Il titolo dice tutto. Dopo la puntata incentrata sulle Ortrude, il secondo appuntamento preparatorio alla maratona wagneriana di fine luglio sarà dedicato ad alcune incisioni del secondo assolo di Elsa. Incisioni che hanno in comune, con una sola eccezione, la traduzione del testo poetico in lingua italiana. Quella che oggi può sembrare un’abiezione e una somma asineria era, solo pochi decenni fa, moneta corrente e gli stessi cantanti di lingua tedesca, anche e soprattutto wagneriani illustri, non si peritavano di cantare in traduzione quando dovevano esibirsi nei teatri italiani e spagnoli. Il primo esempio che viene in mente è quello di Frida Leider.
Questo il primo spunto di riflessione che proponiamo all’attenzione del lettore. Si può, si deve “dire” in qualunque lingua, e anzi l’uso di una traduzione dovrebbe consentire al cantante maggiori possibilità di risultare vario ed espressivo. Del resto, se gli stessi compositori non si opponevano alla pratica, anzi la incoraggiavano, non si capisce in ragione di quale feticcio pseudoculturale il testo originale debba porsi come il massimo, anzi il solo ed esclusivo veicolo del teatro in musica. Specie quando venga proposto a un pubblico che ha, nello specifico, ben poca pratica della lingua tedesca. È pur vero che esistono critici musicali, regolarmente ospitati dai quotidiani più prestigiosi, che peritosi discettano della pronunzia più o meno corretta ed ortodossa di parole in una lingua ben più esotica, e immensamente più “culturale”, di quella di Wagner. Sono gli stessi critici nelle cui recensioni invano si cercherebbero lumi circa banali, noiose, superatissime questioni da vociomani, quali precisione d’intonazione ed esecuzione del passaggio di registro.
L’elenco delle interpreti prese in considerazione, elenco non certo esaustivo delle maggiori Else in circolazione nei teatri italiani e non solo (mancano all’appello ad esempio Rosetta Pampanini, che incise però il Sogno, e soprattutto Salomea Krusceniski, Claudia Muzio e Giuseppina Cobelli, come dire il Gotha del soprano lirico spinto a 78 giri), comprende numerose cantanti riconducibili, e di fatto generalmente ricondotte, alla scuola verista. Attesa la vulgata corrente circa i presupposti e i frutti di tale scuola, sarebbe lecito attendersi una serie di Else scomposte e vociferanti, con dovizia di suoni aperti in basso e grida assortite appena la tessitura si elevi al di sopra del do centrale.
Il brano, un Lento (Langsam) che in una quarantina di battute copre una tessitura limitatissima e strettamente centrale (appena un’ottava, dal mi grave al fa acuto), privo di melismi (se si esclude un paio di appoggiature dapprima sul do e poi sul do bemolle centrale), è in effetti di limitato impegno virtuosistico (per utilizzare un eufemismo), ma la voce è sollecitata quasi ad ogni battuta a eseguire forcelle e repentini cambiamenti dinamici nella zona compresa fra il do centrale e il fa acuto (come dire, la zona che prepara e che costituisce il secondo passaggio della voce sopranile), oltre che a sostenere ampie frasi da eseguire con impeccabile legato. Anche qui, non parlano i sordi e ottusi melomani vecchio stampo, rovina e dannazione dell’opera: è la partitura a richiederlo, con un’abbondanza di indicazioni che non lascia adito a dubbi. Almeno per chi voglia leggerla con un minimo di onestà intellettuale.
Ebbene, alla prova dell’ascolto – e invitiamo i lettori a ripeterla e a comunicarci le loro riflessioni in merito – le signore considerate risultano, chi più chi meno, tutte interessanti. Scopriamo così, o per meglio dire, abbiamo la conferma che essere un’interprete “tutta temperamento” non impedisce a Mafalda Favero di risultare elegante e misurata, impressione appena temperata da alcuni suoni vagamente opachi in fascia medio-grave, che rendono un poco bamboleggiante questa Elsa. Nessun vezzo, anzi un canto solido e quanto mai sobrio nella lettura di Hina Spani, che nella sezione conclusiva, complice un’attenzione più accentuata alle forcelle sul mi bemolle e un accorto uso dello stentando, riesce anche a essere interprete, rendendo a meraviglia l’esaltazione e l’estasi erotica, benché castissima, dell’eroina wagneriana.
