La pazzia amorosa femminile non era ancora, nella Nina, quella tipica dell’Ottocento, ossia la follia frutto dello scatenarsi di forti ed incontrollabili passioni interiori, quanto, piuttosto, una forma di depressione e malinconico straniamento dalla realtà. Ogni forma di palpabile alterazione della psiche veniva classificata come follia ai tempi della prima “Nina, ou La folle par amour”, libretto scritto da Benoit Joseph Marsolliers e musicato da Nicolas Marie Dalayrac nel 1786, e per il pazzo non erano previsti né guarigione né ritorno ad una vita normale, nessuna riammissione “tra i viventi”. Pare che Dalayrac si fosse ispirato ad una storia realmente accaduta, “La nouvelle Clémentine” di F.T.M. Baculard d’Arnaud, pubblicata nel 1783 assieme ad altri racconti nel suo “Délassements de l’homme sensible.”
Le nostre chiavi di lettura di stampo romantico poco si adattano, dunque, all’originario soggetto francese, connotato anche da una non celata polemica sociale prerivoluzionaria e borghese, in quanto soggetto di argomento “sentimentale”: Nina pare quasi una depressa che precipita in una sorta di isolamento dal mondo che veniva percepito anche come metafora di quello sociale: il disturbo mentale affligge e stacca la protagonista dal proprio ambiente, dalla propria casata, dal mondo. La comprensione piena del soggetto è, dunque, assai difficile oggi, abituati come siamo ai “ritorni” alla vita della pazze Elvira, o Lucia, cui la stessa Amina di Sonnambula, per certi versi, era a quei tempi assimilata da un altro male oscuro, il sonnambulismo. La connotazione positiva che il romanticismo conferì a questi stati alterati della psiche ( positiva è anche la morte di Lucia perché redenzione dall’omicidio commesso ) ebbe le proprie radici nella Nina di Dalayrac, soggetto, dunque, di palpabile valenza innovativa per il pubblico del tempo ed oggi per la storia dell’opera.
La fortuna italiana della “Nina pazza per amore” di Dalayrac iniziò nel 1788 al Teatro Arciducale di Monza, quando l’opera venne rappresentata tradotta in italiano da Giuseppe Carpani, protagonista Anna Morichello Boselli, espressamente prescelta per le sue qualità di attrice cantante. La letteratura musicale non restituisce sempre il ruolo che, invece, spetta al traduttore e librettista della Nina, perché, di fatto, è grazie alla sua intuizione artistica ed al suo obbiettivo culturale che Nina è divenuta un’opera fondamentale nella storia del teatro musicale. Si trattava di un avvocato, intellettuale nato e cresciuto culturalmente nell’Aufklaerung milanese, legato alla corta austriaca, autore di piéces teatrali e libretti d’opera, nonché di saggi di argomento musicale, in particolare su Haydn e Rossini, in rapporto con intellettuali ed artisti del suo tempo. La traduzione della Nina, riferita alla prima fase dei lavori di Carpani per il teatro, si inquadrava in un obbiettivo ben preciso, quello della revisione del teatro musicale italiano sulla base delle avanguardie europee Nell’opera musicata da Dalyrac vi erano alcuni elementi di novità e di modernità per il giovane Carpani, cioè la formula dell’operà comìque di brani cantati alternati a brani parlati, senza recitativi,;il soggetto di target squisitamente borghese, il nuovo tema della pazzia amorosa. L’interesse per da parte di Carpani per “Nina, ou la folle par amour” fu tale che le manipolazioni al testo francese furono minime ed in questa aderenza all’originale gli storici della musica hanno potuto riscontrare il notevole interesse per un modello di teatro musicale del tutto estraneo alla tradizione italiana. La sostituzione dei recitativi con i parlati implicava la ricerca, intenzionale, di una nuova espressività da parte dei cantanti – attori protagonisti, espressività cui i cantanti italiani non erano abituati in quanto i dialoghi recitati nell’opera italiana spettavano ai soggetti comici, tipicamente dell’opera comica napoletana, e non certo ai generi sentimentali e larmoyant.
