Il 27 marzo alle ore 17.50 ossia dieci minuti prima dell’inizio dell’attesissimo evento, sono entrato nella Philharmonie di Berlino e dopo aver preso il mio posto nella sala, ho spento il cellulare. Quando alla fine del concerto l’ho riacceso per controllare l’ora, sono rimasto stupito dal vedere che segnasse già le 23.30. Pur avendo avuto l’impressione di essere passato per qualcosa di molto importante (a cui era associato un certo sentimento quasi-fisico di “peso”), queste 5 ore e mezza misurate oggettivamente dal mio orologio mi sono sembrate troppo, inutilmente ed inadeguatamente dilatate rispetto al tempo che era stato percepito sia durante l’esecuzione dei tre atti che nei due intervalli. L’ultima frase andrebbe in realtà scritto unicamente in prima persona, perché la recensione che segue del Tristan eseguito dal Rundfunk-Sinfonieorchester di Berlino sotto la guida del maestro Marek Janowski in forma di concerto nell’ambito del suo Wagner-Zyklus dovrà rimanere segnata da uno stampo di soggettività: nel caso presente, la pretesa di universalità quale “critica” destinata a formare il giudizio altrui sarebbe difficile a reclamare. E questo proprio per la disfunzione temporale di cui mi sono accorto a fine recita e che ha letteralmente sospeso, quasi cancellato – o piuttosto: retrospettivamente deformato – la traccia di tutto quello che avevo sentito durante le anteriori cinque ore e trenta minuti.
E’ la prima volta che mi sento incapace di articolare un giudizio univoco su una prestazione, in questo caso, su quella del maestro Janowski. Non ho l’impressione di avere assistito ad una serata storica e rivelatrice, ma il pensiero su questo Tristan non mi lascia nemmeno dopo qualche giorno dal concerto. So di avere sentito un lavoro orchestrale che si potrebbe definire molto solido e molto paradossale. La mia “illusione” temporale può essere evocata come una sorta di dimostrazione che si sia trattata di un’esecuzione fatta “in un soffio”, il che non vuol per niente dire un’esecuzione eccessivamente veloce od affrettata. Talvolta – soprattutto all’inizio del secondo atto o in certi passaggi dell’agonia di Tristano – si poteva notare una certa scolasticità che sembrava una secchezza voluta, ma mai si è sentito un passaggio noioso, senza vita, ovvero: mai si è percepito il tempo, anche se, al pari del Tristano visionario, “non potrei dire quel che ho visto” con esattezza. Qua e là non sono mancati disequilibri e sbavature da parte di vari strumenti a fiato, specie lungo l’intero terzo atto, ma cionondimeno tutto è sempre rimasto soggiogato ad un inarrestabile flusso musicale tramite il quale Janowski ha saputo manipolare e disturbare la nostra percezione con diversi contrasti acustici e temporali. Più di un lavoro verticale sulla pasta sonora la chiave di lettura del maestro è sembrata di essere 1. la sottolineatura austera delle dissonanze e degli attacchi degli strumenti individuali nel tessuto polifonico, 2. la contrapposizione ed alternanza dei tempi più contrastati nei momenti più cruciali, e 3. la sistematica soppressione di ogni esagerazione ed esaltazione pseudo-appassionata nell’eseguire uno spartito la cui musica è per sé la quintessenza dell’esaltazione. Tutti e tre principi sono stati esemplarmente esposti nel primo preludio che si è rivelato un vero capolavoro di conseguente – ed anche paradossale – costruzione dinamica.
Per quanto riguarda i cantanti, hanno dato una prova di gran lunga superiore i solisti maschili. Molto espressivo il Junger Seemann di Timothy Fallon. Johan Reuter quale Kurwenal dimostra una voce piuttosto piccola ed ingolata, ma è incomparabilmente meno berciante di tutti i Kurwenal in circolazione. Kwangchul Youn, pur con acuti indietro e poco squillanti, penalizzato nel terzo atto anche dalla scrittura orchestrale piuttosto pesante, ha eseguito con grande musicalità il lungo monologo del secondo atto ed ha ricevuto fragorosi applausi personali subito dopo il secondo atto. Aspettando il peggio possibile dopo il suo Kaiser nella Frau ohne Schatten salisburghese, Stephen Gould quale Tristan è stato nel complesso una positiva sorpresa. Gli acuti sono sempre bianchi e spinti, ma il solido ed ampio centro consente al tenore americano (soprattutto dal secondo atto in poi) di avere un minimo fraseggio apprezzabile e di produrre a tratti anche linee vocali piuttosto lunghe e ben legate.
