Già a leggere la locandina le perplessità sulla pertinenza di un cast semplicemente sciagurato erano più che evidenti!
Nulla di nuovo a Bayreuth, come sempre. Saranno contente le due pestifere sorelline.
Andris Nelsons giovane direttore già presente su ribalte importantissime come New York, Vienna e Londra di fede pucciniana, ma che non disdegna il repertorio francese e russo, esordisce a Bayreuth accompagnato da grandi speranze: evidentemente pensava di dirigere un ibrido tra “Moses und Aron” e “Götterdämmerung” riarrangiati da una banda tradizionale bavarese.
Parte bene il preludio di trasparente purezza, ma sono pochi attimi: già dopo poche battute iniziano le stonature vetrose degli archi (pazzesco a Bayreuth!), la coesione degli strumenti si sfilaccia suonando ognuno un’opera diversa, il tempo stesso scelto si trasforma da un Adagio, ad una marmellata annacquata. I fortissimi in orchestra si trasformano in rumori tellurici provocando vistosi sbandamenti di intonazione nei fiati.
Quando si apre il sipario la marcia degli alpini accompagna i proclami dell’Araldo e l’ingresso di Re Enrico l’Uccellatore, per poi attenuarsi in un piano funestato dalle mazzate degli archi e delle percussioni che si ripeteranno sempre più grevi lungo tutto il monologo del sovrano, gli interventi del coro, ed il canto di Telramund.
L’arrivo di Elsa è decisamente troppo fiacco e grigio per evocare qualcosa, peggiorato dalle sciabolate fisse degli archi e dei flauti per non parlare dell’arrivo di Lohengrin in cui il coro compie autentici prodigi per sovrastare i fortissimi dell’orchestra e riuscire a mantenere l’intonazione di fronte a tempi tanto marziali e sbrigativi (grandissimo il coro e un gigante il Maestro Eberhard Friedrich); lo scontro tra Lohengrin e Telramund e tutto il finale d’atto sembra il rumore della battaglia tra i brabantini e gli ungari.
La direzione va avanti così tra stonature, marce, grigiori e secchezze, roboanti clamori e piani inudibili, improvvise lentezze e inconcludenti velocità, dando l’impressione di un’entità destrutturata e slegata dal contesto canoro. Al limite del comico il finale del terzo atto a metà tra un cannoneggiamento ed il crollo del Walhalla.
Jonas Kaufmann da quando saluta il “cigno gentil” a quando lo ritrasforma nel piccolo Gottfried al III atto non fa altro che sbadigliare tutte le note.
Ora, i suoi fan potranno anche andare in estasi mistica tutte le volte che il bel Jonas apre la bocca trovando di volta in volta inedite “nuances”, inaudite “mezze voci paradisiache”, coloratissimi contorcimenti emotivi, visioni cosmiche di pianeti, nebulose, supernove e profezie che a confronto Nostradamus era un semplice conduttore della Meteo; resta il fatto che Kaufmann è e rimane un tenore corretto quando la linea di canto resta confinata al registro centrale e grave, comunque emessa beatamente di gola e poggiata sulle corde vocali, dal timbro sicuramente baritonale, ma querulo, anziano e sforzatissimo ogni qual volta le note toccano il Sol, privo dunque di autentico squillo e con gli acuti schiacciati per giunta.
Se, ripeto, gli sbadigli ed i falsettini che generosamente elargisce, i chiaroscuri all’interno di una sfumatura, le sfumature all’interno di un’inflessione, possono essere spacciati per fraseggio, allora dovremmo chiamare “spontaneo” il manierismo insistito e cerebrale di Elizabeth Schwarzkopf e di Dietrich Fischer-Dieskau o ancora l’abuso di piani e pianissimi (veri, timbrati, cristallini questa volta) di una Montserrat Caballè applicando ad essi le stesse capziose esaltazioni destinate a Kaufmann!
Il quale è talmente manierato da sfiorare il lezioso, è talmente monotono e prevedibile (sia qui, sia nel “Don Carlo”, nel “Werther”, nella “Carmen”, nella “Tosca”, nella “Clemenza di Tito”) da risultare ripetitivo, ed alla lunga la resa del personaggio ammorba.
Superato il saluto al cigno, Kaufmann chiede ad Elsa di non domandare mai il suo nome, e lo canta trasformandosi in un anziano baritono alle prese con Schubert o Schumann accompagnando l’emissione con falsetti che sarebbero impropri anche in bocca alla Dasch; manca solo un pianoforte.
Rozze l’emissione e la pronuncia quando annuncia di voler combattere per Elsa; nel quintetto ognuno canta un’opera diversa facendo a gara di stonature, competizione vinta a man bassa dalla Herlitzius; nel II atto i rimproveri ad Ortrud prima e Telramund poi sono accentati con una mestizia degna di un maestro d’asilo che rimprovera due monelli con il ditino puntato, il tutto senza carisma, senza eroismo, senza orgoglio oltre che cantati con una voce che galleggia nella gola riempiendosi d’aria, alternando poi suoni biascicati e falsetti nel finale d’atto, terminato con un faticosissimo e incongruo rallentando spinto fino alla stasi.
