Gli interpreti… trasversali.
Giuseppe Filianoti ha vestito i panni dello sventurato narratore e poeta romantico E.T.A. Hoffmann, ruolo che riprenderà in autunno anche al Met. La resa drammaturgica del personaggio funziona, complice forse la regia di Carsen, che riesce a non farsi prendere la mano scalfendo da una parte la facile lettura gigionesca e costruendo dall’altra una più interessante variazione amabilmente grottesca, benché ancor più tragicomica rispetto alla vulgata, dello sfaccettato protagonista. Ma se sul versante interpretativo il tenore calabrese riesce appunto a essere credibilissimo nel dosare slancio patetico e leggerezza cameratesca (lo stesso timbro, caldo, penetrante, giovanile, sarebbe paradigma dell’eroe romantico, se non…), il canto, o quel che dovrebbe ancora definirsi tale, è una sequela di berci e suoni buttati lì, quasi fossimo finite a Zola Pedrosa, in piazza mercato, per il teatro dei pupi in espatrio padano.
Già dalla “Chanson de Kleinzach” percepiamo una sorta di declamato spinto che tradisce una preoccupante mancanza di legato in ogni zona del pentagramma. Gira bene, sebbene un po’ fibroso, negli acuti che toccano il la4 sulla corona in corrispondenza di «voilà!» – qualcosa che ci è parso strizzare l’occhio a certo “spirito” avvenente di impronta dominghiana – ma se aggiungiamo un portamento ascendente tiratissimo e l’assenza di sostegno, l’impressione rimane quella di una tecnica talmente brada da lasciare di sasso. Poco cambia nell’intermezzo amoroso, dalla tessitura più spianata. L’accento arroventato, nel tentativo di dare senso ai versi, come detto poco sopra, ben si addice ai moti del cuore del poeta appassionato, ma i problemi a legare i suoni e le rispettive difficoltà di modulazione si accentuano, mentre si fa chimera la speranza di sentire un suono immascherato come dio comanda. Tutti rilievi che, considerato il livello della performance, diventano purtroppo facilmente applicabili in toto al prosieguo della serata. Il peggiore in campo.
Le quattro declinazioni del male, che si incarnano rispettivamente in Lindorf, nelle due parti extratestuali della vicenda, in Coppélius, nel Dottor Miracle e in Dapertutto nei racconti successivi, sono state affidate a Franck Ferrari che, al di là delle evidentissime mende tecniche, si è distinto per la totale inerzia di sfumature interpretative, monocorde nella varietà dei ruoli tanto da far pensare più a un’unica, metafisica presenza demoniaca che a personaggi ben delineati e dalle molteplici potenzialità teatrali. E sarebbe un errore considerare tale mancanza come la conseguenza diretta di un carente senso scenico, perché come sappiamo alla base della povertà di fraseggio sta sempre un deficit tecnico, principale responsabile di tanta noia che serpeggia in buona parte delle serate operistiche cui si presenzia. Valga d’esempio l’aria del prologo, “Dans le rôle d’amoureux”, che dovrebbe introdurre il carattere malefico del consigliere Lindorf, segretamente innamorato della cantante Stella. Ferrari si esprime con foga ma senza peso vocale, le poche salite all’acuto sono tutte “indietro” (soffocatissimo il mi3 su «peur!»), mentre già in zona centro-acuta l’emissione si slabbra e ne vengono fuori suonacci tutti stimbrati. Nulla di nuovo nella ripresa: ancora tanta gola e un vibratino poco elegante e fuori tono rispetto all’austerità del momento. Infine, è pura prosa il “Voilà messieurs, voilà!” che inframmezza il coro degli studenti, ben propensi a baldorie inebrianti dai risvolti bacchici.
Salvo gli acuti, sempre impiccati, vien fuori meglio come Coppélius nel primo atto (“Je me nomme Coppélius”), laddove la scrittura vocale più incalzante gli permette di nascondere con garbo le magagne riguardo l’appoggio della voce e l’assoluta mancanza di legato. Il volume poi è sempre quello (limitato), ma sfideremmo chiunque a produrre suoni risonanti, in special modo in alto, quando il canto s’azzoppa in gola e muore in bocca.
