Una Lucia fortemente squilibrata sotto il profilo della resa musicale, quella che è andata in scena domenica al Carlo Felice di Genova. Una rappresentazione forzosamente influenzata dalla disomogeneità tecnica del cast artistico assortito che, se è stata capace di riservare piacevoli conferme sotto il profilo vocale di certe prestazioni (Jessica Pratt in primis), ha anche marchiato a fuoco la strutturale e idiosincrasica incompetenza di altri, sia per un certo tipo di repertorio (vedere alla voce Daniel Oren), sia per il canto lirico tout court (un suggerimento spassionato rivolto a Enzo Peroni [Arturo] e a Francesco Piccoli [Normanno]: quante cose belle che si possono fare nel mondo, oltre a cantare l’opera!).
Resta il fatto che, complice forse l’atmosfera acquitrinosa (così scottish!) di Genova, complice forse un teatro meno pieno del previsto (ma non preoccupatevi: le sonore scatarrate e lo scartoccìo di caramelle in piena scena della pazzia sono state comunque assicurate), complice forse il ricordo di altre (e quelle sì, rovinose) Lucie, ce ne siamo uscite dal teatro con un sorriso (giocondiano, si intenda!) sul volto. Ma andiamo con ordine.
E partiamo dalla Lucia della Pratt, l’interprete indiscutibilmente migliore della rappresentazione. Al soprano australiano va, innanzitutto, riconosciuto un pregio tecnico di non marginale portata, visti i magri tempi che corrono: la padronanza di un’ottima emissione di voce. Il suono è sempre appoggiato, sostenuto e indirizzato nei giusti punti di risonanza, il che ha messo al riparo la signora, e le nostre fragili orecchie, da orripilanti suoni fissi e stimbrature di sorta, così facili in repertorio belcantista, e così frequenti oltre il la4. Ad impressionare, fin dalle prime frasi della cavatina, è stata per altro la morbidezza e la luminosità dell’emissione: già l’attacco sul fa4 di “Regnava nel silenzio” si distingueva per la delicatezza argentina e quasi vellutata dell’appoggio. E moltissimi, in tal senso, lungo tutta la recita, sono stati i momenti in cui tale controllo ha sortito sonorità di cristallina rotondità: dal soave e leggermente increspato sol4 del “Deh ti placa” invocato a Edgardo prima del duetto nel primo atto, al sottilissimo e stralunato sol4 di “Ah! quella voce m’è qui nel cor discesa” all’incipit della pazzia, o ancora, sempre al primo atto, le tenui modulazioni con cui è stato articolato il passaggio dal do4 al fa4 di “E la vita fuggitiva di speranze nudrirò”. La Pratt, in questo senso, si è rivelata attenta dominatrice della messa in voce, confermando di essere perfettamente in grado di corrispondere alla punteggiatura espressiva attraverso il controllo dell’emissione: tanto sono stati precisi e lunari i pianissimi filati sul fa4 di “Verranno a te sull’aure”, tanto è stata limpida e intensa l’accelerazione drammatica impressa ai la4 e si4 di “si schiuda il ciel per me” della prima cabaletta, attraverso un progressivo rinforzo della voce perfettamente padroneggiato sino al ritorno al pianissimo. Notevoli, ancora, sono state le graduali e pulitissime smorzature, tracciate durante la scena della pazzia, valga il delicato diminuendo sul re3 di “oh gioia che si sente, e non si dice”, giusto preceduto dall’infuocata e nitidissima scala discendente di biscrome. Questo va detto. La Pratt affianca, all’ottima capacità di fraseggiare gli ampi legati mediante un’accentazione timbrica (e non sortita da spinte di fiato), alla non scontata agilità di articolazione con cui approccia le parti di coloratura tout court. Rapidissime e pulite le scale ascendenti e discendenti (bella l’ascensione velocissima seguita dal gruppetto di “presso la fonte meco t’assidi”), belli i trilli, buoni i picchiettati (ma non perfetta la sincronia col flauto). Tutto bello, tutti felici? No, in effetti qualche problemuccio il soprano australiano ce l’ha, e l’abbiamo udito. La Pratt tende a svuotarsi consistentemente nei gravi: sotto il si3 la voce si schiarisce, si sbianca e perde vistosamente di intensità e potenza. Passaggi come “Il fantasma!” con la discesa al fa3, o ancora l’ “Al fin son tua” che tocca il mi 3, si stemperano in un vuoto di espressione e di sonorità che tendono ad inghiottire la voce. Se dunque in acuto la voce gode di ottima e corposa omogeneità, nella zona medio grave del registro, si nota una pericolosa perdita, tanto di armonici che di potenza. E di questo la Pratt sembra esserne consapevole, visto che in più di un’occasione ha tentato di spingere il suono per farlo lievitare in corposità, ma sortendo un evidente stimbramento (valga al primo atto il vuoto e spinto “Ah senza tremar non veggo”). Qualche piccola perplessità anche sui blasonatissimi e adamantini sovracuti l’abbiamo avuta. Dal do5, non sempre il suono si è rivelato controllato solidamente, non tanto sull’attacco della nota, quanto sulla tenuta e sulla cesura della stessa. Buono il mib della prima cabaletta, decisamente più spinto e meno tenuto quello in chiusa al cantabile della pazzia, migliore quello della cabaletta finale.
