La Clemenza, libretto metastasiano per eccellenza (prima di Mozart fu musicato, fra i molti altri, da Hasse e Gluck), viene “sventrata” dal poeta di corte dell’Elettore sassone, Caterino Mazzolà, il quale, annota lo stesso Mozart sul catalogo delle sue opere, la trasforma in “vera opera” eliminando in sostanza tutto il secondo atto (con la peripezia dello scambio di manti fra Sesto e Annio, ritenuto per questo responsabile della congiura fino alla confessione di Lentulo) e trasformando molte arie solistiche in pezzi d’assieme (la revisione forse più celebre è quella che riguarda l’aria di Sesto “Se mai senti spirarti sul volto”, mutata nel terzetto “Se al volto mai ti senti” in cui si affiancano allo sventurato quasi-regicida le voci di Vitellia e Publio). Alcune arie vengono cassate, altre ampliate (ad esempio l’ultima aria di Sesto). Ed è su questo testo insieme antico e nuovo che s’innesta una musica in eguale misura vecchia e innovativa.Non è strano che all’Imperatrice, figlia di Carlo III, nata e cresciuta a Napoli, la musica di Mozart apparisse un curioso ibrido fra la “cantilena” di scuola italiana (quella che Stendhal avrebbe rintracciato nelle opere del giovane Rossini, riconoscendola come eredità del “soave melodiare” di Paisiello e Cimarosa), la maestosità haendeliana degli intermezzi e dei cori, il virtuosismo “strumentale” di pagine come il rondò finale di Vitellia e la brevità ardita e violenta del finale primo, chiuso in pianissimo come il finale primo del Fidelio.
Più tradizionale appare la distribuzione delle parti vocali e il loro rispettivo peso nella composizione: quella dell’Imperatore, che pure è “doppio” in scena del committente in sala, è una parte drammaticamente e musicalmente marginale rispetto ai “villain” Vitellia (primadonna soprano) e Sesto (primo uomo, e oggi eventualmente altra primadonna soprano).
E non c’è da stupirsi, visto che il primo Tito, Antonio Baglioni, fu anche il primo Don Ottavio, mentre gli antagonisti del clementissimo prence furono Maria Marchetti-Fantozzi e il castrato Domenico Bedini. Baglioni non doveva essere un grande virtuoso (le sue arie nel Don Giovanni, per quanto ispirate, non presentano un quarto delle difficoltà tecniche richieste a un cantante per giunta anziano come Anton Raaff, primo Idomeneo), tanto che nello stesso 1791, in occasione di una ripresa del Così fan tutte, ebbe serie difficoltà con le arie di Ferrando, guadagnandosi da parte del biografo mozartiano Franz Niemetschek l’appellativo di “mezzo basso”.
La Marchetti-Fantozzi, di contro, si mise in discreta luce anche alla Scala tra la fine degli anni ’80 e i primi ’90, affrontando opere come l’Ifigenia in Aulide di Cherubini e l’Olimpiade di Cimarosa. Basterebbero questi titoli a darci l’idea di una voce estesa in acuto ma anche in grado di scendere con disinvoltura e di non soccombere di fronte al canto tanto fiorito quanto declamato. E se non bastassero i titoli, abbiamo la partitura mozartiana a testimoniare la valentia della signora.
Quanto a Domenico Bedini, cantore della Cappella lauretana, era rinomato per i fiati lunghi, e Mozart, riscrivendo per lui la parte di Sesto inizialmente concepita per tenore, trovò il modo di sfruttare questa caratteristica particolarmente nei due grandi rondò e nel terzetto “Se al volto mai ti senti”. Ovvio che al castrato Mozart non richiedesse tanto il virtuosismo (che pure non manca) quanto l’accentuazione della corda patetica, che si ritrova in tutti i personaggi concepiti dal Salisburgese per cantanti evirati, dal Sifare del Mitridate al Cecilio del Lucio Silla, al vertice di Idamante.
