La prospettiva di un martedì in coda al freddo per ascoltare i 4+1 dell’Aida ambrosiana mi è parsa veramente incombente durante lo scorso week end. L’ombra scaligera si allungava sul mio martedì e così mi sono creata un alibi di ferro per prendere un aereo ed organizzarmi una serata migliore al cospetto del Vesuvio con la bocca imbiancata dalla neve, un bel fritto di pesce terminato in un piatto di mitiche graffette calde appena fatte, ed il 2+1 della Lucia di Lammermoor del San Carlo. Il web aveva rimbalzato, tramite il loggionisti partenopei, il trionfo della Pratt, che il giorno di San Valentino avrebbe cantato, cosa che non sapevo, con un tenore che mi piace, Ismael Jordi. Perché restare a Milano? Non rimpiango affatto di avere lasciato perdere il pretenzioso risotto scotto e annacquato di Lissner, perché sono riuscita a sentire nella stessa sera due cantanti protagonisti, cosa che di questi tempi è un lusso incredibile, diretti da un pezzo di storia della lirica moderna, Nello Santi, in uno spettacolo tradizionalissimo, apprezzato dal pubblico. Nessuna pretesa di cambiare la storia dell’opera, solo quella di fare della buona musica secondo tradizione, per un pubblico che sa ancora apprezza quello che di valido c’è nella tradizione vocale e visiva.
Il primo a seguire l’onda tradizionalista è stato il regista Gianni Amelio, in compagnia del suo scenografo NicolaRubertelli, del costumista di Maurizio Millenotti: scenografie, bellissime, che l’han fatta da padrone dello spettacolo, un gotico inglese con qualche tocco di lessico angioino, alte vetrate archiacute, un timpano, una sala dal sapore Tudor, insomma, la più classica delle atmosfere alla Scott, la notte, il buio della torre, il rosso. Il regista ha fatto il minimo indispensabile, fin troppo poco forse, lasciando i cantanti fermi al centro della scena nei momenti topici, con due sole note caratteristiche: l’ingresso di Lucia nel giardino preceduto dall’apparizione di una bambina che costeggia l’edificio gotico, immagine non nuova ma che pareva evocare qui la fragilità di Lucia di fronte al mondo, o meglio, il topos letterario romantico dello sgomento e della piccolezza dell’uomo di fronte alla potenza dell’architettura gotica; Lucia vestita di nero alla scena della pazzia, apparizione sorprendente della protagonista che sta per morire e compare alla festa bellissima, velata e in nero, perché è ipostasi della morte stessa. Tutto coraggiosamente tradizionale, quasi anacronistico, ma molto evocativo e molto efficace per l’occhio. Ho misurato a Napoli il tempo trascorso in questi tre decenni di teatro, perché questo pareva proprio uno spettacolo anni ’80: rispetto a quegli anni possiamo ancora essere appagati dalle scenografie e dai costumi tradizionali, ma l’eccesso di staticità, degna piuttosto dei filmati di Beniamino Gigli, mi è parsa eccessiva e fastidiosa. La scarsa dinamica scenica, ad onta del fatto che il palco funzionasse, ha pesato anche perché la buca ha staccato tempi molto lenti, che hanno sortito esiti alterni. La Lucia di Lammermoor lenta personalmente mi piace ( si veda già Campanella a Torino l’hanno passato ..), ma deve essere sostenuta da una certa tensione orchestrale. Il suono ed il tocco dell’orchestra napoletana non erano quelli torinesi, perciò alcuni passaggi sono risultati troppo fiacchi e “polleggiati” ( se mi consentite un‘espressione gergale ), come la scena iniziale di Enrico o la prima parte del sestetto; in altri casi, invece, poetici e romantici, come il duetto d’amore o il finale di Edgardo. Insomma un mix di efficacia, mestiere, poesia e stanchezza, da parte del maestro Santi, in un’edizione in cui ha praticato alcuni tagli nei da capi di alcune parti.
Jessica Pratt ha espugnato il San Carlo a furor di popolo, continuando la “striscia” positiva ( come dicono nel tennis) inaugurata a Pesaro: da anni pare non si sentissero a Napoli tanti applausi come quelli ricevuti dopo la scena della pazzia e devo dire che mi hanno stupito i commenti affettuosi piovuti dal loggione l’altra sera: pareva un omaggio ad una vecchia cantante di casa.