Quando poi si parli di voce sontuosa, morbida e dolcissima in tutta la gamma, legato di gran classe e dizione impeccabile, non si può che fare il nome di Maria Caniglia, la quale dimostra che il soprano drammatico non è necessariamente sinonimo di vociferazione e scarsa musicalità, anzi. Il perfetto controllo di uno strumento così opulento riduce tutte le altre Else, ivi compresa la voce d’oro per eccellenza, Renata Tebaldi, a ben poca cosa. La stessa Tebaldi, colta dal vivo in una recita napoletana, non esibisce l’abbandono struggente di altre colleghe, magari meno dotate sotto il profilo timbrico, risultando così decisamente manierata.
Il timbro giovanile e luminoso di Maria Chiara si adatta perfettamente al personaggio e alla situazione drammatica, ma anche qui l’interprete latita e il fascino del sereno Lied di Elsa risulta come attutito. Altra voce eccezionale quella della giovane Ricciarelli, ma gli attacchi sul fa acuto, con conseguente perdita della giusta intonazione, sono la riprova di una preparazione tecnica meno che perfetta e anzi da autentica dilettante del pentagramma. Siccome le disgrazie non vengono mai sole, e soprattutto non sono mai senza conseguenze, molto delle odierne interpreti di Elsa (in qualunque lingua) presentano gli stessi difetti d’impostazione professionale, o meglio, dilettantesca, senza la voce aurea della cantante rodigina.
L’ascolto che sorprende e che conquista è, su tutti, quello di Pia Tassinari. Voce non eccezionale sotto il profilo meramente strumentale, ma estremamente gradevole e soprattutto omogenea per virtù di studio, e non solo in grazia della dote naturale, la cantante è, fra quelle considerate (con una sola eccezione, che vedremo alla fine), la più ligia nell’osservare le indicazioni della partitura, la più fantasiosa nel variare, a ogni frase, colore e intensità vocale, la più accorta nel gioco di rubati e accelerando utilizzato per dipingere il fantasticare della promessa sposa nella notte che precede le nozze. Una prova semplicemente maiuscola, anche perché applicata a un repertorio nel quale ben di rado si odono simili finezze. A condizione di non mettere mano ai reperti a 78 giri, ovviamente.
E proprio a quei reperti è riconducibili il più antico degli ascolti proposti, in traduzione non italiana bensì russa. Lo proponiamo perché Antonina Nezhdanova ci ricorda quale risonanza in fascia centrale e quale saldezza di legato possa sfoggiare la voce del cosiddetto soprano di coloratura. Alla luce dell’ascolto è facile capire come mai la signora cantasse, oltre a Lakmé e Barbiere di Siviglia, il Rigoletto, l’Onegin e appunto il Lohengrin, magari al fianco di Sobinov. La lezione è quanto mai utile e importante al giorno d’oggi, quando al balcone di Elsa, anche sulla Collina, si affaccia una Rosina di provincia o una Mimì di seconda scelta. Quando va bene.
Questo il primo spunto di riflessione che proponiamo all’attenzione del lettore. Si può, si deve “dire” in qualunque lingua, e anzi l’uso di una traduzione dovrebbe consentire al cantante maggiori possibilità di risultare vario ed espressivo. Del resto, se gli stessi compositori non si opponevano alla pratica, anzi la incoraggiavano, non si capisce in ragione di quale feticcio pseudoculturale il testo originale debba porsi come il massimo, anzi il solo ed esclusivo veicolo del teatro in musica. Specie quando venga proposto a un pubblico che ha, nello specifico, ben poca pratica della lingua tedesca. È pur vero che esistono critici musicali, regolarmente ospitati dai quotidiani più prestigiosi, che peritosi discettano della pronunzia più o meno corretta ed ortodossa di parole in una lingua ben più esotica, e immensamente più “culturale”, di quella di Wagner. Sono gli stessi critici nelle cui recensioni invano si cercherebbero lumi circa banali, noiose, superatissime questioni da vociomani, quali precisione d’intonazione ed esecuzione del passaggio di registro.
