Die Zauberflöte, K620, venne rappresentato la prima volta il 30 settembre 1791, al Freihaustheater di Vienna. Penultima opera di Mozart, essa appartiene al genere del singspiel (che prevede l’utilizzo della lingua tedesca e l’alternanza di dialoghi recitati e numeri musicali), ma non è per nulla assimilabile al precedente Entführung aus dem Serail, per gli intenti, per i contenuti musicali e per il pubblico a cui venne destinata. Non è certo il caso, tuttavia, di dilungarsi nell’analisi della genesi dell’opera: è argomento assai noto e di complessità tale da meritare spazi maggiori e dedicati. Allo stesso modo non voglio soffermarmi, se non per brevi cenni, sulla performance di ciascuno degli interpreti dell’edizione discografica recensita – non essendo né migliori né peggiori dei tanti che compaiono della corposa discografia del titolo – preferisco, piuttosto, soffermarmi sulla lettura del direttore belga che si avvale, per questa incisione della Akademie für Alte Musik di Berlino (compagine abbastanza solida e dal suono molto curato) e del Rias Kammerchor. Del cast, preso nel suo complesso, si può lodare l’affiatamento e l’armonia, ma certamente non vi sono grosse novità interpretative, né si assiste a performance tali da risultare rivoluzionarie (anzi, come al solito Jacobs fatica a scegliere cast in grado di realizzare pienamente i suoi intenti). Un cast con alti e bassi, quindi, come, del resto, nella maggior parte delle incisioni dello Zauberflöte: a fronte di un Tamino dalla voce abbastanza calda e corposa (Daniel Behle) che si tiene ben lontano da certi esangui cliché da tenore mozartiano old style, e da una Pamina (Marlis Peterson) che evita ogni bamboleggiamento e ogni atteggiamento querulo e dimesso, si ha un Sarastro (Marcos Fink) poco autorevole (aldilà della voce chiara, che è invece una precisa scelta interpretativa e, nei presupposti, condivisibile) e una Regina della Notte (Anna-Kristiina Kaappola) che sembra rinverdire la tradizione ancien régime degli “usignoli” leggeri e svolazzanti in zona sovracuta, ma privi di corpo e autorevolezza; a fronte di un Papageno (Daniel Schmutzhard) spigliato, giovanile e divertente, senza scadere nel buffonesco, e ad un Monostatos (Kurt Azesberger) che per una volta canta senza lasciarsi andare alla farsaccia, si ha una Papagena (la terribile Sunhae Im, autentico e incomprensibile feticcio di Jacobs, che dal vivo ha ricoperto addirittura il ruolo di Pamina) tollerabile solo in virtù dell’esiguità della parte, ma comunque anonima e sgraziata, uno Sprecher (Konstantin Wolff) inconsitente, che vanifica ogni effetto nel possente recitativo con Tamino, e i Due Uomini Armati (lo stesso Konstantin Wolff e Magnus Staveland) in difficoltà di tenuta vocale nel sublime corale nell’atto II; buone le Tre Dame (Inga Kalna, Anna Grevelius, Isabelle Druet), al solito stonacchianti i Tre Geni (Alois Mühlbacher, Christoph Schlögl, Philipp Pötzlberger: fanciulli solisti del Sankt-Florianer Sängerknaben). Ma, ripeto, poco importa il cast vocale, che nel complesso offre una prova più che discreta: questo è lo Zauberflöte di René Jacobs e come tale va recensito. La maggior parte delle esecuzioni dell’opera mozartiana – salvo poche eccezioni – possono essere ricondotte a due differenti filoni interpretativi. Quello che vede nello Zauberflöte un’opera quasi seria, iniziatica, caricata di simbolismo massonico, significati etici, valori trascendenti: tradotti musicalmente in una certa monumentalità d’impianto e da un passo lento, sontuoso, ieratico (spesso serioso), quasi compiaciuto della sua staticità metafisica; lettura spesso affascinante, in virtù di voci storiche, interpreti eccezionali e direttori particolarmente ispirati – a partire da Furtwangler e Klemperer – ma che talvolta rivela eccessiva pesantezza, e si riduce a mera ipertrofia sonora nel tentativo di ripercorrere una strada ormai inattuale e irrimediabilmente datata. Ovvero quello che riduce il lavoro a mera “opera comica”, a favola per bambini, innocua e superficiale, privandolo di qualsiasi significato che non sia quello di svago popolare e ridotto, spesso, a farsa. Ciò si traduce musicalmente in un carillon, più o meno elegante, di figurine stilizzate in un rococò da sala da tè, con ritmi sostenuti (ma spesso meccanici) ed una leggerezza che si tiene ben lontana da ogni possibile approfondimento (capotispite di tale approccio va individuato nel solito Beecham, ma si ritrova, pur in un accentuata vena vitalistica e dionisiaca, e in una superiore concezione estetica, nelle travolgenti letture di Solti). Alla medesima lettura si ispirano le esecuzioni cosiddette autentiche, esasperando, talvolta, la meccanicità dell’aspetto musicale e il vuoto spinto dei contenuti (penso a Ostman, Norrington o Gardiner, nella sua peggior incursione mozartiana). Jacobs vorrebbe proporre una terza via: non inedita, ma comunque assai poco frequentata. Partendo cioè dall’analisi di quel particolarissimo genere di singspiel che è lo Zauberflöte. L’opera di Mozart, infatti, non nasce all’improvviso nella Vienna del tardo ‘700, essa si inserisce, invece, in un genere che allora andava di gran moda: genere di cui la compagnia di Schikaneder (librettista e istrione del gruppo) era esponente di spicco. Il singspiel “magico”, ricco di influenze orientali, esotismo, presenza del sovrannaturale, si differenzia dalla più tradizionale opera popolare tedesca, proprio per i significati sottesi e l’alveo culturale ove si era sviluppato (ossia quella borghesia produttiva e intellettuale che si stava affacciando allora nel teatro della storia: laica, massonica e illuminista). Precedenti immediati furono Der Stein der Weisen, oder Die Zauberinsel (opera collettiva, a cui contribuì lo stesso Mozart, oltre a Schikaneder, Gerl, Schack, Henneberg: è disponibile una pregevolissima edizione di questo straordinario lavoro) e l’Oberon, König der Elfen di Paul Wranitzky (entrambi allestiti dalla compagnia di Schikaneder), lontani sia dall’opera drammatica così come dall’opera comica. Lo Zauberflöte si inserisce in questo particolare genere di singspiel (diversissimo dall’Entführung, che invece nasceva in ambito aristocratico e restava saldamente ancorato al mondo reale e a situazioni ora comiche ora edificanti). Tale appartenenza identifica anche lo stile della scrittura mozartiana: diversissima qui rispetto alle commedie dapontiane, alle opere serie e ai singspiele tradizionali. Jacobs evita, dunque, di caricare il lavoro di simboli e suggestioni filosofiche o metafisiche, ma neppure riduce l’opera a innocua favoletta infantile. Ne fa una vera zauberoper (uno dei punti di partenza del teatro romantico tedesco e che lo condizionerà almeno sino alle Fate wagneriane: fondamentale, sul punto, la lettura di “Ondine, vampiri e cavalieri: l’opera romantica tedesca” di Elisabetta Fava, EDT), avvolgendola di atmosfera misteriosa, ma non ancora romantica (resta sempre un esercizio della ragione) in cui la natura e le sue forze vengono governate da un finalismo razionale, non semplice caos, né quell’orrore sovrannaturale e gotico che irromperà con il romanticismo tedesco (si pensi a Weber: l’Oberon o la Gola del Lupo nel Freischütz ove la natura è trasfigurata in un irrazionalismo demoniaco). In questo senso Jacobs convince e appare molto più a suo agio rispetto all’opera italiana. Come al solito le note introduttive che accompagnano la realizzazione discografica, sono ricche e interessanti, anche se, una volta messe in pratica, le intenzioni non convincono appieno. Gli aspetti principali della lettura di Jacobs, attengono alla scelta testuale, all’inserimento di effetti sonori, di musica estranea all’opera, di variazioni e di cadenze, e alla scelta dei tempi. Il direttore belga, che utilizza l’edizione critica a cura di Gernot Gruber e Alfred Orel (edita da Bärenreiter nel 1970 e più volte aggiornata), ma rivista sull’autografo mozartiano, offre l’opera nella sua interezza (come è doveroso e scontato), con due sole eccezioni: il Nr. 2 della partitura, l’aria di Papageno “Der Vogelfänger bin ich ja”, è presentato senza la terza strofa (in effetti essa non compare nel manoscritto e neppure nel libretto originale, ma comincia ad essere inclusa nelle successive edizioni a stampa, solo a partire dal 1795); nel Nr. 5, viene reintrodotta la cadenza che chiude il terzetto delle Tre Dame. Se la prima scelta appare giustificata e opportuna, l’inserimento della cadenza suscita qualche dubbio: in realtà Mozart la cancella espressamente nel manoscritto per motivi ignoti (forse a causa della scarsezza dei primi interpreti, ma molto più probabilmente per motivi di natura estetica: ed in effetti appare fuori luogo e “vecchia” rispetto alla scrittura dell’opera) ed è lasciata a livello di abbozzo, alcuni la ritengono spuria (tra di essi uno dei curatori dell’edizione critica) e comunque necessita di interventi cospicui per poterla inserire nel luogo originario. Scelta dunque arbitraria – aldilà della buona riuscita dell’esecuzione (ma l’opera non è e non deve essere solo un esercizio di mero piacere d’ascolto) – anche se condivisa, ultimamente, dalla stragrande maggioranza degli esecutori.