Nel secondo atto Ferrari è un Dr. Miracle ancora ripetitivo, ancora senza ombra di colori, ancora lupesco in acuto. Il centro è a fuoco e rappresenta l’unica zona della tessitura baritonale con un buon tonnellaggio vocale. Però ogni frase viene lasciata orfana di idee, di qualsivoglia personale arabesco, come nell’assolo “Tu ne chanteras plus?”, indimenticabile, seppur breve, momento di autentico tedio.
Stessa solfa il suo Dapertutto nel terzo atto. Da segnalare il ruggito da annali al termine di “Scintille, diamant” sul sol3 in variante di mi3 in corrispondenza di «attire-LA!», con prevedibile forcella spianata.
La Musa e (quindi) il fido amico Nicklausse convergono nel canto della giovane Ekaterina Gubanova, che funziona molto bene nei momenti d’accompagnamento, per esempio in apertura di primo atto, quando suggerisce a Hoffmann di approfondire la conoscenza dell’inorganica pretendente. Ma già nel breve pezzo solista successivo “Voyez-là sous son éventail” inizia a tradire un’evidentissima leggerezza in volume (poco eleganti anche un paio d’attacchi duri e vetrosi).
Nel secondo atto, l’inno all’amore scivola via senza particolari vette, sia positive che negative. C’è il giusto abbandono, si percepisce l’intenzione di porgere con senno la parola e, ancora, di variare il fraseggio in consonanza al contesto. I gravi, in linea con un volume certamente non torrenziale, ci sono e non vengono mai soffocati o abbandonati al caso, attributi innegabili di un mezzosoprano a tutti gli effetti (per una volta, nessun soprano corto). E per tutto ciò siamo grate alla Gubanova. Rimane tuttavia la delusione per qualche acuto un po’ spinto, oltre che non privo di acidità («donne ton COEUR»), e per la perdita di corpo in corrispondenza del passaggio superiore («c’EST l’amour»).
In veste di Musa, nel prologo (“La vérité, dit-on”), ci sembra priva delle grandi arcate di fiato necessarie non solo nell’aria vera e propria ma anche nei recitativi d’entrata e di chiusura, in cui lancia pure un paio di acuti che non hanno altra parvenza se non quella di qualificati urli.
A Parigi…
Come Filianoti con Hoffmann, la stessa Laura Aikin vanta una considerevole frequentazione con il brevissimo ruolo della nota bambola meccanica. La forza scenica legata alla parte è notevole, tant’è che la coreografia di “Les oiseaux dans la charmille” (Olympia si muove con gesti meccanici maliziosi, impugnando un microfono), azzeccatissima nell’economia di senso dello spettacolo, ci ha strappato qualche risata. Un po’ meno l’esecuzione. La voce già non è splendida per natura, poi se a un trillo aggiungete una S come prefisso e se un la4 diventa un suono tutto tirato, quando non gridato, la frittata è fatta. I vocalizzi vengono eseguiti senza pulizia, alla bell’e meglio, sia per carenza di fiato sia per la presenza di troppa aria in bocca. E per non farci mancare nulla, guarniscono il tutto delle notevoli calate di intonazione davvero poco cordiali. Insomma, Lulu è una storia, Olympia un’altra. E tacciamo sul suo prossimo debutto a Montpellier come rossiniana regina di Babilonia…
Si staglia su tutti lo Spalanzani di Rodolphe Briand. Non solo perfetto nel delineare l’isteria del genio scientifico, ma anche bravo sia nel dosare il volume a fini espressivi che nella tenuta dell’emissione, addirittura sul fiato!