Di Stefano Secco conosciamo bene vizi e virtù. In questa produzione ci è sembrato comunque più in forma rispetto al Don Carlo parigino, al Rigoletto ambrosiano e al Rodolfo ancora francese. Certo, la voce è di volume ridotto e il fraseggio, seppur di pregio, tradisce qualche manierismo distefaniano (sortita del primo atto), ma al centro mantiene un’emissione nitida e non certo priva di armonici. Il vero cruccio del tenore rimane talvolta la salita agli acuti e, in particolare, il passaggio di registro superiore. Del primo valga l’approdo di gola su «potrei colpirlo ancor!» nell’assolo di entrata “Sulla tomba che rinserra” e lo strozzamento che subisce nel duetto con Lucia, subito dopo (legnosa la scala ascendente fino al si4 di «allor, ah su quel pegno». Del secondo invece è esemplare l’aria di chiusura “Tu che a Dio spiegasti l’ali”, tutta giocata sulle mezzevoci e a cavallo tra registro centrale e acuto. Qui la difficoltà a sostenere bene i suoni col fiato fa finire “indietro” ogni tentativo di smorzatura, che svanisce in un suono opaco di fantozziana memoria.
Ci sentiamo di esprimere qualche perplessità anche per l’Enrico di Giorgio Caoduro. Il baritono friulano tratteggia un giovane lord Ashton che, se comprensibilmente fatica a imprimere al personaggio un certo rilievo nobiliare e un portamento di elegante fattura, riesce comunque a ritagliare e rendere credibile quella sfrontata autorità che ogni pretendente al ruolo deve esibire. Non tutto però fila liscio sul coté vocale. Perché è indubbio che il signor Caoduro sia dotato di bel timbro e abbia dalla sua un’emissione corretta che facilita la proiezione della voce. Non solo. I centri sono sonori e stabili, così come le discese in basso, con qualche eccezione (stretta del duetto con Lucia nel secondo atto). Ma non possiamo non render conto di una limitata propensione allo squillo e di una certa legnosità nel tentativo di smorzare i suoni. Insomma, acuti non proprio facili e timbrati e una velata tendenza a rifuggire suoni compatti (ma qui il baritono si trova in ottima compagnia, senza essere per altro tra i rappresentanti più vistosi di siffatte pecche). Qualche dettaglio. Già nel recitativo di sortita un Enrico furioso bercia sul mi3 in corrispondenza della salita su «esser potrebbe Edgardo?», mentre nella cavatina “Cruda, funesta smania” non considera la corona sul mi3 della prima sillaba di «fron-te» ma prolunga il suono sulla nota successiva (re3, seconda sillaba), quasi avesse deciso in maniera del tutto arbitraria di spostare il segno di espressione subito dopo. La musica non cambia quando la salita di fibra al mi3 su «nascea» lascia intravedere qualche conto in sospeso col passaggio superiore. Poi evita la puntatura di tradizione (assente in partitura, vogliamo precisarlo) su «perfido» e stimbra un altro mi3 su “fora”. La stessa cabaletta “La pietade in suo favore”, mozzata del “da capo”, presenta gli stessi limiti. Però il duetto con Lucia in apertura del secondo atto testimonia bene cosa siano dei centri sicuri e potenti, sostenuti da un fraseggio piuttosto vario e gradevole. Peccato però per il si2 su «e taci?», prima dell’entrata di Lucia, tutto “indietro”.