Avvantaggiata da una regia che l’ha ben vestita, messa in posa in modo conveniente e lasciata libera di preoccuparsi solo del canto anziché di saltare, camminare a carponi sotto i tavoli, ballare e perdere fiato ed energie in inutilità senza esito, la Pratt ha offerto un bella prova, immagino la migliore oggi in circolazione, anche se non certo perfetta e certamente perfettibile. I napoletani erano strabiliati dal suo registro acuto, perchè in effetti al San Carlo non se ne sentiva uno simile da tanto tempo, a me invece premeva sentire una Lucia eseguita con la voce a fuoco come a Pesaro e capire che cosa ne fosse ora come ora di quella messe di piani, pianissimi e messe di voce esibite a Venezia. L’approccio esibito la primavera scorsa non è cambiato, lo squilibrio tra i registri alto e centro grave si è affievolito ma non è del tutto scomparso, nei gravi soprattutto, anche se nella grande sala napoletana non ha mai avuto problemi a farsi sentire. La voce è stata quasi sempre nitida, gli acuti facili come pure le agilità, e si è permessa il lusso di tantissimi piani alla scena della pazzia, al duetto con Edgardo, cercando sempre di fraseggiare con dinamica. Quasi sempre, ma non sempre, e quando non lo ha fatto è stato sempre perché ha cantato cercando effetti fuori dal suo binario naturale. Non sempre come a Pesaro, nella prova eccellente di Adelaide, strumentalmente perfetta. Non sempre spontanea e convincente come nei Puritani, di cui possiede per natura lo slancio di Elvira, o nell’Otello.
La Pratt fa tanto e bene, ma a mio avviso non canta la sua vera Lucia, perché si sforza di essere quello che per sua natura di cantante non è. Ha mostrato che se vuole sa fraseggiare, trovare nuances, eseguire messe di voce etc, una ricchezza dinamica figlia della sua capacità tecnica cui Santi ha dato tutta la libertà necessaria ma che qualche volta mi è parso piuttosto un gioco di bravura o una sfida a se stessa, che non un efficace assecondare la propria natura di cantante, ripeto strumentale e di slancio. Esemplari certe lentezze della cabaletta della cavatina per eseguire piani e messe di voce sui si e la acuti al “si schiuda il ciel per me..”, difficoltà inutili quando si dispone della capacità acrobatica per eseguirla volando sul pentagramma, con mordente, leggerezza e brillantezza di suono. Il duetto con il fratello, alla stretta, “Tu che vedi il pianto mio…” è stato cantato con le lentezze ( oggi inspiegabilmente di moda ) che si confanno più alle fraseggiatrici patetiche o tragiche tipo Scotto o Callas ( che però andava ben più veloce..) che non alle belcantiste pure. Idem dicasi per i tanti pianissimi, da quello del “Chi mi frena” a quelli della pazzia, analitica, ma…quasi eccessiva nel cesello, e di cui la cadenza, paradossalmente, risulta la cosa migliore: i piani di Lucia non sono risultati pregnanti come i piani esibiti nella sortita di Adelaide, ma perché sono la cifra espressiva ed il loro senso ad essere diversi. Insomma, io credo che questa Lucia importante possa crescere ancora accettando di essere una belcantista pura, che si esprime con la metafora della strumentalità mirata e calibrata, e con il mordente, che la stacca dalle Lucie bambine a fragili delle altre voci di oggi, anche perché il mezzo naturale non ha la trasparenza dei leggeri come la Galli Curci, né le modalità espressive delle dolentissime Gencer o Scotto. Ogni cantante ha una natura ed una corda espressiva che gli sono propri, e con quella gioca i personaggi: Jessica Pratt può anche giocare a fare la fraseggiatrice e a fare i piani come la Gruberova, a volersi atteggiare a fraseggiatrice perché ha la tecnica per farlo, ma resta una cantante astratta come la Sutherland o la Galli Curci e non è un caso che il suo personaggio romantico meglio riuscito sia l’Elvira di Bellini, dalla vocalità pararossiniana. E il suo futuro si chiama Semiramide e Lucrezia Borgia se l’evoluzione del mezzo sarà quello che deve essere.
