E’ risaputo che il Requiem di Verdi abbia avuto la prima esecuzione a Milano nella Basilica di San Marco il 22 maggio 1874, primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni, cui è, infatti, dedicato.
E’ risaputo che la composizione sul testo della Missa defunctorum di rito tridentino ambrosiano (il solo che preveda la recita, ossia il canto dell’Agnus Dei) fosse stato accarezzato da Verdi non già in morte di Alessandro Manzoni, ma di Gioachino Rossini, di poco precedente (13 novembre 1868)ed in ricordo del quale Verdi aveva ipotizzato un concorso di tutti i compositori italiani in omaggio al Decano ed indiscusso maestro. E’ risaputo ed è anche stato eseguito quanto per la Messa pro Rossini Verdi predispose, ovvero il “libera me, Domine”, che gli riuscì, come sempre, meglio al secondo tentativo ovvero per la messa dedicata a Manzoni. E’ interessante rilevare come Verdi avesse, sin dall’abortito progetto “rossiniano” riservato a sé stesso, che era considerato e più si considerava il maggior compositore italiano vivente un brano, quello conclusivo appunto, che ricalcava già nella prima stesura e più ancora nella seconda l’ ” inflammatus” ossia il numero solistico più singolare e moderno dello Stabat mater. Questo ed altre peculiarità della stessa Messa da Requiem (che costituiscono omaggio e richiamo all’ultima grande composizione sacra italiana per soli, orchestra e coro) posso offrire, oltre i fiumi di inchiostro versati riguardo questo unicum della produzione verdiana, una prima chiave di lettura del capolavoro. Altre ancora nascono dalla considerazione che si tratti del primo componimento sacro, che non nasca da una commissione, come era accaduto per altre Missae defucturom famose, come quella di Cimarosa e quella di Paisiello per tacere di quello mozartiano, il cui mistero proprio dalla commissione principia, ed arrivare alla prima stesura dello Stabat rossiniano. Nel Requiem verdiamo, sin dal progetto originario, la commissione è quella dell’artista cui urge celebrarne altro a proprio giudizio sommo e degno della celebrazione. Entrambi Rossini e Manzoni al momento del trapasso considerati i massimi rappresentanti dell’arte italiana. E’, quindi, una celebrazione dell’arte per tramite della celebrazione degli artisti. E’ la celebrazione dell’artista in quanto tale nella non solo culturale del proprio paese. In questo è una declinazione dell’idea romantica dell’artista. All’apparenza scarso il rapporto con la religione, pur essendone stato Manzoni , indiscusso campione. Fu facile, quindi, ed anche strumentale parlare di un Requiem laico. Si aggiungano la cultura dell’epoca, il comportamento dell’organizzazione ecclesiastica (Manzoni muore all’indomani della breccia di Porta Pia, ovvero nel momento più alto e sofferto del conflitto Stato-Chiesa), la vita privata di Verdi, vissuto sino al 1859 more uxorio con la Strepponi, donna di discussa moralità, la raffigurazione della Chiesa contenuta in certi lavori di Verdi, don Carlos in primis. Non solo, non contenta la critica aggiungeva che con la religione mal si conciliava il sapore e l’impianto melodrammatico (in senso deteriore) di certe pagine, soprattutto quelle solistiche. Spiace non sono affatto d’accordo. In primo luogo già il dedicatario della composizione ci dice di un sentimento religioso. Si badi religioso non cattolico, apostolico, romano (rectius ambrosiano). Credo, per contro, che il Requiem sia la più completa rappresentazione del rapporto fra l’uomo del 1870 e la morte. Rapporto sì complesso e variegato, che esecuzioni diversissime per tempi, sonorità ed agogica del capolavoro sono tutte egualmente valide, tutte pertinenti, tutte capaci di cogliere lo spirito della composizioni, semplicemente privilegiandone taluni aspetti. Prlare di rappresentazione significa parlare di opera e di melodramma. E’, quella di indulgere all’opera da sempre una accusa che la produzione sacra italiana, soprattutto se di mano di operisti, si porta addosso. Vi indulge lo Stabat di Rossini, vi indulga anche la Petite Messe e per certo il requiem, Non è, però né un limite né un demerito è una caratteristica. E’ la messa in musica