L’elenco delle interpreti prese in considerazione, elenco non certo esaustivo delle maggiori Else in circolazione nei teatri italiani e non solo (mancano all’appello ad esempio Rosetta Pampanini, che incise però il Sogno, e soprattutto Salomea Krusceniski, Claudia Muzio e Giuseppina Cobelli, come dire il Gotha del soprano lirico spinto a 78 giri), comprende numerose cantanti riconducibili, e di fatto generalmente ricondotte, alla scuola verista. Attesa la vulgata corrente circa i presupposti e i frutti di tale scuola, sarebbe lecito attendersi una serie di Else scomposte e vociferanti, con dovizia di suoni aperti in basso e grida assortite appena la tessitura si elevi al di sopra del do centrale.
Il brano, un Lento (Langsam) che in una quarantina di battute copre una tessitura limitatissima e strettamente centrale (appena un’ottava, dal mi grave al fa acuto), privo di melismi (se si esclude un paio di appoggiature dapprima sul do e poi sul do bemolle centrale), è in effetti di limitato impegno virtuosistico (per utilizzare un eufemismo), ma la voce è sollecitata quasi ad ogni battuta a eseguire forcelle e repentini cambiamenti dinamici nella zona compresa fra il do centrale e il fa acuto (come dire, la zona che prepara e che costituisce il secondo passaggio della voce sopranile), oltre che a sostenere ampie frasi da eseguire con impeccabile legato. Anche qui, non parlano i sordi e ottusi melomani vecchio stampo, rovina e dannazione dell’opera: è la partitura a richiederlo, con un’abbondanza di indicazioni che non lascia adito a dubbi. Almeno per chi voglia leggerla con un minimo di onestà intellettuale.
Ebbene, alla prova dell’ascolto – e invitiamo i lettori a ripeterla e a comunicarci le loro riflessioni in merito – le signore considerate risultano, chi più chi meno, tutte interessanti. Scopriamo così, o per meglio dire, abbiamo la conferma che essere un’interprete “tutta temperamento” non impedisce a Mafalda Favero di risultare elegante e misurata, impressione appena temperata da alcuni suoni vagamente opachi in fascia medio-grave, che rendono un poco bamboleggiante questa Elsa. Nessun vezzo, anzi un canto solido e quanto mai sobrio nella lettura di Hina Spani, che nella sezione conclusiva, complice un’attenzione più accentuata alle forcelle sul mi bemolle e un accorto uso dello stentando, riesce anche a essere interprete, rendendo a meraviglia l’esaltazione e l’estasi erotica, benché castissima, dell’eroina wagneriana.
Quando poi si parli di voce sontuosa, morbida e dolcissima in tutta la gamma, legato di gran classe e dizione impeccabile, non si può che fare il nome di Maria Caniglia, la quale dimostra che il soprano drammatico non è necessariamente sinonimo di vociferazione e scarsa musicalità, anzi. Il perfetto controllo di uno strumento così opulento riduce tutte le altre Else, ivi compresa la voce d’oro per eccellenza, Renata Tebaldi, a ben poca cosa. La stessa Tebaldi, colta dal vivo in una recita napoletana, non esibisce l’abbandono struggente di altre colleghe, magari meno dotate sotto il profilo timbrico, risultando così decisamente manierata.