Nel duetto del III atto, praticamente quasi sovrapponibile a quello di Monaco, è encomiabile lo sforzo di seguire la partitura e le esigenze espressive di Wagner, quindi per la prima volta in tre atti i piani, l’assottigliamento del suono o il suo rinforzo, i chiaroscuri nel cantabile hanno una loro coerenza e finalmente aiutano il registro centrale ad abbandonarsi ad inflessioni spontanee e seducenti.
Almeno fino a metà, perché non appena le richieste di Elsa diventano più pressanti ecco che il vecchio baritono liederista trasforma il duetto d’amore in un ben poco sensuale dialogo tra nonno burbero e calante e nipotina capricciosa, complice l’imbambolata Dasch.
Nella scena finale Kaufmann accenna un minimo di emotività scagliandosi contro l’operato di Telramund, negato immediatamente dai soliti suoni sbiancati che conducono inesorabilmente al racconto del Graal ed alla rivelazione del nome; l’attacco a mezza voce è un campionario di sbadigli emessi sotto sforzo, gutturale e intubato il crescendo seguente, manieratissimo il fraseggio fino al fastidio, quando canta a piena voce e le note toccano il Fa, il Sol, il La il suono è schiacciato, il finale sbrigativo, calante ed in gola. No, nessuna estasi, nessun coinvolgimento, quelli dimorano altrove (Franz Völker, Sándor Kónya), qui solo noia.
Si prova ad aprire, ma solo in forma di abbozzo, il taglio prescritto da Wagner dopo le parole di Elsa “Mir schwankt der Boden! Welche Nacht! O Luft! Luft der Unglücksel’gen!” interessantissimo dal punto di vista filologico: un’aggiunta inutile in queste condizioni. Se si deve aprire lo si faccia integralmente. E siamo a Bayreuth!
Lagnoso, sbadigliante, in falsetto il secondo saluto al cigno mentre a parte qualche colpo di glottide, l’addio ad Elsa con la consegna degli oggetti incantati, tutto basato su un cantabile dolce e sfumato, è sicuramente assieme alla metà del duetto la parte migliore e per la prima volta l’acuto squilla libero dalle durezze e l’espressione è spontanea e dalla giusta drammaticità: magari avesse cantato tutto così invece di trasformarsi nell’esilarante imitazione che Fiorello fece parodiando il Quasimodo di Cocciante!
Kaufmann, insomma, qualunque cosa canti interpreta la versione sonnambula di Pelléas e c’è anche chi recentemente lo ha paragonato, tra gli altri, a Sándor Kónya: ma per favore!
Annette Dasch, starlettina baroccar-mozartiana (micidiale il suo CD dedicato al personaggio di Armida), esordisce a Bayreuth nel ruolo di Elsa, con una vocina che con Wagner non avrebbe nulla da spartire a meno che non voglia cimentarsi in Freia o una Fanciulla Fiore.
La prima aria fa percepire una vocina sicuramente giovane, ma bianchiccia nel colore, appoggiata perfettamente alla gola, dal retrogusto acidulo, fissa in tutti gli attacchi e nemmeno tanto estesa in acuto, dimostrando in ogni momento quanto la tessitura le stia larga, mentre l’accento ritrae la solita bambolina bionda plastificata, che alterna inflessioni bambinesche e vezzosette a diffuso disinteresse espressivo. Non c’è mistero, non c’è ansia, non c’è dolcezza, non c’è la visionarietà onirica, non c’è un uso soave del legato e nemmeno l’isterismo nella voce della Dasch, la cui fragilità vocale la fa vibrare già sul passaggio fino a irrigidirsi e renderla stridula e stonata sui La e Si acuti.
Nulla turba il suo canto trasformandola in breve nella versione lagnosa di Papagena, Zerlina, Despina, Barbarina, Serpina come dimostra l’accento dimesso e la prudenza dell’emissione nei due duetti con Ortrud, in cui è evidente la presenza di un eccesso di vibrato, di secchezza timbrica e di un non perfetto uso del fiato. Inadeguata.
Discorso a parte merita la Herlitzius, approdata a Bayreuth nel 2002.
Esordì sulla Verde Collina col botto il soprano, interpretando Brünnhilde nel “Ring del Millennio” sotto la bacchetta di Adam Fischer e la regia di Jürgen Flimm. Allora non sembrò una scelta ideale per un ruolo tanto oneroso, eppure fu confermata per i due anni successivi. Nel 2003 però la sua interpretazione della figlia di Wotan mi colpì positivamente, non tanto sul piano vocale (timbro chiaro, abrasivo, spigoloso e con problemi di intonazione), ma più sul piano espressivo. Nulla di trascendentale, ma l’impeto giovanile, il carisma dell’interprete, la femminilità lacerata erano del massimo interesse, confermati successivamente nel “Wozzeck” e nella “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” scaligeri, nella Sieglinde di Budapest, nella “Die Frau ohne Schatten” di Bruxelles in cui si impose nonostante l’emissione discutibile e nel “Parsifal” di S. Cecilia in cui fu una Kundry indimenticabile grazie alle cure di Gatti. Le prove più recenti hanno purtroppo capovolto il giudizio: la “Walküre” estremamente generica a Barcellona, la Kundry scialba a Bayreuth, un comico e grottesco “Oberto” in DVD, una Isotta nevrastenica e l’ “Elektra” di Bruxelles, buona sul piano espressivo, semidisastrosa su quello vocale, hanno sottolineato più le crepe dell’organo che la solidità dell’artista.
