia tutte le concessioni ad uno schema mai condiviso e troppo largo per la concezione estetica dell’autore (che, è noto, privilegiava la concinnitas del dramma, piuttosto che le forme ipertrofiche e magniloquenti del divertissement grandoperistico): Verdi scrisse – in merito ai passi eliminati – che si trattava solo di musica, nulla di necessario. In questa espressione risiede la differenza tra Don Carlo e Don Carlos. Nessuna pagina della partitura viene risparmiata dall’opera di revisione: cade l’inutile atto di Fontainebleau (di cui sopravvive solo la romanza di Carlo, resa più interessante e notturna dal cambio di tonalità e dalla nuova orchestrazione), vengono riscritti il duetto Carlo/Rodrigo e il fondamentale dialogo tra Rodrigo e Filippo, l’inizio del terzo atto con il balletto della “Peregrina” vengono cassati senza alcun rimpianto (nostro soprattutto), la scena Elisabetta/Filippo è rivista e ripensata, tutto il finale quarto dopo la morte di Posa e il finale ultimo vengono ridotti ad una maggior asciuttezza ed efficacia. La nuova musica è irrinunciabile (tale è l’eccellenza della sua fattura), ma non è solo la qualità superiore del Don Carlo a renderlo preferibile alla sua versione “carrozzone”, piuttosto è l’atmosfera, la compattezza il clima che assume la redazione dell’84. Il Don Carlos è un mix di frivolezze e dramma storico, con lo spirito dell’epopea e con spreco di mezzi per stupire il pubblico, il Don Carlo – che si apre con i toni lugubri del convento e si chiude ciclicamente nello stesso luogo – è una riflessione sulla morte e sulla solitudine del potere (politico e religioso), sulla caduta delle illusioni e sull’impossibilità dell’amore. Un’opera moderna e complessa che non può essere liquidata – come fanno molti critici togati che si sono riscoperti “filologi” in tarda età e guardano con ribrezzo a quello che, con molta ignoranza definiscono “il Don Carlo tagliato” – come una scelta da retrovia, una comoda scappatoia per soddisfare i gusti provinciali di un pubblico che si ritiene beota (se sta al di qua delle Alpi ovviamente). Preferisco il Don Carlo perché è opera più matura, più bella e più coerente.
Gilbert-Louis Duprez
Per me, nel passaggio dalla versione francese a quella italiana, si guadagnano diverse cose, ma se ne perdono altre, come per esempio la chiarezza della trama nella prima scena del terzo atto oppure la chiusa della scena del carcere, la cui musica è di livello elevato e che nella revisione diventa davvero troppo secca e sbrigativa. Si tratta di due versioni comunque assai diverse e coerenti ciascuna a suo modo. Si possono rappresentare entrambe, a seconda dei gusti e del cast a disposizione.
ho avuto modo di recente qui a Vienna di vedere entrambe le versioni dell’opera (opere?????) in questione. Sono solo un spettatore frequente, un amatore percio’ non mi metto a fare critiche da musicologo. A parte l’oscena regia del sig.Kowitchny8???), che cogli anni peggiora, le lungagini, il balletto diventato sono di Eboli che vuol fare la massaia, mi hanno stemato. Soprattutto pero’ cio’ che mi colpisce nella versione inztegrale francese sono due cose, presenti eellissime nel Don Carlo: la frase di Rodrigo a Filippo nel primo duetto ORRENDA ORRENDA PACE LA PACE DEI SEPOLCRI, che in francese non viene cantata. e poi il bellissimo cantabilie di Elisabetta quando Filippo la confronta con lo scrigno e il ritratto di Carlo ….Un di promessa al figlio vostro etc etc.. Mi sono sentito violentato!!! Quattro attii, decisamente quatro atti ed in italiano. Giampiero/Giovincore
Certo quel sogno di Eboli (su La Pellegrina) – con lei in guanti da forno che guarda inorridita una teglia con tacchino carbonizzato – è stato uno dei punti più alti del Regietheater contemporaneo…
una volta i cantanti di rango si sarebbero rifiutati di andare in scena ….signor regista, sa dove può metterselo il tacchino? Arrivederci!…….ma siccome storpiano il canto al pari del regista che storpia il testo, ecco fatto! Tutti in scena…!
La più sublime e credibile tra i mezzo passate per quella produzione: Sonia Ganassi.
Fleta ed io – entrambi appassionati di cucina – comprendiamo benissimo il dramma del tacchino bruciato.
Quello che, nella nostra ottusità, ci sfugge è cosa c’entri con il Don Carlos.
ohohooh…lily attenta! La signora ed i suoi non sanno chi sei, come me. Potrebbero pensare che sono io che ti mando a scrivere queste cose……sai cos’è la mania di protagonismo di chi si crede al centro di persecuzioni oltre che della scena e non al centro dell’indifferenza mia personale?!…..la signora crede in cuor suo, da vera ottimista, di non piacere solo a me!
Giulia cara, io ho solo riportato un fatto. Che poi – con guanti da forno e tacchino bruciato – fosse assolutamente credibile e sublime non mi pare un giudizio negativo. Ha fatto molto bene quanto le era stato richiesto.