Le nove sinfonie di Beethoven: un’introduzione.

Le nove sinfonie di Beethoven sono state, per l’800 romantico, il modello, la summa, la pietra di paragone del genere “principe” tra le composizioni strumentali di larga scala e di grandi proporzioni. La sinfonia per tutto il XIX secolo – e oltre – è considerata il magnum opus di ogni compositore che si volesse affacciare sulla scena musicale con una credenziale che ne attestasse capacità e valore. In questo senso il ciclo beethoveniano rappresentava il riferimento obbligato, il termine di confronto (persino nel numero), in un atteggiamento che dall’ammirazione degenerò sino alla venerazione ed al culto, a cui si associò, ben presto, una cospicua produzione teorica, esecutiva e – in tempi più recenti – discografica. Ovviamente tutto questo fermento – insieme ad aneddoti più o meno inverosimili e a frammenti della biografia dell’autore, riletti in chiave spiccatamente individualistica – ha comportato l’insorgere di miti, leggende e fraintendimenti d’ogni genere: l’immagine del Beethoven romantico, nasce e si sviluppa da questi fenomeni per sfociare in una vulgata – ancora oggi difficile da superare – per cui il compositore si è trasformato in una sorta di epigono del romanticismo tout court, semplificando, così, e banalizzando le complesse trame della sua estetica musicale che, invece, trova ancora le proprie radici saldamente piantate nel classicismo per svilupparsi in orizzonti sconosciuti anche al tempo della sua postuma venerazione, verso strade di sconvolgente modernità e anticipazione. Del resto – sfuggendo alle facili suggestioni di un immaginario collettivo condizionato da un secolo e mezzo di più o meno consapevoli forzature o falsificazioni, a cominciare da Hoffmann, reponsabile primo di questa abusata revisione – è ben difficile considerare “romantico” un musicista che elesse a suo unico modello Händel (definito “il più grande di tutti”) e che, tra i contemporanei, ritenne degno di stima il solo Cherubini; così come è molto difficile definire espressione del “romanticismo” lavori come l’op. 93 (l’Ottava Sinfonia) o l’op. 125 (con l’ode schilleriana che compendia i più alti ideali umanisti dell’Illuminismo), gli ultimi grandi quartetti per archi (l’op. 132 o l’op. 135), le Bagatelle op. 119 e op. 126 o le variazioni Diabelli (vertice del pianismo beethoveniano), oppure le ultime enigmatiche sonate per pianoforte (l’op. 111 in Do minore e le due che la precedono); ma neppure possono essere ricondotte allo stereotipo romantico le grandi ouverture tragiche, la musica sacra, o il travagliato Fidelio/Leonore. Già Dahlhaus ha affrontato in modo definitivo la questione nel suo fondamentale “Beethoven e il suo tempo” (testo che consiglio a chiunque voglia sfuggire dalla facile agiografia tradizionale). Ma aldilà del problema sistematico (l’ostinarsi a voler racchiudere in determinate categorie ciò che non può essere costretto in nessuna) è indubbio che Beethoven, e in particolare le sue sinfonie, costituiscano uno spartiacque nello sviluppo della storia musicale: spartiacque inconsapevole, certamente “sentito” più dalle generazioni successive (e dalla mitologie che vi hanno costruito sopra), ma sicuramente reale e concreto, sia nella pratica che nella teoria. Questa è la ragione per cui vale la pena riflettere sulla storia interpretativa del ciclo beethoveniano attraverso il tempo, le diverse scuole, le sensibilità individuali e le ricerche musicologiche in un cammino che ci accompagnerà nell’analisi delle principali testimonianze (tra presente e passato) di questa suggestione. Lo farò seguendo criteri ben precisi (incisioni integrali, salvo alcune eccezioni necessarie), raggruppando le diverse letture per omogeneità interpretativa, comune sensibilità e ricorrenza cronologica: con le inevitabili omissioni (di cui mi scuso anzitempo) che ragioni di brevità e opportunità comportano (oltre al gusto personale dello scrivente). Ma “ogni lunga marcia comincia da un piccolo passo” e, prima di dare inizio a questo cammino musicale, il primo passo è una domanda: che cos’è una sinfonia? Sino alla fine del XVIII secolo, la sinfonia era un genere minore: nessun compositore la riteneva centrale nella propria carriera musicale, così come nessun programma concertistico (pubblico o privato) si fondava sull’esecuzione di una di esse. Il genere – pur ancora indefinito – nacque tra ‘500 e ‘600, come brevissimo brano introduttivo al ritornello nel recitar cantando, poi, con la graduale emancipazione della musica strumentale da quella vocale, assunse dei confini e delle forme più precise, senza, però, differenziarsi in maniera decisiva dalla sonata. La funzione principale della sinfonia (preferibilmente in forma bipartita con ripresa) era l’introduzione di opere, oratori e cantate, ma anche di suite orchestrali (principalmente nel repertorio tedesco). Con Scarlatti il genere venne codificato in una forma ben precisa – la cosiddetta ouverture italiana – secondo uno schema tendenzialmente tripartito (allegro-adagio-allegro), ma essenzialmente monotematico: è evidente l’influenza dell’aria tripartita dell’opera seria. Nel secolo successivo l’uso della sinfonia si svilupperà in quantità, ma non raggiunse ancora quella centralità che conquistò nel pieno ‘800. “Sinfonia”, “overtura”, “ouverture” erano sinonimi per indicare un brano finalizzato ad introdurre non solo l’opera o l’oratorio, ma anche concerti solistici, balli, funzioni religiose. A volte una sinfonia chiudeva un concerto, oppure veniva utilizzata per