E veniamo a questo “Lohengrin” in cui la scelta di Evelyn Herlitzius nel ruolo di Ortrud è semplicemente un abominio!
La linea di canto è praticamente decomposta, il timbro, già chiaro e aspro, frammenta la voce in migliaia di suoni impossibili a legarsi tra di loro, come dimostrano il ruvido, acciottolato, completamente traballante registro centrale, il registro acuto fisso, stonato, frantumato dai centri e le note gravi parlate o gutturali.
Il fraseggio? L’accento? L’interpretazione? Due anziane portinaie con il vizio del brindisi che spettegolano sui condomini e si scambiano ricette il duetto tra i coniugi Telramund; la parodia della strega Crimilde contro la parodia di Biancaneve nei duetti con Elsa; l’invocazione agli dei ed il finale sono momenti che sfiorano la blasfemia. In sintesi, la Herlitzius ci fa ascoltare le urla di una donna sotto i disumani ferri dell’Inquisizione.
Suo degno partner Hans-Joachim Ketelsen che ha sostituito di corsa il baritono Lucio Gallo previsto inizialmente come Telramund. Sarebbe stato il primo italiano a cantare a Bayreuth (eccezion fatta per Giuseppe Kaschmann), ma una improvvisa indisposizione ha fatto correre ai ripari ed alla scelta di Ketelsen, vecchia conoscenza della verde collina; ed è presto detto: un baritono chiaro in puro stile Koch, Guelfi o Vratogna con il timbro che ricorda una anziana signora. Fissità, stonature, fraseggio pedestre, ricorso al parlato, rozzezza del fraseggio, genericità, insomma la lista degli inutili Telramund urlati si allunga.
Molto buono il giudizio sul Re Enrico di Georg Zeppenfeld e sull’Araldo di Samuel Youn.
Il primo parte decisamente ingolato, ma riscaldandosi la voce si stabilizza, l’emissione diventa più armonica permettendogli una timbratura omogenea dello strumento, un registro centro-grave solido e potente, nonostante permanga una certa velatura del suono e acuti facili e penetranti, tanto da far pensare più ad un basso-baritono che ad un basso profondo. L’accento ricorda più il Gurnemanz del “Parsifal” (di cui fu grande interprete a S. Cecilia) per le inflessioni intime, meditative, ma al contempo volitive che si impongono sugli altri; dunque un pregio che rende più ricco il personaggio.
Il secondo ha sicuramente una voce dal volume potente ed una bella proiezione, magari un po’ traballante al primo atto, ma come nel caso di Zeppenfeld diventa più sicura e timbrata oltre che un accento ed un registro acuto solidi e giustamente ieratici.
Ho letto molto sull’allestimento di Neuenfels: sinceramente non mi interessa e parlandone gli daremmo una importanza che non merita assolutamente. Dico solo che ho ripensato alle sagge parole di Nike Wagner quando esortava lo Stato a tagliare gli investimenti destinati a Bayreuth.
Ecco una recensione CRITICA, capace di mettere in vera crisi la situazione tragica sulla Verde Collina scoperta e truccata dal consenso organizato del marketing operistico! Ecco una vera Invocazione eseguita da un autentico contralto wagneriano con acuti taglienti e un pathos da distruggere a fondo la falsa Walhalla dei pseudo-star e dei pseudo-melomani!
E concordo pienamente sulla domanda della Nike Wagner (donna intelligente e unica persona nella famiglia Wagner che merita oggi la direzione del festival!) di tagliare il finanziamento statuale del festival! Se Bayreuth deve continuare cosi, e' meglio che Bayreuth sia mutilato!
Grazie, Mariandl!
resta il fatto che Kaufmann è e rimane un tenore corretto quando la linea di canto resta confinata al registro centrale e grave, comunque emessa beatamente di gola e poggiata sulle corde vocali, dal timbro sicuramente baritonale
====================================
Non si può dire che Kaufmann è un tenore corretto, proprio perchè la sua emissione è già scoretta nel centro. Il suo centro è ingolfatissimo e tubatissimo. Kaufmann non ha per niente un timbro baritonale, il suo vero timbro naturale è chiarissimo, basta ascoltare quel che resta in giro di quando esordì. Kaufmann ottiene quel colore "baritonale" proprio tubando, facendo quello che in francese si dice surcouvrir cioè affonda forzatamente la larige per ottenere quel "vocione scuro" che fa tanto virile e che manda in visiblio le sue fans. Lo faceva già Giacomini e un pochettino anche Del Monaco.
A proposito del Bayreuth caduto: il 21 agosto è morto Christoph Schlingensief, il regista "scandaloso" della penultima produzione di Parsifal a Bayreuth (con Boulez, Herlitzius e compagnia).