Il timbro giovanile e luminoso di Maria Chiara si adatta perfettamente al personaggio e alla situazione drammatica, ma anche qui l’interprete latita e il fascino del sereno Lied di Elsa risulta come attutito. Altra voce eccezionale quella della giovane Ricciarelli, ma gli attacchi sul fa acuto, con conseguente perdita della giusta intonazione, sono la riprova di una preparazione tecnica meno che perfetta e anzi da autentica dilettante del pentagramma. Siccome le disgrazie non vengono mai sole, e soprattutto non sono mai senza conseguenze, molto delle odierne interpreti di Elsa (in qualunque lingua) presentano gli stessi difetti d’impostazione professionale, o meglio, dilettantesca, senza la voce aurea della cantante rodigina.
L’ascolto che sorprende e che conquista è, su tutti, quello di Pia Tassinari. Voce non eccezionale sotto il profilo meramente strumentale, ma estremamente gradevole e soprattutto omogenea per virtù di studio, e non solo in grazia della dote naturale, la cantante è, fra quelle considerate (con una sola eccezione, che vedremo alla fine), la più ligia nell’osservare le indicazioni della partitura, la più fantasiosa nel variare, a ogni frase, colore e intensità vocale, la più accorta nel gioco di rubati e accelerando utilizzato per dipingere il fantasticare della promessa sposa nella notte che precede le nozze. Una prova semplicemente maiuscola, anche perché applicata a un repertorio nel quale ben di rado si odono simili finezze. A condizione di non mettere mano ai reperti a 78 giri, ovviamente.
E proprio a quei reperti è riconducibili il più antico degli ascolti proposti, in traduzione non italiana bensì russa. Lo proponiamo perché Antonina Nezhdanova ci ricorda quale risonanza in fascia centrale e quale saldezza di legato possa sfoggiare la voce del cosiddetto soprano di coloratura. Alla luce dell’ascolto è facile capire come mai la signora cantasse, oltre a Lakmé e Barbiere di Siviglia, il Rigoletto, l’Onegin e appunto il Lohengrin, magari al fianco di Sobinov. La lezione è quanto mai utile e importante al giorno d’oggi, quando al balcone di Elsa, anche sulla Collina, si affaccia una Rosina di provincia o una Mimì di seconda scelta. Quando va bene.
Gli ascolti
Wagner – Lohengrin
Atto II
Euch Lüften, die mein Klagen
Antonina Nezhdanova – 1910
Hina Spani – 1926
Mafalda Favero – 1928
Maria Caniglia – 1936
Pia Tassinari – 1943
Renata Tebaldi – 1954
Marcella Pobbe – 1959
Katia Ricciarelli – 1973
Maria Chiara – 1976
Ottimo spunto di riflessione direi. Nel caso di Wagner, peraltro, fu lo stesso compositore – pur tra arzigogolate elucubrazioni argomentative – a ritenere "obbligatoria" la traduzione delle sue opere nella lingua del paese che le avrebbe rappresentate! E, del resto, in un teatro che si fonda sulla parola, e sul significato musicale della stessa (che attraverso il suono esprime concetti), è fondamentale la piena comprensione del testo, per consentire allo spettatore di partecipare all'opera d'arte totale, di elevarsi in quella dimensione superiore che era il fine "filosofico" della drammaturgia wagneriana. Spesso si obietta che le traduzioni ritmiche fanno schifo e sono ridicole: verissimo! Ma il discorso non cambia: ogni traduzione può essere rifatta e riscritta, oggi senza i condizionamenti metrici che vi erano un tempo (e che compromettevano il tessuto ritmico e strumentale). Poi, nei fatti, le traduzioni ritmiche del Tell o di Favorite, ad esempio, gridano vendetta (per non parlare di quelle wagneriane), ma l'idea di rendere fruibile il testo non è certo peregrina. Anche perché poi, oggi, si arriva ad assurdi estremismi: talune "anime belle", ad esempio, accettano ben volentieri le traduzioni inglesi dell'ENO, ma rigettano quelle italiane. Forse british è più chic? Io non mi scandalizzerei se, ogni tanto e per taluni repertori lontani dalla nostra cultura (penso a Janacek) si provvedesse a nuove traduzioni. Senza compromettere i valori musicali ovviamente! Del resto una delle migliori edizioni di Chovánščina (parere condiviso anche da cultori musorgskiani) è proprio in italiano…
Coloro che sostengono la validità delle esecuzioni di opere tedesche o slave tradotte in italiano, dovrebbero anche provare a fare l´esperienza opposta. Per me una delle perle del comico involontario nell´opera è la Carmen del 1959 al Bolscioi, dove tutti cantano in russo e Del Monaco canta in italiano…un´opera francese! Confesso che, nonostante l´altissimo valore del cast, non sono mai riuscito a prendere sul serio questa esecuzione.