Poco da dire sul Raimondo di Roberto Tagliavini, vittima della mannaia di Oren e quindi orfano della scena con Lucia nel secondo atto. Rimane giusto il meditato racconto di ciò che ha trovato nelle stanze della povera neosposa, a introduzione dell’assolo della pazzia. Ci è sembrato un buon fraseggiatore, attento a dare sfumature di senso ai pochi versi che è tenuto a cantare. La voce non è proprio di basso autentico, di quelle che eravamo solite sentire nei bei tempi andati, però è dotata di un certo squillo (esemplare l’accento, in corrispondenza di «Un fiero evento!», sulle forcelle dei si2 che anticipano la salita al re3, raggiunto con sicurezza e facilità) e di potenza non indifferente, in particolare in zona centro-acuta.
Ornella Vecchiarelli è un’Alisa dai centri e gravi bianchi, che accompagna la cavatina di Lucia declamando senza leggerezza (e soprattutto parsimonia!).
Sarebbe meglio soprassedere sul Normanno di Francesco Piccoli e sull’Arturo di Enzo Peroni. Due tenori che, per ragioni non dissimili, ci sembrano inadeguati e non maturi vocalmente per cantare l’opera. Grossi problemi per entrambi, sia di intonazione (menzioniamo un “Lucia d’amore avvampa!” da brividi tanto era calante e schiacciato), che di volume (chi dice a Piccoli che l’acquario non è al Carlo Felice, ma sul porto?). A queste mende tecniche, però, l’Arturo di Peroni ha aggiunto anche un’emissione perennemente querula e indietro, fastidiosissima all’ascolto.
Non troviamo altre parole per definire la direzione di Daniel Oren se non sottoscrivendo i fischi e i «Vergogna!» con cui un paio di spettatori in galleria hanno salutato l’uscita del maestro. Uno sfoltimento della partitura degno di certe direzioni post-toscaniniane, alla Serafin o Leinsdorf per dirne due. Insomma, non solo la soppressione a piè pari di intere scene, come il duetto Raimondo-Lucia del secondo atto e dello showdown tra Enrico ed Edgardo in apertura del terzo, ma anche i “da capo” (cabaletta di Enrico) e le parti di “transizione” tra cavatina e successiva cabaletta di Lucia nel primo atto e tra il sopracuto in chiosa alla pazzia e la cabaletta a venire. Inevitabile chiedersi se tali mostruosità siano dovute all’attenzione che il direttore ha voluto riservare ai signorotti arrivati in pullman dalla Bassa, forse ansiosi di rincasare in tempo per la minestrina di tapioca. Da notare pure che non pago, Oren massacra a colpi di piatti ogni potenziale sfumatura, ogni passaggio elegiaco sotteso alla partitura di Donizetti. Valgano su tutto le code delle cabalette di Lucia, autentiche trovate bandistiche, fracassone a tal punto da far arrossire un 25 aprile in piazza a Gallarate. Ed è un vero peccato, una volta che la compagnia di cantanti si è dimostrata all’altezza.
L’allestimento, firmato da Gilbert Deflo, è stato espressionisticamente impostato sulla bicromatica contrapposizione bianco/nero. Forse di necessità, virtù. La frequente “spogliezza” scenica (quasi desertica per questa Lucia, se si eccettuano le sedie marmoree, l’ambone per il matrimonio e la consueta tomba-altare del finale) sembra, infatti, provenire più da limitazioni e decurtazioni di budget, che da puntuali scelte registiche. Deflo, tuttavia, si è servito di questo “sgombero scenico” per virarlo in un’ottica chiaroscurale, di matrice, diremmo quasi, spettrale. La bionda, bianca, diafana Lucia contrapposta ad un universo umano lugubre, ottocentesco e allusivamente vampiresco. Al riguardo, non sembrano casuali, né le atmosfere gotiche, così ammiccanti alle visioni demoniache del Bava padre, né la ricreata somiglianza di Enrico con l’emofago conte pensato da Coppola. Nulla è dichiarato o didascalicamente palesato in questa trasfigurazione che è, ambivalentemente scozzese e transilvanica, e il meccanismo scenico funziona, secondo noi, proprio per questo. Nessuna forzatura o lettura coatta, ma una sottile palindromìa semantica. Cosa volesse dire, poi, il lampadario che, durante la scena della pazzia, penzolava fino al pavimento, questo non l’abbiamo capito.