Ismael Jordi ha cantato un Edgardo che mi è piaciuto molto , anzi, diciamo che mi piace in generale il suo modo di cantare e di gestire le parti. E’ un po’ la faccia opposta della Pratt, meno capace tecnicamente di lei ma più naturale come fraseggiatore. Jordi pare molto cosciente dei propri mezzi vocali, una voce leggera, sonora, non molto estesa. Ha cantato Edgardo sapendo bene di essere al limite delle proprie possibilità, per giunta in un teatro grande e con la più impegnativa delle colleghe che oggi pratichi il ruolo. Sta in scena un po’ come il torero nell’arena, in posa, una gamba avanti ed una indietro, di tre quarti, sapendo di essere belloccio e che lo stile ed il portamento contano. Sa anche bene che gli acuti non sono il suo forte, nel senso che non sempre li gira e gli finiscono nel naso, o indietro senza fuoco, e talvolta gli scappano anche suoni aperti sul centro. Degli acuti scritti però esegue bene tutti quelli importanti o in fondo alle frasi difficili, come nell’” Io della morte…”, e le frasi che fanno il personaggio o con cui può dare un ‘emozione le canta controllando il suono. Tornando alla metafora del torero, Jordi ha tre o quattro banderillas con cui infilzare lo spettatore durante la serata, banderillas che ti feriscono con una vera emozione, e le usa con una perizia ed un senso della frase assolutamente perfetti. Ammiro molto chi sa fare questo per giunta in un ruolo che gli và grande e con dei limiti tecnici evidenti, senza abbandonarsi alla concitazione esteriore, agli effetti gratuiti, cercando sempre la frase elegante e l’accento pertinente, in un mondo che ha perso lo stile e l’eleganza del canto tenorile a favore del canto da osteria. Il duetto d’amore è stato bellissimo per entrambi, ha cantato con forza e bella scansione sia il recitativo della torre che quello del finale, ove purtroppo gli manca l’acuto esplosivo e la penetranti di un Mukeria, risolvendo la grande e difficile scena della morte con accenti patetici e raccolti che però hanno funzionato bene, e il teatro lo ha premiato con grandi applausi.
Enrico era Claudio Sgura, sempre bello da vedere, fratello cattivo forse troppo truce, giusto nell’accento ma non nell’emissione. Al San Carlo gli è mancata della sonorità: la voce non aveva la stessa proiezione della Pratt e di Jordi, pur essendo quella più grande in natura. Il signor Dario Russo ha sostituito Giacomo Prestia cantando come oggi cantano i bassi ad ogni livello di carriera, con una voce non certo di quelle importanti.
Insomma, ho visto un tenore ed un soprano VERI nella stessa serata, un miracolo che solo San Gennaro poteva fare!
“E il suo futuro si chiama Semiramide e Lucrezia Borgia se l’evoluzione del mezzo sarà quello che deve essere”. Confesso che leggendo questa frase mi è venuta la pelle d’oca…
Ma torniamo a Lucia. Grazie per la recensione che non solo ha descritto magistralmente quanto visto e ascoltato al San Carlo, ma ha contestualizzato perfettamente protagonisti e spettacolo nel panorama attuale. La direzione di Nello Santi mi è parsa a tratti intrigante, ma, come già detto, “colata a piombo”, troppo pesante e statica, soprattutto nel primo atto, che è stato quello meno incisivo dei tre, e forse proprio per la direzione. Anch’io ho avuto l’impressione che poi l’orchestra (non particolarmente espressiva) non realizzasse perfettamente le intenzioni del direttore. Il pregio di Santi è quello di avere un’idea forte, ovvero quello di radicalizzare la matrice tragica dell’opera. Ma questa estremizzazione, iniziata con l’ouverture resa praticamente una marcia funebre, non può che appiattire altri aspetti essenziali di Lucia, in primis la passionalità, ma anche la sudditanza psicologica e le convenienze sociali, e ancora il tradimento “subito” di Edgardo, il male impersonato da Enrico, e i sogni infranti di una giovane innamorata. Insomma una serie di sfaccettature che non sono sovrapponibili alla mera tragedia, e che non sempre sono stati valorizzati a dovere.
Per quanto riguarda la regia, è apprezzabile la volontà di non stressare i cantanti con inutili pantomime, ma anche in questo caso la prima scena è stata emblematica: il coro dietro Enrico che sembrava l’esercito di terracotta… Forse a rappresentare l’immobilismo che impone l’avversione di un fato irremovibile, ma allora non si capirebbe il ruolo “liberatorio” della pazzia per Lucia…
Per quanto riguarda scenografia e luci, concordo con il giudizio positivo, ma anche in questo caso sono state a volte troppo tetre. Passiamo ai cantanti: non credo che la Pratt abbia cantato la sua migliore Lucia, ma, diamine, questa ragazza è stata capace di un’ottima prova, caratterizzata da emissione e proiezione impeccabili, cura degli accenti, acuti incantevoli e anche una buona interpretazione (anche se mi aspettavo di più nel primo atto, in cui sembrava concentrata più a controllare e ad avere tutto sotto controllo). Sono d’accordissimo poi che l’indecisione tra fine fraseggiatrice e belcantista debba risolversi nella seconda delle due opzioni!!