dell’idea dell’epoca che riteneva solenni e pubblici tutti gli aspetti connessi alla morte a partire dai riti. Basta leggere i giornali dell’epoca riguardo il trapasso, la veglia e la sepoltura di Manzoni e Verdi. Allora è congruo che in questa messa si celebri e si celebri con gli eccessi e la solennità che lo spettacolo morte e suoi riti impongono, come accade nelle arie solistiche del tenore e del soprano -il grandioso “Libera me, Domine”- ed il sonoro “tuba mirum”. E si taccia della reiterazione , al di fuori dell’utilizzo liturgico, del “dies irae”. Ma la morte non evoca solo riti, tocca il profondo dell’animo umano, la paura dell’ignoto, del “dopo”, spesso identificato nel giudizio divino e nel “presentarsi innanzi Tribunale più santo e più tremendo”. Era l’idea di morte, come redde rationem che il Concilio Tridentino aveva inculcato. Né poteva essere diverso per una Chiesa dei precetti e degli obblighi e non già del perdono e della misericordia. E’ l’idea questa che si realizza nel passo più terrifico ossia il “dies irae”. Non è solo mettere in musica le parole della cosiddetta sequentia mortuorum è rendere il metus, la pochezza dell’uomo innanzi la MORTE. Non è caso, perdonate se mi ripeto, il dies irae viene ripetuto extra esigenze liturgiche all’interno della composizione e sempre con impeto e terrore. Ma anche qui sposare la tesi che la Messa sia il canto del terrore dell’uomo dinanzi la morte è peccare di parzialità. Chi lo fa utilizza, sempre o quasi, l’aggettivo michelangiolesco e l’immagine del giudizio universale della Sistina. La morte della messa o meglio il rapporto uomo – morte è anche rassegnazione, accettazione , trasfigurazione. Non sarebbe la messa per Manzoni, non sarebbe la messa di chi, di fatto, mise in scena la pietas e la misericordia del padre Cristoforo. Basta ascoltare l’inizio sommesso e riflessivo del “requiem aeternam” e più ancora il numero conclusivo del “libera me, Domine” che inizia disperato, prevede, addirittura l’ultima ripetizione del “dies irae” e si conclude sereno e pacificato. Proprio con riferimento alla parte conclusiva qualcuno ha parlato di accettazione della morte. E’ la rappresentazione del momento in cui tutti noi arriviamo, come dice la più antica preghiera, che accompagna il trapasso “in conspectu Altissimi” e che per Verdi, uomo laico per il suo tempo, si perfeziona dopo paure, travagli immensi e spettacolari.
Requiem aeternam – Coro del Teatro alla Scala, dir. Victor De Sabata (1951)
Kyrie eleison – Leontyne Price, Rosalind Elias, Carlo Bergonzi, Cesare Siepi, dir. Sir Georg Solti (1963)
Dies irae – BBC Chorus, dir. Arturo Toscanini (1938)
Tuba mirum – Coro del Teatro alla Scala, dir. Victor De Sabata (1951)
Mors stupebit – Martti Talvela, dir. Carlo Maria Giulini (1979)
Liber scriptus – Irina Arkhipova, dir. Alexander Melik-Peshayev (1960), Grace Bumbry, dir. Zubin Mehta (1967)
Quid sum miser – Maria Caniglia, Ebe Stignani, Beniamino Gigli, dir. Victor De Sabata (1940), Renata Tebaldi, Nell Rankin, Giacinto Prandelli, dir. Victor De Sabata (1951)
Rex tremendae – Renata Tebaldi, Nell Rankin, Giacinto Prandelli, Nicola Rossi-Lemeni, dir. Victor De Sabata (1951)
Recordare – Martina Arroyo & Shirley Verrett (1972)
Ingemisco – Helge Rosvaenge, dir. Arturo Toscanini (1938), Flaviano Labò, dir. Franco Capuana (1963)
Confutatis maledictis – Alexander Kipnis, dir. Eugene Ormandy (1942), Ivan Petrov, dir Alexander Melik-Peshayev (1960)
Lacrymosa dies illa – Renata Tebaldi, Nell Rankin, Giacinto Prandelli, Nicola Rossi-Lemeni, dir. Victor De Sabata (1951)
Hostias et preces – Richard Tucker, dir. Eugene Ormandy (1957), Carlo Bergonzi, dir. Sir Georg Solti (1963)
Sanctus – BBC Chorus, dir. Arturo Toscanini (1938), Wiener Staatsopernchor, dir. Herbert von Karajan (1949)
Agnus Dei – Mirella Freni & Elena Obraztsova, dir. Claudio Abbado (1978)
Lux aeterna – Nell Rankin, Giacinto Prandelli, Nicola Rossi-Lemeni, dir. Victor De Sabata (1951)
Libera me Domine – Renata Tebaldi, dir. Victor De Sabata (1951), Leontyne Price, dir. Sir Georg Solti (1963), Gabriella Tucci, dir. Georg Szell (1968)
Bellissimo requiem quello di verdi e bellissimi ascolti.