Barbara e Carlotta Marchisio
Gli ascolti
Donizetti – Lucia di Lammermoor
Atto II
Chi mi frena in tal momento – Luisa Tetrazzini, Enrico Caruso, Pasquale Amato, Marcel Journet, Angelo Badà & Josephine Jacoby (1912)
su Jessica Pratt sono convinto che col passare del tempo saprà migliorare anche sul registro medio basso,intanto dopo che l'hanno esclusa dal cast del Rigoletto alla Scala,ha dato dimostrazione che la sua voce,è a posto,e che Le Convenienze e Inconvenienze,è stato solo un piccolo inciampo,e io nell'ascolto per radio in quest'opera posso dire che a parte una leggera ondulazione nella voce,il resto era a posto,penso che dalla Scala ha subito un ingiustizia per non averla fatta cantare nel ruolo di Gilda,ed ero convinto che a Genova avrebbe dimostrato il suo valore,e cosi è stato.
Sono molto contento di leggere del successo di Jessica Pratt. Per me una conferma del fatto che oggi sia la voce di soprano più interessante per questo difficile repertorio. L'ho ascoltata fin dalla sua Lucia cremonese (di cui ho scritto con entusiasmo la recensione) spero di sentirla sempre più stesso in teatri sempre più importanti: mi auguro poi che non venga rovinata da sconfinamenti in ruoli non adatti alla sua voce (rischio sempre attuale, grazie alla sordità e all'ostinazione di direttori artistici e agenti). Donizetti, Bellini e Rossini hanno bisogno di un soprano come la Pratt. Le suggerirei pure di pensare a Mozart (penso alla Konstanze del Ratto del Serraglio o alla Regina della notte), e mi piacerebbe ascoltarla in "Popoli di Tessaglia".
Credo che Le Convenienze scaligere siano state un piccolo inciampo, dovuto anche ad un clima e ad un contorno poco rispettosi e controproducenti (l'Accademia scaligera) e ad un pubblico in parte preconcetto.
Solo due aggiunte alla condivisibile recensione:
– Jessica Pratt ha ancora un registro centrale troppo deficitario. Il confronto con la Devia (non esattamente una voce torrenziale, ma molto più corretta e a fuoco in quelle note) recentemente ascoltata in Lucrezia Borgia è tuttora abbastanza impietoso.
– Caoduro mi risulta che non stesse bene.
un confronto tra la Pratt e la Devia,per adesso,e perlomeno prematuro,la stessa Pratt è consapevole che in quella gamma deve ancora molto lavorarci,lasciamogli il tempo di maturare,i confronti si faranno a tempo debito
Non che i centri della Devia siano immuni da mende…sia ben chiaro. E pure per ciò che concerne il volume ci sarebbe da discutere. Grande belcantista la Devia, senza dubbio, ma non pietra di paragone per qualsiasi cosa…
caro zio totò,
non sono mai stato un fans della devia. Le ho sempre preferito con i propri limiti serra e cuberli, come altre volte ho avuto occasione di dire.
La devia di oggi o dieci anni fa è ben differente da quella del debutto in carriera importante diciamo 1983-1985. Allora e sino almeno alla prima lucia in scala la devia aveva i tipici centri aperti delel colorature che imitavano la toti, che tutto è dai dischi fuorchè un modello tecnico. Dico dai dischi perchè chi sentì la toti dal vivo dice cose ben differenti.
credo che ad un certo punto della carriera la signora devia non so se auspice celletti (di cui ripete non essere stata allieva) o il marito, che era un trombettista, abbia cambiato qualche cosa e nella respirazione e nella fonazioen in zona medio grave.
Soprano lirico non lo è diventato, ma per certo ha cominciato a coprire assai meglio la zona medio grave.
Quanto ai ricordi dal vivo sia nella manon di auber (verona 1984) che nella lucia scaligera e naturalmente in tutti gli spettacoli compresi che furono molti, il centro e la zona grave erano poco sonore e bianche.
Poi, ripeto, il cambiamento.
Quanto a Jessica Pratt, che ha retto la scrittura centrale della Desdemona rossiniana e che poco o nulla ha del soprano leggero, credo debba fare esattamente quel che ha fatto la signora devia.
alla prossima e grazie dell'intervento sor antonio ( o confidenzialmente zio totò)
dd
molto interessante. Sfido però il coraggio di Duprez a recensire la passione bachiana uscita nei negozi in questi giorni, ad opera di Chailly… si tratta di una grande impresa!
solo una postilla al mio ultimo commento adesso come adesso la Pratt è già una grande Lucia
CAre sorelline,
siete iperattive!!