Anche a me Jordi è piaciuto molto: voce non potente e acuti scolastici, ma pulito, senza manierismi, gradevolissimo e molto musicale. Buono anche Enrico. Insomma, dopo il mesto e inutile scempio vocale della Semiramide, finalmente qualcosa di bello al San Carlo (più che buono anche il “Porgy and Bess”, con pacchetto “all inclusive” cantanti+direttore da New York), che ha onorato degnamente la memoria della prima del 1835.
Anche io ho assistito a questo spettacolo, purtroppo nell’unica recita in cui non c’era la Pratt. Su Jordi sono completamente d’accordo. Lo avevo già ascoltato e mi era piaciuto ma nella Lucia l’ho veramente apprezzato moltissimo: un Edgardo molto introspettivo. Tra lui e Beczala (ascoltato dal vivo) francamente non so chi preferire.
Stendo un velo pietoso sul comportamento della dirigenza del Teatro San Carlo. Nel giro di pochi mesi il nome della protagonista è cambiato numerose volte: inizialmente doveva essere Elena Mosuc, con la Pratt nelle repliche, poi la Pratt è passata al primo cast e nel secondo doveva esserci Cinzia Forte; scomparsa anche questa è stata scritturara all’ultimo minuto una certa Savoia per una recita sola (tra due recite cantate dalla Pratt, che per ovvi motivi non poteva fare tre recite di seguito). Quindi ho acquistato invano il biglietto per sentire la Pratt. Non credo sia questo un comportamento rispettoso del pubblico, dato che si è ripetuto con altre opere in cartellone (es. Semiramide e Masnadieri).
Non ho visto lo spettacolo, e mi vien voglia di dire “purtroppo”, ché la tua recensione me ne ha fatto venire una gran voglia, o Diva Giulia, e per quanto riguarda il cast e per quanto riguarda la “mise en scène”.
Mi fa piacere che Pratt e Jordi, da me entrambi sentiti (poco), altrove, abbiano ripetuto le loro buone prove.
Di Jordi, ascoltato quest’estate in Rigoletto, ho avuto anche io un’impressione forse non esaltante; certo è che il suo canto è molto pulito ed essenziale, così come il modo di stare in scena.
Umanamente poi è squisito, si è fermato a parlare con me e i miei amici al ristorante, ed è ha un modo di fare davvero urbano!
Divina Giulia, vede che alla fin fine ci incontriamo nei gusti, come le proverbiali linee parallele all’infinito? 😀
Della Pratt, ascoltata più volte sin dal suo debutto a Como in LUCIA, posso solo dire che è in continua crescita e maturazione, anche sul lato squisitamente espressivo ed interpretativo e che mi piace ogni giorno di più.
Di Jordi, splendido CHANTEUR DE MEXICO al parigino Chatelet, gagliardo Fernando nella DONA FRANCISQUITA al Liceu e veemente Principe Pio ne LA GENERALA di Vives al madrileno de La Zarzuela (ma capisco che sono opere, come dire, di nicchia 😉 ) sono un fervido ammiratore. Gli ho ascoltato, tra l’altro, un ottimo Alfredo ne LA TRAVIATA ed uno spigliato Nemorino de L’ELISIR nell’ovetense Campoamor. Mi pare proprio che canti “all’antica” laddove, come lei mi insegna, questo è un bel complimento, forse il massimo che si possa oggi fare ad un cantante. La voce è quello che è, ma l’importante è saperla usare, avere coscienza stilistica, sapere colorire e dare un senso alla parola cantata: in poche parole trasmettere emozioni. Il suo Carlo nella recente LINDA barcellonese è stato pure memorabile e, come no, applaudito con entusiasmo.
