Certo, le acrobazie acutissime prescritte a Lisinga, soprano protagonista, possono evocare quelle che la scatenata fantasia del salisburghese produsse per la Lange o la De Amicis o la Bernasconi, ma dobbiamo ricordare, per forza di cose ed onestà storica, come molti dei soprani della generazione prima di Rossini, la Gafforini o la Catalani, fossero soliti cimentarsi addirittura nel canto in falsetto pur di toccare vette acutissime in scritture zeppe di mirabolanti acrobazie ( Lucrezia Aguiari, detta la Bastardella toccava addirittura il do 6 !!!) . Anche le scritture mostruose di Jommelli o di Salieri, monumentali per ampiezza e sviluppo, fecero parte del backgruond sopranile del giovane Rossini, non soltanto Mozart.
Lisinga dunque, non esula da queste ascendenze, e la scrittura delle sue arie, l’ultima in particolare, richiede e rimanda ad un canto strumentale, fatto di perfezione esecutiva e sonora, di slancio e mordente, insomma tutto quello che manca alla povera Maria Josè Moreno, nuovamente a Pesaro dopo la brutta Adele dell’Ory dell’anno passato. Vocina acida e vetrosa, ora strillata ora squittita, incapace di rendere la meraviglia delle acrobazie, il piglio e l’incisività, perlomeno vocale, del personaggio. I problemi arrivano da subito, sul “ Deh fate, amici, Dei ” di ingresso, in zona re-fa, dove la voce non gira come dovrebbe, e già su un sol 4 “ ..già m’appresso” la voce risulta forzata e tirata. Immaginate voi cosa è poi venuto salendo al do-re 5, nonostante abbia cercato più volte di attaccare le note piano per controllare il suono. Alla seconda aria, poi, nonostante le interpolazioni e gli inserimenti alla scrittura, le cose non sono andate meglio, perché duine “ Soffrendo o Dio nel cuor” e quartine ” ..a felicità..” sono state eseguite “sfarfalleggiate” ed imprecise. E taccio dell’esecuzione della stretta, per non infierire. La signora Moreno si è poi trovata di nuovo in difficoltà al finale primo, “ Mi scende nell’alma”, che batte il passaggio superiore, dove il legato è parso sempre inficiato da un suono vetroso ed acido, come pure il canto del quartetto ( bellissimo musicalmente ) del II atto. La sua prova si è conclusa con la grande e difficile scena finale, dove è colata a picco sin dal recitativo, eseguito pigolando malamente le frasi “ Io più sposo non ho” nonchè quelle successive con Polibio, perché private del necessario accento, quindi “sgallinacciando” le terribili frasi “Superbo, ah tu vedrai” come tutta la stretta, comprese le puntate in alto frammiste alle mal eseguite quartine. Insomma, laddove il giovane Gioachino aveva voluto cimentarsi con uno dei topoi del suo tempo ( chiarissima l’imitazione dello stile di Cimarosa degli Orazi e Curiazi dell’introduzione con coro della sortita ), il festival si è ben guardato dall’andare a cercare un soprano alla Devia, tanto per intenderci, riproponendo una cantante inadatta sotto ogni punto di vista a dar vita alla parte vocalmente più difficile dell’opera.
Al signor Shi è toccato il ruolo di Eumene, di scrittura centralizzante e coloratura lata, ma di accento inequivocabilmente nobile ed eroico. Anche la sua vocalità incarna un topos dell’epoca, quello del Marco Orazio sempre degli Orazi cimarosiani, dei ruoli scritti per David padre da Paisiello e Mayr, tanto per restare in terra italica, oppure di Idomeneo, Mitridate, Lucio Silla e Tito, volendo trovare ascendenti mozartiani più noti. Vocalità peraltro destinate a perdurare con Nozzari prima e Donzelli poi.
Detto ciò, che il signor Shi si sia sforzato di accentare il ruolo di Eumene come andrebbe accentato lo si può anche ammettere. Che ci sia riuscito davvero è ben altra cosa. La sua dizione è chiarissima, gli ba riconosciuto, ma lì il tenore cinese si ferma, un po’ perché prigioniero dell’idea che il tenore di Rossini coincida con J.D.Florez, ossia che accenti come un contraltino da mezzo carattere, un po’ per meri limiti tecnici. L’accento smammolato ed enucoide della scena finale è suonato,al contrario, indeguato sia per il senso drammaturgico della scena che per il modo in cui è stata eseguita, e forse la bacchetta avrebbe dovuto correggere il tiro al tenore. Nel resto della serata ha cantato con una certa precisione la scrittura di Rossini, ma è sempre risultato piatto e monotono, perché la voce troppo spesso suona nel naso, chioccia e di emissione sgradevole, poco ampia rispetto a quanto esige la parte, falsettata nei piani. Insomma, un epigono deteriore di JDF, per giunta fuori parte, e che quando sale deve spingere gli acuti senza produrre suoni squillanti e brillanti.
Siveno era l’ex accademica Zaytseva parto purissimo della neotradizione dei cantanti del ROF di “terza generazione”. Imitazione smaccata di Daniela Barcellona, ne copia pedissequamente tutti i difetti ma non ne ha i pregi, ossia l’ampiezza del mezzo. Il giovane mezzo canta con voce ingolata, già tirata sul re 4, agilità sfarfalleggiate, imprecise e senza incisività, per tutte le quartine alla chiusa della sortita “..il cor brillar mi sento…”. Si è poi ingolfata al duettino con Lisinga, è suonata afonoide al quartetto ed ha bissato la prestazione della sortita all’aria del secondo atto, cantando “di fibra” e con agilità evanescenti, secondo il moderno corso del canto rossiniano. Chi ha sentito questa cantante l’anno passato, mi ha garantito che la dote naturale non è affatto trascurabile, anzi, ma stasera alla radio si è avuta sensazione del tutto opposta.
Polibio era il signor Mirco Palazzi, che canta come oggi cantano i bassi in attività, ossia in gola. Ha buon gusto e proprietà di accento, dunque si sforza di controllare il suono, di non forzarlo inutilmente e questo gli giova fin tanto che la scrittura non sale. Nel “più mosso” della sua scena al II atto, “Or tutte le furie..” la voce è suonata scurita artificiosamente ( e ci resta sempre il dubbio che di vero basso si tratti ma…), quindi nella stretta con Siveno, quando arrivano gli acuti, la voce gli è uscita strozzata ed ha pure finito pure per sbandare, complice il tempo staccato dal direttore, troppo celere.
Quanto al maestro Rovaris, ha diretto con un certo piglio, in modo talora brillante, talora meccanico, come alla chiusa del duetto del I atto Eumene – Polibio. Nel complesso, però, la serata radiofonica di questa seconda giornata di ROF è stata più facile, forse perché l’opera ha un respiro diverso dal Sigismondo, che, seppur ricco di grande musica, si è rivelato più pesante e meno scorrevole, forse anche perché Rovaris è bacchetta di maggiore esperienza e mestiere del giovane Mariotti.
Il tutto senza infamia e senza lode, per esecuzioni entrambe vocalmente modeste quando non mediocri o impresentabili ad un festival ( perché un soprano di coloratura meglio della signora Moreno si poteva e doveva trovare ), amministrate da bacchette che percorrono la via dell’asetticità, ove il tragico ed il comico suonano indistinti ed indistinguibili, le orchestre ridotte ad orchestrine o complessi cameristici, gli accenti invariati e monocordi, che si pianga o che si rida.