Fate attenzione….ad una certa età bisogna stare attente…non sono più i bei tempi della giovinezza.
Perchè parli di sfide Silvio? A dire il vero l'ho acquistata ieri anche se ancora non l'ho "assaggiata": molto mi sono piaciuti i Barandeburghesi antibaroccari (e quindi aspramente criticati dai talebani di Classic Voice) e mi aspetto una buona incisione. Tu che ne pensi?
Carissima Giulia, lo abbiamo fatto in nome della nostra vecchia amicizia!
Continueremo a tenere d'occhio questa signorina Pratt… Certo, tu cara sotto eri messa molto meglio, ma… Oh numi, sto iniziando a parlare come la mia fratellona Barbara! Che mi succede? 😉
Saluti a tutti
Carlotta
Solo per chiarire il mio pensiero: il centro della Devia non è assolutamente immune da mende se deve affrontare passi concitati o accentare con vigore. Lì c'è un chiaro deficit di autorevolezza e indubbiamente fa fatica a passare l'orchestra. Dove invece mi sento di proporla come modello è nei cantabili (penso allo sbalorditivo "Come è bello" della recente Lucrezia anconetana); lì il centro della Devia ha raggiunto una morbidezza ed una rotondità che la pongono decisamente su un altro livello rispetto alla Pratt sentita a Genova (per non parlare di quella scaligera, ma spero sia stata solo una produzione sfortunata). Speriamo che la giovane e promettente australiana sappia percorrere il cammino già fatto dalla Devia e ben evidenziato da Donzelli.
Un saluto a tutti,
Sor Antonio (o zio totò per voi amici… )
caro Duprez, ne penso che è un ottima idea, ma che le voci solistiche mi intimoriscono enormemente. Un'incisione ai giorni d'oggi dovrebbe imporre la dimenticanza di quel che fece a suo tempo Scherchen, o Weissbach…
Caro Silvio, ho ascoltato alcuni brani sparsi: splendido il suono dell'orchestra di Lipsia, così come la lettura di Chailly, calda e trascinante, vitale, drammatica (evita certi eccessi romantici e tempi troppo lenti e solenni); straordinari i due cori impiegati. Sui cantanti devo ancora farmi un'opinione: certo l'Evangelista di Johannes Chum è terribile… Il tempo di ascoltarla e e ti dirò con maggiore cognizione le mie opinioni. Ovviamente non mi attendo cantanti d'opera, né uno stile operistico (Bach non è Handel, e le sue Passioni non c'entrano proprio nulla con l'opera italiana), però mi auguro di non sentire stridori baroccari…già evitati da orchestra e coro.
CAro Cotogni,
leggo or ora il tuo post.
Concordo sui centri della evia, che hanno però subito negli anni accomodamenti evidenti, a vantaggio di una maggiore sonorità.
Personalmente trovo che la signorina Pratt non abbia sempre la voce a fuoco allo stesso modo: ai Puritani di Toulouse aveva un corpo che da lì in poi è scomparso. peraltro in quella, che ritengo essere stata lasua prova migliore, il registro alto era bellissimo. Ma da quella produzione in poi tutta la voce è scesa di posizione, perchè anche nell'acutissimo Aureliano delle Inconvenienze non solo il centro ma prorpio gli acuti erano poco facili. O comunque non a fuoco come li aveva in precedenza.
