La Traviata es una ópera que necesita, para una funcional y correcta puesta en escena, tres cantantes protagonistas de alto perfil musical, artístico y vocal, tanto en la protagonista como en Alfredo y Giorgio Germont. Se requiere una soprano ágil, con un instrumento técnicamente impecable en todos los registros, un tenor hábil en manejar su aliento en la delicada zona “di passaggio”, con una voz elástica tanto en la expresión como en la técnica y un barítono profundo que esté a la altura de dichos protagonistas.
La Traviata que se presentó la noche pasada en el máximo recinto operístico de la Ciudad de México, fue carente tanto en la parte vocal como en la parte orquestal y escénica llevando toda la producción a un inevitable pero limitado fracaso.
Leticia de Altamirano demostró en el curso de toda la noche una evidente deficiencia tecnica: prefiero no hablar de su “Sempre libera” por decencia de crónica, para concentrarme en las partes mas “accesibles” de esta opera: en general cantó con una voz sin ningún apoyo sobre el aliento, empujada en el registro mas alto y totalmente inexistente en el registro bajo. Solo el registro central funcionaba, pero para cantar a Violetta no es suficiente. A todo esto se añada falta de entonación y de pronuncia y como consecuencia de lo antedicho, una inevitable falta de fraseo. Emblemático el encuentro entre los dos amantes al final de la I escena en II acto: en la frase “amami Alfredo” la soprano, alumna del mismo maestro de Villazón (se explican muchas cosas!!!), agarra desafinado el fa4 y como consecuencia canta sin apoyo las notas sucesivas en escala descendiente, en la batuta siguiente el la4 y el si bem4 en ff los ejecutó empujando con la garganta, todo como enseña la moderna escuela de canto, la escuela del non-canto. Y así se repitó la misma historia en “addio del passato”: falta de fraseo, de proyección y fraseo.
Pasamos al tenor, el reciente Hoffmann en la Scala de Milán. Arturo Chacon-Cruz nos mostró una voz completamente ahorcada, paralizada en la garganta. Cosa que impide ejecutar ciertos elementos clave en el papel de Alfredo: expresar dulzura y claridad en la expresión y saberse mover, como ya dicho, con seguridad en la zona “di passaggio” todo con una emisión sólida. Quedándose toda en la garganta, la voz empujaba todo en los momentos mas trágicos y nasal en los mas íntimos (“Parigi, o cara”). Claro, Bellas Artes no es un teatro muy grande: eso le permitió poder ser escuchado con claridad en toda la sala y cubrir por completo la pequeña voz de Violetta. Pero bueno, si estamos a niveles mucho mas altos que los de su compatriota Villazon, cuya trayectoria artística sigue y será siendo uno de los grandes misterios del canto lírico.
Para concluir la lista de voces: el barítono Luis Ledesma, el prototipo del barítono de hoy: voz vulgar y desordenada, toda masticada en la boca y totalmente gutural. Con las tipicas consecuencias del caso.
La orquesta fue otro capitolo negativo de esta producción: sonido muy sucio, sin una unidad entre todas las secciones. A esto se añada un director, el ruso Denis Vlasenko, que empujó la orquesta a sacar un sonido rumoroso, y poco respetuoso de las débiles voces en el escenario, todo con un gesto elemental pero no claro.
Dulces in fundo, las escenas: muy,demasiado modernas, con algunos aspectos incoherentes con el texto y la poética de Verdi y Piave, el libretista, pero nada de radicar, lejana de esas paranoicas locuras escénicas que ya han invadido todos los teatros en las tierras europeas.
Andare all’opera a Città del Messico, unico grande centro culturale attivo del paese, significa assistere a qualcosa di diverso, badate, né in bene né in male, rispetto a quello che intendiamo noi: e questo perché l’opera resta un forma d’arte lontana dalla tradizione storico-culturale di questo paese.
Poche sono le rappresentazioni, pochi sono i teatri ed eccessivamente elitario è il pubblico (elitario, non critico), soprattutto quello che va al Palacio de Bellas Artes, emblema della alta e colta società della città. L’assistere ad uno spettacolo operistico è vissuto quindi come qualcosa di eccezionale ed imperdibile dai chilangos, gli abitanti di Città del Messico. E ciò può sembrare alquanto strano per una città che nei primi decenni del secolo scorso ha visto e applaudito spesso nei suoi palcoscenici cantanti del calibro di Maria Barrientos, Luisa Tetrazzini, Eugenia Mantelli, Tina Poli-Randaccio, Virginia Guerrini, Rosa Raisa, Claudia Muzio, Alessandro Bonci, Tito Schipa, Aureliano Pertile e Miguel Fleta (fino alla prima Callas in coppia fissa con Di Stefano) che dopo aver deliziato il pubblico argentino nelle lussuose stagioni del Colòn erano soliti fare una piccola sosta in Messico nei mesi autunnali prima di tornare nei teatri del Nord America e d’Europa. Altrettanto strano è il fatto che un pubblico che 50 anni fa fischiava sonoramente la Cerquetti e la Milanov e storceva il naso per il Manrico bergonziano, oggi, un po’ più anziano, applauda altrettanto sonoramente un mediocrissimo, se non scadente, soprano locale. Sono cambiati i tempi, certo, è cambiata l’educazione culturale, è cambiata la mentalità e il modo di vivere qui in Messico da quegli anni ad oggi per una sempre più marcata lontananza dall’Europa ed un conseguente avvicinamento alla superficiale, e col senno di poi, dannosa “cultura” americana.