Confesso pur’io che la sua recensione mi ha fatto venire l’acquolina in bocca … anche per il fritto di pesce e le graffette calde! 😉
Vede caro Vecchio, Jordi è un tenore leggero che non ha il più grande difetto del cantare leggero di oggi: la meccanicità. Mi ha dispensato la noia insopportabile di essere una macchinetta, magari perfetta, ma avara. Al duetto ha detto la frase che ti dà il brivido, perchè è lì che il tenore lo deve fare. Nella maledizione ha provato anche nella pesantezza della scena a trasmettere la disperazione . Alla sfida ha messo tutta la benzina che poteva avere, ed il recitativo della torre lo ha spinto nella sala con la dizione scandita. Al finale non pensavo che senza avere gli acuti grandi e a fuoco potesse toccarmi, ma lo ha fatto lo stesso, a modo suo e nella misura in cui la sua voce glielo consente. Oggi le star stanno posa in scena, si mettono li con grande compiacimento di sè ma……una frase non te la regalano nemmeno a morire. Jordi si mette in posa ma poi arriva….zac! Preferisco questi cantanti alla plastica di lusso……ma resto dell’idea che i cantanti esprimono quello che hanno di reale dentro. Quest’anno ho visto due Lucie con dei veri Edgardo, Mukeria e Jordi: possiamo sperare ancora di poter andare a teatro e trovare degli uomini che cantano perchè hanno qlcsa che viene da dentro da darci.
Ho ascoltato Jordi proprio in Lucia di Lammermoor al teatro Verdi di Padova lo scorso ottobre, e devo dire che il suo terzo atto è stato molto convincente dal punto di vista del canto, dopo essersi forse risparmiato nei primi due. Nonostante la voce sia quella che è, come dice sonvecchiomarobusto, la differenza tra lui e altri tenori sentiti nello stesso (piccolo) teatro mi è saltata alle orecchie chiaramente…
Intervengo nuovamente solo per dirvi che ieri, durante l’ultima rappresentazione della Lucia napoletana, la direzione di Santi ha subito una vigorosa modifica, fornendo un’interpretazione decisamente più vivida, meno lenta e lugubre. Vedendo lo spettacolo dall’alto, si notava quanto il direttore si impegnasse a “tenere a bada” e a indirizzare l’orchestra, che di certo non ha mai brillato per sensibilità e perfezione. Chissà, forse con più recite si sarebbe potuto ottenere qualcos’altro ancora. Comunque i momenti più intensi della serata sono stati il sestetto e le prove dei due protagonisti: tranne le ultimissime battute un po’ dimesse di “Tu che a Dio spiegasti l’ali”, la prova di Jordi è stata davvero notevole e stavolta è riuscito a piazzare anche un paio di inaspettati acuti da brivido, prolungati e corposi, specialmente su “Ah! di Dio la mano irata ti disperda”.
Certo che se si facesse qualche prova in più si potrebbe arrivare allo spettacolo con idee più chiare (parlo del concertatore).
Giustissimo, Duprez! Tra l’altro prima la Grisi parlava di “meccanicità” come infelice tratto distintivo dei cantanti mediocri di oggi, destinati a prepararsi un personaggio laboratorialmente, per poi andare in giro per teatri, magari arrivando all’ultimo momento. Solo grazie a tante prove si può evitare questa meccanicità – da sempre L’ANTITESI DELL’ARTE – e cercare di creare un’alchimia con direttore e altri protagonisti, alchimia che è il vero segreto ineffabile della lirica, che rende ogni rappresentazione un unicum, nel bene e nel male. Non solo, a prove di misera frequenza troppo spesso stanno corrispondendo spettacoli di altrettanto misera frequenza. Molti teatri di provincia, ormai, propongono titoli per non più di tre rappresentazioni!!
Non per parlare sempre della Pratt, ma proprio lei in una recente intervista ha affermato che per la “Sonnambula” di Venezia proverà per quasi due mesi. Che ci sia ancora gente che faccia questo, rincuora… Soprattutto se si pensa che 2 mesi sono esattamente 1 mese, 29 giorni e 23 ore in più di quanto si preparano la Netrebko e Company…
no, per l’esattezza sono 1 mese, 29 giorni, 23 ore, e 45 minuti in più…
ricordiamo i famosi (famigerati?) quarti d’ora di studio di Anna e company…
sì, è vero, anch’io vidi un video in cui lei mostrava le sue prove e potevano tranquillamente essere cronometrate in nanosecondi!! ma lo avevo rimosso, chissà come mai…
P.S. Scusate se insisto, ma la Pratt per i due mesi di prove per “Sonnambula” ha rifiutato un altro ingaggio. Questo per dire che le poche prove non sono sempre dovute a scelte (anche finanziarie) delle direzioni artistiche dei teatri, ma sono anche (e forse per la maggioranza) scelte consapevoli dei singoli cantanti…
figurati che circa dieci anni fa, quando feci la comparsa in Traviata allo Sferisterio di Macerata, di prove ce ne furono anche abbastanza (un mesetto direi)… peccato che iniziammo a provare senza Violetta, impegnata in un’altra produzione…