concluderne una parte e per aprire quella successiva. Se si osserva il programma di un’accademia (così si chiamavano i concerti tra XVIII e XIX secolo), si noterà come le sinfonie fossero solo un contorno del piatto principale, costituito di solito dal concerto (dove spesso, il solista, era il compositore stesso), dalla musica da camera o dagli assoli vocali. Erano brani graziosi, brillanti, spiritosi, leggeri, senza grosse pretese musicali. Del resto, a conferma dell’occasionalità del genere, basta confrontare le cifre: un compositore settecentesco produceva decine e decine di sinfonie, laddove, nel secolo successivo, il numero calerà drasticamente. Lo stesso Mozart, con l’eccezione degli ultimi lavori sinfonici (segno evidente di una diversa consapevolezza), non si discostò da quella tradizionale funzione. Poi attraverso Haydn e, soprattutto, Beethoven le cose cambiarono. Il mutamento più evidente, a livello formale, fu l’ampliamento del numero dei movimenti, che passarono da tre (allegro-andante-presto) a quattro, con l’inserzione di un minuetto con trio (a volte sostituito con un più semplice scherzo), tra l’andante e il finale. Aldilà della funzione e delle innovazioni di forma, la sinfonia classica mantenne – se pure con innumerevoli varianti, digressioni e deroghe – una sua grammatica ben precisa: fondata sulla forma-sonata caratteristica della scuola viennese (quella che nessun compositore italiano riuscirà mai a padroneggiare in maniera decente). In siffatta visione teorico-pratica, il movimento più importante è il primo, in tempo allegro: quello più ampio dove si sviluppa il virtuosismo del compositore nel trattamento dei temi. Questo è solitamente articolato nelle tre parti in cui si esplica la forma-sonata classica: esposizione, sviluppo e ripresa. E spesso viene preceduto da una introduzione più lenta e concluso da una coda. Nell’esposizione sono presentati due temi contrastanti: il primo nella tonalità principale, il secondo costruito sulla dominante (se il principale è in maggiore) o sulla relativa maggiore (se il principale è in tonalità minore). I due temi sono tra loro collegati da un episodio di modulazione chiamato ponte. La seconda parte è lo sviluppo o lo svolgimento: in esso i temi precedenti vengono liberamente trattati ed elaborati. Nella terza parte – detta ripresa – i due temi vengono riproposti, ma modulati entrambi nella tonalità principale. E’ interessante notare come, col passare del tempo e con lo sviluppo del genere sinfonico, l’interesse del compositore (già a partire dal Beethoven maturo: si pensi all’op. 68) si sposti dai temi (che gradualmente si ritirano in uno spazio più ridotto) agli episodi di raccordo, dove si sviluppa l’abilità del musicista nel “portare” la musica attraverso passaggi complessi e modulazioni ardite. Il secondo movimento – un largo o un andante – è solitamente costruito secondo la formula più semplice del lied (una romanza lirica e meditativa), o dell’aria tripartita (rifacendosi allo schema dell’opera seria: prima parte, seconda parte e da capo con variazioni) o del rondò (con la ripetizione di una medesima idea musicale tra elementi secondari), oppure è un semplice tema con variazioni. Il terzo movimento (la conquista più recente del genere viennese) è suddiviso in due parti antitetiche: minuetto e trio, a loro volta bipartiti (lo schema era questo: minuetto con da capo, trio con da capo, ripresa del minuetto senza ripetizione). A volte (specialmente in Beethoven) al minuetto viene sostituito uno scherzo: di carattere più brillante e veloce. Infine, il quarto movimento – di solito un presto – segue lo schema del rondò o del tema con variazioni (meno frequentemente adottava, pur in modalità più semplificata, la forma-sonata). Per tutto il secolo questo impianto formale (e la grammatica della forma-sonata) costituì il modello più adatto a dare unitarietà di linguaggio alle più ampie costruzioni sinfoniche (ma anche ai quartetti, alle sonate, ai concerti), pur trattato con estrema libertà dai compositori maggiori – di solito erano gli accademici più limitati o i critici più miopi e conservatori a “denunciare” come decadenza il distacco dalle regole tradizionali, sfociando in un vero e proprio formalismo che tendenzialmente trattava la musica come una sorta di burocrazia delle sette note (ignorando, o fingendo di ignorare, che i primi a fuggire dalle maglie ristrette della forma, furono proprio i compositori la cui eredità si piccavano di difendere: Beethoven, Schubert, Schumann…). Con lo sviluppo del genere e la dilatazione delle strutture, la forma classica della sinfonia viennese si dissolse gradualmente, sino alle gigantesche costruzioni mahleriane che apriranno la strada al linguaggio novecentesco. Tuttavia l’esperienza beethoveniana, pur declinata in modo libero e personale, rimase, per tutti, un modello etico ed estetico, attraverso cui “governare” il cammino del genere sinfonico attraverso la modernità. Un cammino che non è solo creativo, ma che – come vedremo – riflette le scelte esecutive e la concezione musicale dell’interprete, attraverso i mutamenti del tempo e i ricorsi della storia.

4 pensieri su “Le nove sinfonie di Beethoven: un’introduzione.

  1. Una curiosità, Duprez. Bellissimo articolo, ma c’è qualche ciclo di sinfonie del Maestro che ti ha spinto a scrivere l’articolo oppure era solo una “lezione” normale? te lo chiedo perchè amo Beethoven e vorrei che me lo segnalassi. Grazie, il salottiere Stefix 😉

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