Nell'audio genovese la voce mi pare migliorata rispetto a Milano, ma non è ancora abbastanza su….manca ancora un quid, perciò ci sono anche suoni non belli e la coloratura non è ancora tornata fluidissima…
Del resto ha passato mesi a falsettare dunque…
Tornerà come prima piano piano….ne sono convinta
saluti
ops….vedo che donzelli aveva già espresso le mie idee
sorry
"spargi d'amaro il pianto" ascoltantola attentamente deve lavorare anche un po sulle agilità
http://www.youtube.com/watch?v=0wA1u-5FiQ0
"spargi d'amaro il pianto" cantato da Lina Pagliughi per un raffronto
http://www.youtube.com/watch?v=903_P3jNzSI
certo che gli acuti e sovracuti della Pagliuchi fanno venire in mente cristallo purissimo
La Pagliughi non mi sembra certo un esempio da imitare in Donizetti e in Lucia. Tolta la facilità nel registro sovracuto, non trovo molte soddisfazioni nella sua esecuzione. Secondo me resta voce troppo leggera, priva di mordente nel virtuosismo e risolta essenzialmente nella corda patetica. Una Lucia siffatta non è più presentabile dopo la Callas e soprattutto dopo la rivoluzione della Sutherland (questo sì vero modello per questo repertorio). Per tacere di un certo gusto perfido nel bamboleggiamento che nulla c'entra con Donizetti e Lucia (ma che ovviamente dipende dai modelli dell'epoca e risulta, allora, comprensibilissimo).
difatti il mio raffronto era sulla bellezza e la facilità degli acuti della Pagliughi,rispetto a quelli pur belli della Pratt che hanno bisogno ancora di una messa a punto
Poi chiaro che la Pagliughi era un soprano leggero,e la concenzione del suo canto appartiene alla sua epoca
è chiaro Duprez che quando la Pratt
canterà cosi sarà anche lei Stupenda
http://www.youtube.com/watch?v=Dq_Gd0duwUo
questo video lo porterei anche alla conoscenza della Rancatore,di modo che rifletta prima di parlare.
Occhio Pasquale, che la Ranca si sente vittima di questo sito a causa della Pratt….
La signorina canta benissimo e questo sito la perseguita ingiustamente…hahahah…
ciao
Giulietta, noi siamo signore d'altri tempi, a volte poco aggiornate sul panorama moderno: la Ranca per caso è Desirée Rancatore? Quel mosquito che dovrebbe cantare al massimo Sophie in qualche quinto cast di provincia? Non paragoniamola nemmeno alla signora Pratt, che almeno sa cosa vuol dire appoggiare la voce e smorzare senza produrre suoni fissi e calanti!
Sì Pasquale, la Lucia della Sutherland è davvero Stupenda…e difficilmente raggiungibile (purtroppo). Ma questo è il modello a cui dovrebbe ispirarsi chi affronta tale repertorio. Gli esempi della Devia o, peggio, della Pagliughi, non c'entrano molto (nel caso della Pagliughi nulla). Si tratta di voci differenti rispetto a quella della Pratt, i cui centri sono sì da sistemare, ma che nelle agilità e nella zona più acuta non ha nulla di fuori posto, anzi. Dici che gli acuti della Pagliughi sono meglio? Detta così non ha molto senso: un acuto privo del contesto è solo una nota. Quelli della Pagliughi saranno cristallini, ma sono privi di corpo, e la voce resta leggera leggera. Ovvio che una tale tipologia vocale risulti più avvezza al registro acuto, ma resta la sensazione di un coccodè meccanico (accompagnato ad una idea di lirismo molle e flaccida). Non è per insistere, ma proprio nella Lucia certi esempi non reggono. Parlare solo di note fuori contesto non ha senso: potrei apprezzare certi acuti di Del Monaco, ma te lo sentiresti come Edgardo? Molte dive si sono cimentate in Lucia, solo poche ne sono uscite in modo ammirevole: penso ai risultati più che discutibili della Serra, della Studer, della Mazzola, per non parlare della disastrosa Caballé.
Duprez sulla Pagliughi il mio era solo un esempio di Lucia,anche perche in alcune registrazioni mi piace.Non l'ho citata come modello,poi nonostante alcuni aggiustamenti,ripeto su questo commento quello che ho già scritto in un altro commento,che la Pratt attualmente è gia una grande Lucia,ed è già una voce importante,è questo l'ho scritto anche in chat quando dopo la recita alla Scala sulle Convenienze era stata criticata,e dopo la sua estromissione dal cast del Rigoletto nella chat ho scritto che dopo averla ascoltata per radio nelle Convenienze a parte un ondulazione nella voce il resto era a posto,nella parte alta del registro canta bene,ma ha ancora bisogno di qualche messa a punto,poi riguardo al centri,per me più che il registro centrale,e verso il registro basso che deve acquistare spessore,ma questo verrà col tempo,la Pratt non è un soprano leggero,ma neanche drammatico,anche con la Devia avevo scritto che è un confronto ancora prematuro,è non è detto che anche in futuro sia possibile,essendo due voci diverse.