A Monaco…
Inva Mula, la vera delusione della serata, è la giovane tubercolotica Antonia. Al soprano albanese non mancano certo peso della parola e pregnanza d’interprete. Dimostra subito di avere l’inflessione giusta già nell’assolo di apertura (“Elle a fui, la tourterelle”), riuscendo a trasmettere quella mestizia d’amorosi sensi che il momento prevede. Peccato però che col canto non riesca a creare una seppur minima sinergia. Certo, se la prima frase viene eseguita senza un solido sostegno del fiato (fa4-do3-r4 stimbratissimi), la zona centro-grave in corrispondenza di «Hélas! A mes genoux» è corposa, e pure liquida è la salita al sol3 nell’immediata ripetizione di verso. Dopo il veloce scambio con Hoffmann, apoteosi del canto sgraziato (in alto) e tendente al parlato (in basso), ecco il duetto vero e proprio (“Tiens, ce doux chant d’amour”), il momento più triste della serata. Non c’è nulla nella perfomance dei due cantanti che rimandi, seppur da lontano, alla sospensione simbolista dei versi, niente che faccia pensare a una sorta di momento astratto che funga da rifugio ai due amanti: Filianoti al solito, ossia raschiamenti di gola, per altro di una violenza inaudita (arriverà sfiatato e logoro al termine della recita), la Mula pure, ossia fissità stemperate su tutto il pentagramma. Le innegabili difficoltà della tessitura (repentini slanci legati tra registro grave e medio-acuto) vengono risolti ancora una volta con orrendi suoni extramusicali, cioè stimbrati e spigolosi, spesso calanti d’intonazione e quindi provanti all’ascolto.
Inudibile il Frantz di Léonard Pezzino nel suo momento solista (“Eh bien! Quoi! Toujours en colère!”). Mai un suono emesso a dovere (in particolare in acuto). Proprio nulla che abbia a che fare con il canto professionale, nemmeno con quello di più modesta fattura. Da “Bagaglino” in serata modesta.
A Venezia…
Dignitosa la Giulietta di Béatrice Uria-Monzon. Tratteggia col giusto trasporto, insieme alla Gubanova, la famosa “Barcarola” in apertura di atto. Al di là di qualche passaggio infelice (intonazione, in particolare), è un buon momento. La scena di Carsen qui è un vero capolavoro, costruita sulla simmetria rovesciata tra palco e platea, che sembra restituire davvero il senso dell’”ivresse”, del godimento scopico che genera a volte la fruizione dell’arte visiva. Sulla scia di questa splendida parentesi, abbiamo sopportato meglio qualche spigolosità e durezza della Uria-Mazon, compensate da un’innegabile compostezza d’esecuzione.
Dal comprimariato emerge soltanto il Nathaniel di Jason Bridges, tenore di consistenza vocale ben superiore alla media cui siamo abituati (a parte qualche problema negli slanci in alto, la voce è a fuoco e ben timbrata, oltre a essere sempre in parte sul versante interpretativo). Il resto…
Tremendo il coro, ma alla Bastille non è certo una novità. Mantiene senza cedimenti una solida base di urla e suoni ingolati, mentre il “Vivat! à la Stella”, nel prologo, è un bercio (nemmeno tanto) all’unisono che rimanda a certe compagnie di allupati molestatori colti in posa laocoontica.
Sarebbe da discreta routine la direzione di Jesús López-Cobos se non fosse per alcune (vedi troppe) pesantezze, in particolare in apertura di ogni atto. Di certo non l’ha aiutato un’orchestra tutt’altro che impeccabile: da denuncia quei piatti, dal suono esangue e maldestro.
Come avrete forse intuito (per chi già non la conoscesse), quella di Robert Carsen è una favolosa messa in scena, strabordante di idee e intelligenza, incentrata sulla metateatralità come elemento guida dello scambio comunicativo tra spettatore ed interprete. Quella a cui abbiamo assistito è stata la 47esima rappresentazione parigina allestita dal regista canadese e l’ultima in questa “tornata” del 2010. Speravamo di poter testimoniare, per una volta, dell’ottimismo evangelico per cui «gli ultimi saranno i primi». Così non è stato.
Carlotta Marchisio
Gli ascolti
Offenbach – Les contes d’Hoffmann
Atto II (Olympia)
C’est moi, Coppélius – Jules Baldous (1928)
Les oiseaux dans la charmille – Frieda Hempel (1913)
Atto III (Antonia)
Elle a fui, la tourterelle – Frances Alda (1912)
Atto IV (Giulietta)
O dieux, de quelle ivresse – Miguel Villabella (1928)