Jacobs, poi, opta per l’inclusione dei dialoghi in forma integrale, e, a leggere le note introduttive, pone molta cura alla loro realizzazione. Effettivamente, nonostante la lunghezza (e nonostante la scarsa fruibilità in un ascoltatore che non padroneggi la lingua di Goethe), essi vengono resi con autentico spirito teatrale, in modo dinamico, evitando l’effetto di “lettura del copione”: vengono inseriti rumori “ambientali”, effetti, riverberi, come in quei drammi radiofonici di qualche tempo fa. Certo Jacobs ci ha preso gusto e ha letteralmente infarcito la registrazione di effetti non sempre piacevoli anche perchè spesso interferiscono nei brani propriamente musicali: il rumore del vento, il continuo gocciolio che si ode durante le prove che deve superare Tamino, porte che sbattono, fragori di terremoto, echi lontani, il cigolio di una “macchina volante” in uso ai Tre Geni, il canto degli uccelli ogni volta che compare Papageno. A questo si aggiunge l’inserimento arbitrario di musica estranea durante i dialoghi, affidata alle improvvisazioni del fortepiano (presenza troppo ingombrante anche durante i numeri musicali – addirittura a raddoppiare gli archi, anche quando non vi è alcuna linea di basso: un arbitrio bello e buono, e pure poco riuscito) su temi dell’opera o di altri lavori mozartiani. Il ragionamento di Jacobs è curioso: dal momento che non viene “bandito” espressamente, allora, secondo il direttore belga, il fortepiano può benissimo comparire durante i dialoghi (del resto, afferma il buon René, il compositore o il direttore d’orchestra seguivano l’opera “al cembalo”: possibilissimi, dunque, frequenti interventi improvvisati). A questa stregua pure i violini non sono espressamente banditi, o i corni o, perchè no, la chittara elettrica! Altro arbitrio è l’utilizzo dello sprechgesang (sì, quello di Berg e Schönberg!) da parte delle Tre Dame nei dialoghi: la giustificazione è quella di sottolinearne la natura aliena. L’effetto – filologicamente inaccettabile – è pure di dubbio gusto ed estremamente sgradevole. Altro aspetto discutibile è l’utilizzo eccessivo di variazioni. Gernot Gruber, nell’introduzione all’edizione critica, sottolinea giustamente come abbellimenti e ornamentazioni vocali siano più adatti all’opera di tradizione italiana, all’opera di corte, non certo al nuovo contesto in cui si muove la scrittura mozartiana, soprattutto in un genere come il singspiel; aggiunge, poi, che l’inserimento di cadenze e variazioni non sia del tutto improbabile solo per la Regina della Notte e le Tre Dame, anche se minerebbe ugualmente l’equilibrio e il bilanciamento del piano stilistico dell’opera; infine lo stesso uso dell’appoggiatura richiederebbe prudenza: limitandolo ai recitativi e alle sezioni declamate dei numeri musicali. Vi è poi il discorso generale per cui l’abbellimento vocale, nelle opere di Mozart, sarebbe da trattare con parsimonia: l’ornamentazione mozartiana non è mai il mero esibizionismo di certa opera italiana, non è l’inutile sfoggio di agilità (spesso lasciato all’improvvisazione – o al cattivo gusto – di dive capricciose) che infarcisce l’opera post barocca. Mozart fa un uso drammatico dell’ornamentazione, a cui affida precisi intenti espressivi e che è costruita in modo da intrecciarsi alla scrittura orchestrale senza creare alcun senso di fermata: prova di ciò è il fatto che anche nelle opere serie, Mozart scrive per esteso le cadenze ed evita con cura il meccanico da capo, lasciando, così, pochi spazi per rielaborazioni personali(sull’argomento, è molto interessante la lettura del volume “Interpretare Mozart”, edito da Lim, che raccoglie contributi su vari argomenti, tra cui spicca il problema dell’ornamentazione). Certo Jacobs ha sempre dimostrato di non curarsi affatto di questo aspetto, o comunque di procedere secondo sue personali convinzioni (ha persino inserito ornamentazioni nell’Orfeo ed Euridice di