Questa Traviata vedeva come protagonisti un soprano messicano, recentemente uscito finalista da un locale reality show operistico, Leticia de Altamirano, un tenore non sconosciuto alle scene europee e fresco di Scala, Arturo Chacon Cruz, e una passeggera conoscenza scaligera, il baritono Luis Ledesma, presentatosi all’Arcimboldi nel 2003 con “Luisa Fernanda” di Torroba come comprimario.
Il soprano ha manifestato in tutti e tre gli atti una palese deficienza tecnica. Sorvolo sul “Sempre libera” per decenza di cronaca, per concentrarmi sui momenti, si fa per dire, più abbordabili: in generale ha dato mostra di una voce senza un minimo sostegno, in alto spinta nei momenti più tragici, e falsettata in quelli più intimi, mentre in basso muta, completamente inesistente. Solo il centro sembrava funzionare, ma per cantare Violetta, si sa, non è sufficiente. Oltre a ciò si aggiunga una pesante carenza nell’intonazione, nella pronuncia, e come conseguenza di quanto detto prima, nel fraseggio. Emblematico l’incontro tra i due amanti alla fine della prima scena del secondo atto: nella frase “amami Alfredo” la De Altamirano, allieva dello stesso maestro di Villazon (si spiegano molte cose!!!) ha preso stonato il fa spoggiando e quindi stonando le successive note in scala discendente, nella battuta successiva i la4 e il sibem4 successivo in ff, gli ha quindi eseguiti spingendo con la gola, come insegna la scuola di canto moderna, la scuola del non-canto. E cosi nelle prime centrali battute di “Addio del passato” si è ripetuta la stessa storia: mancanza di fraseggio, di proiezione e di gusto.
Passiamo al tenore, l’Hoffmann scaligero del gennaio scorso. Devo, ahimè, ripetere quanto detto a riguardo dell’esecuzione milanese: voce tutta bloccata, cementificata in gola. Cosa che impedisce eseguire una serie di caratteristiche chiave del personaggio di Alfredo: esprimere dolcezza e chiarezza nell’esecuzione e sapersi muovere con sicurezza nella zona di passaggio il tutto con una solidità d’emissione ferrea. Cosa che il tenore messicano non aveva. Essendo tutto in gola, la voce risultava impiccata e spinta nei momenti più forti e nasale nei momenti d’intimità (vedi “Parigi o cara”). Certo, Bellas Artes è un teatro non particolarmente grande: ciò gli ha permesso di poter essere sentito e ascoltato con chiarezza ovunque e di coprire la minuscola voce di Violetta. Tuttavia, confronto a Villazon, siamo a livelli ben più alti e dignitosi.
Dulcis, ma neanche tanto, in fundo, Giorgio Germont: Luis Ledesma, il prototipo del baritono odierno: voce volgare e scomposta, tutta masticata in bocca e gutturale. Con le conseguenze solite del caso.
L’orchestra di Bellas Artes, esibendosi poche volte all’anno, ha una qualità musicale particolarmente bassa: soventi sbavature degli archi nell’intonazione e nella pulizia del suono, suono fibroso e sconnesso tra le varie sezioni e una mancanza di coesione sonora. Dobbiamo però aggiungere, a questa situazione già di per sé infelice, una bacchetta decisamente pesante: il russo Denis Vlasenko. Gesto elementare, ma non chiaro, suono appunto rumoroso e poco rispettoso delle deboli ugole sul palcoscenico, assenza totale di fraseggio e di interpretazione.
Qualche contestazione l’ha ricevuta invece la regia. Certo, alcune aspetti erano assolutamente fuori dal contesto teatrale verdiano (vedi cornice rosso erotico che circondava la scena, vestiti ottocenteschi in una ambientazione contemporanea…), ma ecco niente di radicale, di esagerato, lontana da quelle paranoie registiche che hanno invaso ormai i teatri di tutta Europa.
Recensione e traduzione di Manuel García
Verdi – La Traviata
Atto II
Invitato a qui seguirmi…Alfredo, Alfredo, di questo core – Maria Callas, Giuseppe Di Stefano & Pietro Campolonghi (1952)