caro mozart,
però non tutti hanno l'obbligo di sapere BENE il tedesco o peggio ancora il russo ed il ceco e hanno dle pari il diritto di capire e valutare l'interprete. Ergo…..
sulle edizioni bilingue in effetti…. posso anche darti ragione.
però il Boris di Kipnis in russo (credo lo sapesse anche in tedesco, ma non in italiano) attorniato da cantanti in italiano è lo stesos molto interessante
ciao dd
C'è una sacco di Verdi in tedesco che non fa per nulla ridere: sentire Schlusnus che non bercia il "Sì vendetta", è una meraviglia in qualsiasi lingua egli canti. A me va più ridere quel che combinavano da noi (o nelle messicanate) in lingua originale: con vagiti, urla, fischi… Neppure mi fa ridere il Boris in tedesco diretto da Kegel o il Lohengrin in russo con Lemeshev. Non è questione di validità o meno (le traduzioni devono essere rifatte e rispettose dei valori musicali), semplicemente mi sembra opportuno abbandonare anacronistici dogmatismi e intransigenze (peraltro contrarie alle volontà dei compositori: non credo che Wagner fosse un cretino, quando riteneva doveroso tradurre le sue opere nella lingua del paese dove sarebbero state eseguite). Insomma, io non credo sia un dramma. Ricordo la follia di qualche tempo fa alla Scala, quando persino l'operetta La Vedova Allegra (non certo un capolavoro musicale intoccabile) fu eseguita in lingua originlae e con un approccio severo e serioso manco fosse il Palestrina di Pfitzner…
Il problema è che sono completamente cambiate le condizioni esecutive. Oggi i cantanti hanno un´attività internazionale e non sempicemente non possono studiarsi un´opera in cinque o sei lingue. Sergio Sablich, quando era direttore artistico alla RAI di Torino, fece il Ring con Inbal. Lui e il direttore avrebbero voluto farlo in italiano, ma la risposta dei cantanti fu che non aveva senso studiare la parte così per poi eseguirla una volta sola,
Poi, su Wagner e sul repertorio slavo ti posso anche dare ragione, ma la Carmen in italiano per me è insopportabile, diventa un´opera di Leoncazet…
Come facevo notare, e Donzelli ha afferrato, una volta si facevano cose inaccettabili con le edizioni multilingua, anche nei grandissimi teatri. Io credo che se potessimo ascoltare, per esempio, il mitico Rigoletto rappresentato alla Hofoper di Vienna nel 1914, con Caruso e Titta Ruffo che cantavano in italiano e tutto il resto del cast che cantava in tedesco, ci scapperebbe da ridere.
ma certo! E il fantastico rigoletto russo di Kozlosky, e i pescatori di perle con lemeshev… sono cose magnifiche! Rimango colpito però particolarmente dalla Tassinari… certe meraviglie dalla Caniglia me le attendevo, ma da lei….
rispondo all'ultimo commento di Mozart: non mi scapperebbe da ridere proprio per niente. Caruso poteva cantare pure in turcomanno, per quel che mi riguarda. Come prova basti l'incredibile Jacques Urlus che pur cantando in olandese, o fiammingo, nnon saprei dire, ci ha lasciato incisioni mirabili… e non credo c'entri molto la internazionalizzazione degli artisti: si muovevano moltissimo anche in passato.