Gluck, contravvenendo così alle ragioni prime che spinsero il compositore ad elaborare quella riforma di cui l’opera doveva essere esemplificazione), e anche qui non fa eccezione: ecco dunque che ogni segno di corona è dilatato in brutte cadenze, ogni ripetizione subisce sgradevoli variazioni (già, perchè poi non sono neppure belle le variazioni e le cadenze che predispone Jacobs). Due esempi di particolare cattivo gusto sono da individuare nella chiusa della seconda aria della Regina della Notte (dove in luogo del FA di “hört! der Mutter Schwur”, si ascolta una arbitraria variante acuta che non si sposa con l’armonia del pezzo e che assomiglia tanto ad uno strillo); e nel Finale I, quando Pamina e Papageno riescono a sfuggire a Monostatos utilizzando il glockenspiel (Jacobs riscrive la parte dello “stromento d’acciaio” in modo da renderla farraginosa e aritmica, e fa cantare Monostatos in falsetto, in un profluvio di variazioni).
Infine un cenno ai tempi seguiti: il direttore belga questa volta non pigia il piede sull’acceleratore – come certi suoi colleghi – e utilizza una dinamica abbastanza varia e movimentata, tuttavia in alcuni luoghi compie scelte che appaiono discutibili. Innanzitutto il dialogo tra Tamino e lo Sprecher, fulcro morale dell’opera, è affrontato troppo velocemente, in modo quasi affrettato, e scivola via senza lasciare nessun pathos, nessuna emozione: non dico di trasformarlo in una specie di salmodia alla Klemperer, ma neppure così, “tirato via” come un dialogo da opera buffa! Poi il corale dei Due Uomini Armati: squadrato e rigido, secco e meccanico. Sarà pure una citazione del contrappunto e dei corali luterani, ma non per questo deve essere scandito senza nessun coinvolgimento. Ma vi sono altri punti che varrebbe la pena analizzare dal punto di vista ritmico: in generale Jacobs ritiene che l’utilizzo di tempi più lenti (avvenuto subito dopo la morte del compositore, e non in epoca romantica) sarebbe dovuta al fraintendimento delle indicazioni di Mozart, e perchè taluni principi della musica barocca (entro cui Jacobs iscrive forzatamente lo stesso Mozart) sarebbero stati dimenticati o ignorati. Concetto su cui vi sarebbe molto da ridire. In sostanza ritiene che laddove Mozart scrive Andante Moderato – il Nr. 19 della partitura, ad esempio – egli intendesse in realtà un Andante Moderato alla breve: io credo che Mozart sapesse quel che scriveva, e comunque non vedo perchè trasformarlo addirittura in un Allegretto. Ma è discorso lungo e complicato. Tirando le somme che si può dire? Sicuramente questo Zauberflöte è la realizzazione più riuscita del ciclo mozartiano di Jacobs, non tanto per il cast (che, ripeto, non è migliore né peggiore di tanti altri), quanto per l’interpretazione musicale. Certo vi sono pregi e difetti: e credo di averli esposti con onestà. A cominciare dai soliti arbitri, che non sarebbero gravi in quanto tali, ma perchè presentati come unica soluzione corretta (è il vizio, questo, più contestabile di taluni specialisti del barocco: credere di essere depositari della vera verità esecutiva): di questi credo che l’invadenza del fortepiano e l’eccesso di ornamentazione siano i più fastidiosi. Non si cerchi, dunque, la singola prestazione vocale, giacchè vi sono tante altre incisioni che possono vantare, in ogni singolo ruolo, diverse punte d’eccellenza, e non si dimentichi che, forse, non era neppure ambizione del direttore belga, fornire un’esecuzione vocale di riferimento (e del resto, visti i precedenti, assai più scombinati da questo punto di vista, non si poteva neppure pretendere). Lo stesso titolo, peraltro, non richiede particolari capacità tecniche (non sono tuttavia ruoli semplici, soprattutto sotto il profilo espressivo). Va però dato merito a Jacobs di non aver seguito la scia di altri colleghi di fede “baroccara” (Gardiner, Norrington, Ostman e pure Christie, almeno in parte) trasformando Die Zauberflöte in un meccanismo ad orologeria, asettico e inaridito, ma di averlo inserito in un contesto coerente e plausibile, vivo e credibile. E soprattutto di non averne spento la verità teatrale, attraverso inattuali sacralizzazioni (non è un oratorio) o fastidiose semplificazioni (non è una favoletta per bambini): l’incisione dura 2 ore e 47 minuti, durante i quali non ci si annoia mai. E questo è il miglior complimento che si potrebbe fare.