Ma sarebbe ingiusto non citare anche il quarto grande interprete coinvolto nella prima, il clarinettista Anton Stadler, amico di Mozart e destinatario del Quintetto eponimo KV 581, nonché del Concerto KV 622. A Stadler, che nell’orchestra di Praga suonava il clarinetto e il corno di bassetto, Mozart pensa al momento di stendere i due grandi rondò con strumento obbligato, collocati poco prima dei finali d’atto: “Parto, ma tu ben mio” (in cui la voce di Sesto dialoga con il clarinetto) e “Non più di fiori” (in cui al canto di Vitellia si affianca quello del corno di bassetto). Tito non solo non ha arie concertanti, ma canta assoli “col da capo”, che seguono lo schema canonico dell’aria da opera seria, mentre le arie di Vitellia e Sesto sono in due sezioni (Adagio – Allegro) e prefigurano la successione ottocentesca cantabile-cabaletta. C’è insomma nelle parti di Vitellia e Sesto un trattamento da un lato più virtuosistico e dall’altro maggiormente aperto al futuro. E’ vero che a Tito spettano anche il breve e delizioso arioso con coro “Ah no, sventurato” e ben due recitativi accompagnati (al momento in cui ha prova definitiva della colpevolezza di Sesto e subito prima del finale II), ma su Sesto grava l’intero finale primo, aperto da una Scena a piena orchestra di alto impatto drammatico, mentre Vitellia conclude di fatto l’opera con un Rondò preceduto dal recitativo obbligato e unito senza soluzione di continuità al coro che apre l’ultima scena.
Può essere interessante ricordare che, quando l’opera fu presentata alla Scala nel 1818, la parte di Vitellia era sostenuta da Francesca Festa Maffei, “specialista” delle eroine di Mozart (sempre a Milano aveva cantato Fiordiligi e Donna Anna) ma anche prima Fiorilla nel Turco in Italia rossiniano. E il Rondò finale di Fiorilla, “Squallida veste e bruna”, presenta più di un’analogia, formale, contenutistica e di collocazione nel corpo dell’opera, con la grande scena di Vitellia. Accanto alla Festa Maffei si esibirono Violante Camporesi (che l’anno dopo sarebbe stata la prima Bianca nel Bianca e Falliero: facile immaginare generosi trasporti) e il baritenore Gaetano Crivelli.
Se il ruolo tenorile risulta molto meno oneroso di quelli che spettano alle voci femminili, tutte le parti (anche quelle che si elevano poco al di sopra del comprimariato) esigono perfetta rotondità di emissione, canto sul fiato, estrema mobidezza, espressione nobile e composta onde poter adeguatamente figurare in questo dramma di carne e sangue ma anche di concetti e “ragionamenti”, apogeo ed epitaffio di un’epoca irripetibile.
Atto I
Deh, se piacer mi vuoi – Christine Deutekom, Carol Vaness
Del più sublime soglio – Dano Raffanti
Parto, ma tu ben mio – Ernestine Schumann-Heink, Teresa Berganza, Christa Ludwig
Vengo… Aspettate… Sesto! – Carol Vaness, Susan Graham & Mark S. Doss
Finale I – Martine Dupuy, Susanna Anselmi, Adelina Scarabelli, Natale de Carolis & Mariana Nicolesco
Atto II
Se al volto mai ti senti – Tatiana Troyanos, Carol Vaness & Mark S. Doss
Deh per questo istante solo – Martine Dupuy, Teresa Berganza, Christa Ludwig
Se all’Impero, amici Dèi – Rockwell Blake
S’altro che lagrime – Giulietta Simionato
Non più di fiori – Joan Sutherland, Christine Deutekom, Renata Scotto, Carol Vaness
Ma che bello il Non più di fiori della Sutherland!!! Non lo conoscevo affatto!! Grazie! Ma mica esiste anche la Clemenza completa con lei?
Cioè… ci spero, ma non ci credo molto! 😉 Grazie comunque, anche la Deutekom mi piace molto!
Il rondò della Joan? Corbezzoli se è bello!!!
Purtroppo la Clemenza con la Joan possiamo solo sognarla… immaginarla… questo suono purissimo, aereo, di una dolcezza disumana………….