Silvio, ti porto un altro esempio. Il Boris del Met 1939, con Pinza che canta in italiano e il resto del cast in inglese…canta divinamente ma dai, nun sse po´sentì!
certo, porti esempi estremi. Ma te ne potrei fare altrettanti in cui il risultato non è affatto così agghiacciante. Soprattutto i miscugli linguistici danno fastidio, su questo siamo d'accordo: o tutti in una lingua, o tutti in un'altra. Però Caruso non l'avrei disdegnato nel 14. COsì come non disdegno il Rossini della Dolukhanova, permettimi, o il romeo et juliette in russo. E nemmeno le registrazioni paté di opere verdiane (trouvére e traviata magnifici).
Silvio, quelle sono magnifiche ma sono versioni approvate dall´autore. Trouvere tra l altro, oltre alle danze, ha delle modifiche di un certo peso nel finale rispetto alla versione corrente.
Però, Mozart, il discorso non è nei termini che poni: nessuno si sognerebbe di sostenere che andrebbero utilizzate certe ridicole versioni ritmiche o che van benissimo le edizioni bilingui o trilingui. Dico solo che non è un dramma né un attentato musicale tradurre un'opera in altra lingua: ovviamente con maggiore cura rispetto a quel che si combinava nell'800 (per evitare gli orrori del Guillaume Tell, di Favorite, di Medeé etc…). Nessuno, oggi, si scandalizza all'ENO dove qualsiasi opera viene tradotta in inglese (senza alcun stravolgimento, dato che le traduzioni sono nuove e curate). La splendida incisione Opera Rara del Robinson Crosoe di Offenbach, è in inglese (e non nell'originale francese): ed è uno splendore! Qui nessuno vuole sostenere la validità assoluta delle decrepite versioni ritmiche, però bisognerebbe uscire dalla logica dell'attentato all'integrità musicale ogni qualvolta non si usi la lingua originale. Poi bisogna anche distinguere caso da caso. Ripeto: il Verdi tedesco è splendido. Certe incisioni verdiane in russo (Aida o Rigoletto) o le tante testimonianze di Lemeshev (Puccini, Auber, Gounod) sono capolavori. Hai mai sentito la Turandot (in tedesco) diretta da Solti per la Radio di Colonia?
Duprez, io non sono un talebano nemmeno sulla filologia, figuriamoci se mi scandalizzo per le opere tradotte. Il problema, come ho detto, era che, quando l´usanza di eseguire tutto nella lingua della nazione di appartenenza, una delle conseguenze erano queste edizioni plurilinguistiche di cui parlavo. Questo perchè i cantanti che avevano una carriera internazionale non potevano ovviamente studiare un´opera in tre o quattro lingue diverse.
Sono anch´io del parere che rifare le traduzioni sarebbe la priorità. Ricordo il mio primo Romeo et Juliette, nel 1976 all´Arena, con la Pilou, Luchetti e Nucci, eseguito in una nuova traduzione italiana che funzionava benissimo. Oppure Die Fledermaus a Venezia e Bologna, nella eccellente versione italiana di Gino Negri.
Però farei un´eccezione per le opere italiane di Mozart, che in traduzione tedesca suonano davvero grevi e pesanti.
Ciao.
Comunque, si può discutere su questo fatto, è vero, però io ho assistito ad una "Samson et Dalila" con Simionato (in italiano) e Vickers (in francese) che, credetemi per il puro fatto vocale della serata, n'era valsa la pena!
riflettendoci meglio, l'esempio del Verdi tedesco di Duprez è ficcante, forse il migliore che si possa fare: Roswaenge, Schlusnus, la Cebotary, la Reining, la Leider… e potrei continuare molto a lungo – non fanno certo rimpiangere l'italiano, anzi, si sente che s'esprimono meglio e con maggiore dimestichezza proprio perchè cantano nella loro lingua. L'otello di Franz Volker, di cui si trovano ampi lacerti, ne è la riprova.