L’intento del Carpani era quello di superare la consolidata prevalenza del canto e della libertà virtuosistica dei cantanti italiani a favore di una maggiore intenzionalità espressiva delegata ai parlati-recitati che sostituivano i recitativi secchi della tradizione.
Quanto alla fortuna del soggetto, essa rimase viva sia in forza dell’interesse, che alcune grandi primedonne del belcanto italiano nutrirono per la versione di Paisiello, a cominciare, guarda caso, da una delle piu’ rinomate fraseggiatrici del tempo, Giuditta Pasta, ma già prima anche la stessa Colbran, sia perché venne da subito tradotta più volte ( stando alla testimonianza dello stesso Carpani in tedesco, russo e perfino svedese…, certamente piu’ volte in inglese etc..) e rimusicata da diversi compositori ( in Italia si conosce la riedizione realizzata dal duo Jacopo Ferretti – Pietro Antonio Coppola del 1835 ).
Fu l’illuminismo milanese ad importare un soggetto destinato a grande fortuna, ma fu solo con Giovanni Paisiello, grande esponente della scuola napoletana, che prese forma la versione più celebre nella storia dell’opera della Nina pazza per amore. Nel giugno del 1789 alla reggia di Caserta, esattamente presso il borgo di San Leucio nel parco della Villa Reale ove avevano sede le manifatture di seta, che Ferdinando di Borbone intendeva in quell’occasione pubblicizzare, l’opera andò in scena per al prima volta nella versione in un atto unico, sfruttando la traduzione del Carpani, minimamente modificata da Giambattista Lorenzi, autore di libretti per opere comiche napoletane. L’opera venne quindi portata al Teatro dè Fiorentini, teatro principale dell’opera buffa napoletana, a Napoli nel 1790 nella versione modificata in due atti, per la quale Paisiello compose un nuovo ensemble preceduto dalla famosa “canzone del pastore” ed una nuova aria per Giorgio ( versione nella quale l’opera è di fatto circolata nella maggior parte delle rappresentazioni ), quindi a Parma nel 1793, in una nuova versione, non autografa di Paisiello, in cui i parlati vennero sostituiti da recitativi accompagnati. Il trionfo fu completo ed indiscusso presso ogni genere di pubblico, aristocratico e borghese, nonostante l’evidente anomalia del soggetto ed la differenza di genere dalla tradizione dell’opera buffa napoletana.
Paisiello, al contrario, mise la propria cifra musicale ad un soggetto destinato ad essere tanto amato da costituire un vero e proprio prototipo drammaturgico e musicale anche per il teatro lirico posteriore.
Si affidò, come già per la prima sanpietroburghese del Barbiere di Siviglia, alle straordinarie e celebrate capacità liriche di Celeste Coltellini ( 1764-1829 ), soprano, che seppe dar voce alla vocalità essenzialmente patetica di Nina, in parte ancor prima di Rosina, scritture che, non presentando specifiche difficoltà di tipo acrobatico, impegnavano l’esecutrice sul piano del “dire”, del fraseggio intenso e commovente. La più famosa aria dell’opera “il mio ben quando verrà” rispecchia le caratteristiche vocali ed interpretative della prima esecutrice.
La misura di questo successo di portata europea è data dalle innumerevoli versioni documentate dell’opera, che includono inserimenti, tagli, remake di vario genere operati dagli impresari e dalle primedonne di mezza Europa che rappresentarono l’opera a cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo. Vi misero mano persino celebrità come Da Ponte per una versione viennese rimaneggiata da J. Weigl, e Luigi Cherubini, per la versione parigina del 1791.
In particolare fu proprio il progetto culturale di Carpani, volto ad innestare nella tradizione italiana stilemi espressivi dell’operà comìque francese, a fallire sotto la spinta dei cantanti italiani, avvezzi al recitativo accompagnato ed ostili al parlato, tanto che l’opera finì per circolare, agli inizi del XIX secolo soprattutto, nella formula con i recitativi della versione non autentica di Parma.