Assolutamente scandalosa la prestazione di Michelle Breedt la quale si è superata nell’indecenza che è la sua più costante qualità artistica. Intonazione, fraseggio aspramente parlottato ed una volgarissima affettazione degni di un Pierrot lunaire di basso livello. Quello che si sente meglio della sua voce, sono le consonanti finali insopportabilmente sputate come il morso di un serpente velenoso, il che rovina tutto il suo Nachtruf nel secondo atto. Se della serva si sentono solo le consonanti, della padrona si sentono solo le vocali (cioè un’unica vocale indeterminabile)… Lasciamo perdere il fatto che Nina Stemme abbia una voce interamente ingolata ed in realtà piccola, artificiosamente scurita e gonfiata, un’emissione dura in ogni registro, piani da debuttante ed acuti sistematicamente urlati. E’ semplicemente inutile anche e soprattutto come fraseggiatrice. L’inesistenza del legato e la durezza vocale non sono compensate nemmeno da una buona articolazione verbale o da un fraseggio fantasioso ed eloquente (almeno sul livello verbale nel peggior modo dello Sprechgesang, come nel caso di una Herlitzius). Questa monotona e penosa alternanza di suoni che non formavano né linee musicali né parole distinguibili si è ancora una volta affermata nella sua suprema inutilità nel Liebestod dove le urla frammentarie della Stemme arrivavano in diretto controcorrente dell’estrema morbidezza e fluidità dell’orchestra di Janowski.
Nel Liebestod Janowski ha fatto culminare il suo approccio quasi disincarnato alla musica wagneriana; la musica andava avanti inarrestabilmente e con incredibile naturalezza; eppure, era, come se non fosse. E quando l’ultimo accordo è stato terminato con un’asprezza quasi crudele, lì dove il gergo della declinazione tardo-romanticizzante della coda ci ha abituato ad una dilatazione ed alla “messa di voce completa” dell’orchestra, è arrivata come uno choc la consapevolezza che la musica fosse finita, quella musica che si era appena percepita mentre veniva suonata. Un’ultimo colpo ipnotico di un maestro squisito la cui direzione non mi piaceva neanche lungo parecchie, tante sezioni concrete dell’opera. Ma non ho mai in vita mia fatto un’esperienza cosi bizarra del Tempo. Una vera metafisica del tempo fatto musica o la musica fatta tempo, disincarnata fino ad un’elementare e trascendentale anatomia dell’estensione temporale.
Bella recensione. Janowski è un grandissimo direttore, che naturalmente la provinciale e incolta Italia, dove ormai ragazzini raccomandati e incompetenti arrivano addirittura sul podio del massimo teatro lirico nazionale, ignora bellamente.
Qui il problema, credo, è che Janowski stesso non dirige più all’opera per principio. Dice che si sente completamente estraneo alla nuova “estetica” dei teatri lirici, ossia la Regieoper.
Certo che per quanto riguarda Janowski come direttore sinfonico, la vita concertistica ‘Italia (come di ogni altro paese) guadagnerebbe molto dalla sua presenza.
Cara Giuditta, ho ascoltato alla radio il Tristan ed anche io sono stata trasportata dal tappeto volante della musica per tutta la durata della trasmissione. Una direzione sobria, precisa e“sgranata”, dal suono luminoso, imponente e leggero, a tratti possente ed altri impalpabile, sempre morbido e cangiante, una lettura per me nuova e coinvolgente dove la musica non è mai apparsa solo funzionale ma protagonista.
Sul cast non concordo tanto con il tuo giudizio, avendo trovato pessimo Stephen Gould dalla voce e l’intonazione oscillante, mentre Nina Stemme, pur presentando tutti i problemi vocali di cui parlavi, mi pare abbia tentato un’interpretazione sensibile e attenta alle sfumature psicologiche del personaggio. Comunque, avendo registrato la trasmissione radiofonica , mi riprometto di risentirla e, magari, cambiare parere o riscriverne.
A proposito della ripresa radiofonica: qualche giorno fà ho sentito anch’io la registrazione ed ho scoperto che l’impressione che le voci hanno dato dal vivo e alla radio sono radicalmente diverse. Alla radio sono rimasti censurati proprio quelli cantanti che in sala sono stati i migliori, ossia Youn e Gould.
La Stemme, sentita nella registrazione, può dare l’idea di chi sà che voce ed interpretazione. Peccato che in sala sia stata letteralmente inudibile in certi momenti. In sala si sentivano solo note spezzate e l’interpretazione (ossia fraseggio, articolazione etc.) arrivav apparentemente solo fino alla quinta fila. Durante il concerto ho cambiato due volte di posto, quindi ho ascoltato i tre atti da tre posti diversi (dal più lontano fino alla dicesima fila della platea) ed ogni volta l’impressione con la Stemma era la stessa: inudibile od udibile male e senza chiarezza verbale e musicale. La Stemme non ha suono, una voce impostata cosi non PUO avere suono. Ed è in un caso cosi che si capisce cosa può fare un microfono.
Anche a me è capitato di ascoltare delle dirette radiofoniche dove le voci apparivano ben diversi da ciò che avevo udito in sala, quindi, non stento a crederti e ,sicuramente, l’unico giudizio attendibile è il tuo. Se ben ricordo,Youn mi era sembrato assai bene, benché un po’ strozzato in alto. Nell’insieme, la compagnia di canto era modesta accanto alla qualità della direzione e dell’orchestra.