A me personalmente piace molto il Requiem di Karajan, sopratutto quello Freni, Ludwig, Cossutta, Ghiaurov.
Ho molto apprezzato il suo commento, soprattutto l’idea di un Requiem che evidenzia una ricerca interiore di Verdi riguardo la fede.
In primo luogo bisogna sapere che Verdi, figlio del suo tempo, viveva un anticlericalismo ben diverso da certe dinamiche tipiche ad esempio del 900 inoltrato. Questo aspetto è significato nella continua ricerca di elementi religiosi in primis dedicati a Maria, presenti nelle opere, tuttavia questi elementi esprimono sempre il contrasto interiore di Verdi.Traviata è un esempio di ciò, la religiosità vera di violetta che sperimenta la redenzione e la falsa religiosità bigotta di Germont, Anche il Requiem esprime questo contrasto che colmerà nella piena maturità alla composizione dei 4 pezzi sacri e alla richiesta del Viatico e di un sacerdote prima di morire. Verdi nel requiem da testimonianza di una fede vera e combattuta, ma lungi dal parlare di requiem laico, sarebbe una interpretazione forzata secondo categorie più contemporanee e velata da una ignoranza riguardo la liturgia della Chiesa. Un esempio: per decenni si è letto che è un requiem ateo perchè non termina con l’amen, allora bisogna sapere che il pezzo finale del requiem , il libera me era l’antifona finale della messa tridentina, e quindi non finisce mai con un amen, invece l’amen c’è dove deve stare, e cioè alla fine della sequenza del dies irae. E concludo poi mitigando le critiche di un opera più teatrale e meno sacra: da sempre bisogna fare la distinzione tra musica sacra e musica religiosa, la sacra era utilizzata per le celebrazioni, la religiosa era musica, come il requiem, scissa da una idea liturgica, ma libera e spesso originale. La storia è pieno di esempi del genere basti pensare agli oratori dei grandi compositori………..ed ora mi godo questi ascolti di una delle più magnifiche composizioni di tutti i tempi,.Quando Brahms vide la partitura rimase impressionato ed disse che era un lavoro di un genio……….il genio di Verdi, il genio di un uomo che dinnanzi alla ricerca di dio esprime tutta la bellezza dell’arte umana.
Mi scuso per gli errori……. mi è partita per sbaglio la pubblicazione senza poter revisionare il tutto.
Grazie. Cordiali Saluti.
Anch’io faccio i complimenti per la dotta esposizione.
Volevo fare una domanda se possibile.
Il “Libera me” nel Rito Romano, fa parte dei testi aggiuntivi per il Pio Ufficio della Sepoltura e non nella Missa defunctorum. La messa per Rossini avrebbe dovuto essere celebrata in San Petronio, e di conseguenza il testo liturgico usato doveva essere quello “Romano” che termina con il “Lux aeterna”.
Come mai compare il “Libera me” nella messa di Bologna?
Per San Marco immagino che la scelta fosse obbligata, trattandosi di celebrazione con rito Ambrosiano.
Grazie a chi dovesse rispondermi.
Fabiano Brioschi
capita anche a noi, non è un problema. a presto
senza aver guardato testi di liturgia. ante concilio vaticano secondo sia in romano che in ambrosiano la liturgia funebre era in realtà un ufficio . la celebrazione eucaristica quale liturgia funebre tipo è un portato del vaticano secondo. preciso che in ambrosiana la liturgia eucaristica funebre veniva celebrati l’indomani della sepoltura in romano il settimo giorno ( la cosiddetta settima) Nel messale ambrosiano ante concilio è previsto il libera me domine, ma il libera me è anche in romano. le differenze sono l’agnus dei che in ambrosiamo è solo delal liturgia funebre e il sub venite sancti dei che in ambrosiano non esiste e che in romano si recita, se non mi sbaglio all’inzio dell’ufficio. adesso vado guardare il messale ambrosiano tridentino e ti dettaglio megli
dd