L’opera sopravvisse nella prima metà del XIX secolo grazie ad alcune celebri primedonne, come le suddette Colbran, Malibran e Pasta, che continuarono a dar voce a Nina come prima di loro avevano fatto soprani rinomati come la Banti o la Grassini. Non sappiamo esattamente in che modo e cosa eseguissero primedonne che praticavano normalmente la prassi degli inserimenti da altre opere come pure la libera interpolazione del testo originario. L’affermazione del prototipo drammaturgico della Nina, che il ritratto del 1829 di Giuseppe Molteni di Giuditta Pasta nel title role da solo ben documenta a distanza di quasi due secoli, è stigmatizzato dalle vicende compositive dei Puritani. A Parigi Bellini avrebbe scientemente inteso riallacciare la sua nuova opera alla grande tradizione italiana, napoletana in particolare, che aveva trovato anche prima di Rossini grande fortuna nella capitale francese. La Nina di Paisiello, tra l’altro il compositore preferito da Napoleone Bonaparte, non era andata incontro all’oblìo, come la maggior parte delle opere del musicista pugliese, né in Italia né in Francia, anzi continuava ad essere rappresentata al des Italiéns con grande successo, in forza anche delle proprie radici francesi. La storiografia musicale più volte ha sottolineato la preoccupazione anche di Vincenzo Bellini come dei suoi colleghi di organizzare i propri obbiettivi musicali su precedenti autorevoli e graditi al pubblico, topoi di grande successo in questo caso presso il pubblico parigino. Il coro che introduce il canto di Giorgio nel secondo atto, prima della pazzia di Elvira, nonché l’aria con la quale il basso narra la pazzia della protagonista ricreano un clima del tutto analogo a quello che apre la Nina. Stando alla storiografia musicale, l’intera struttura della scena sarebbe stata imposta a Pepoli proprio da Bellini, nonostante l’azione dell’opera abbia luogo in una castello secentesco, ossia su uno sfondo ben diverso dal giardino domestico e dal clima arcadico in cui ha luogo il dramma di Nina. La scena di pazzia, quindi, completava l’analogia con il vecchio modello napoletano, cui apertis verbis, Bellini dichiara di rifarsi in una nota lettera a Florimo, scritta durante la stesura della versione napoletana dei Puritani. Bellini cercava in quel momento di garantirsi la presenza della diva Malibran, che sarebbe stata attratta certamente dal soggetto oltre che dalla musica “..poiché è appassionata come una Nina basterebbero le sole situazioni dette in prosa, ed agite da essa, perché ne ritragga un immenso interesse…”. Una grande scena di pazzia, dunque, costituiva una via sicura per interessare una diva celeberrima ad una nuova opera, perché vi avrebbe trovato il giusto spazio per esibire le proprie capacità espressive.
Alienazione e follia femminile ( non dimentichiamoci di quella maschile, dall’Orlando di Haendel, ancora venata da aspetti comici, a quelle tragiche rossiniane di D’Ordow ed Assur prima, quindi di Torquato Tasso di Donizetti ) grazie alla Nina di Dalayrac e di Paisiello fecero, dunque, il loro ufficiale ingresso nel teatro musicale prima che in ogni altro genere artistico, andando a costituire un topos del canto tragico per le primedonne del belcanto e, più tardi, del canto romantico, continuando ad ispirare dive e compositori per tutto il XIX secolo. L’opera di Paisiello tramontò sotto la spinta del cambiamento mosso delle mode musicali, mentre il nucleo essenziale del soggetto fu destinato a sopravvivere assai più a lungo.
Gli ascolti
Giovanni Paisiello
Nina, o sia la pazza per amore
Atto I
Il mio ben quando verrà – Teresa Berganza, Lella Cuberli (1977)
beh la rai ogni tanto bisogna ringraziarla tramite rai 5 ha messo in palinsesto un opera non molto conosciuta ai più.
avete fatto bene a parlarne e spiegarla qui sul corriere.
Splendido post al quale aggiungerei quanto leggo in “ folli, sonnambule, sartine” che Bellini, nella già citata lettera a Florimo, definisce il carattere di Elvira “appassionata come una Nina”.
Per gli ascolti ritengo che l’eleganza del canto della Berganza non possa essere raggiunto dalle altre.
Blogger ancora ,i ha perso correzioni di italiano. Scusate. Ma presto le nostre pene avranno fine…..