Le dettagliate disposizioni sceniche dipingono un’atmosfera carica e livida, come in un quadro di El Greco: una notte di calma apparente, sotto il cui placido aspetto, il destino – forza che trascina tutto e tutti – disegna il suo percorso, traccia la sua strada e costruisce inesorabilmente l’unico esito possibile della vicenda.
Tuttavia non vi è compiacimento romantico (un titanismo che sarebbe stato logico e scontato, se l’improbabile soggetto fosse finito tra le mani di qualche musicista di area germanica e di ispirazione weberiana), vi è un tacito abbandono – pur se percorso da timidi moti di ribellione – una sorta di accettazione di un destino che sarebbe riduttivo identificare come meramente spietato o nemico: a nessun uomo è dato comprendere i disegni dell’Altissimo o penetrare i misteri della Divina Provvidenza. A Leonora non resta, dunque, che affidarsi alla Madonna, confidando in un senso ultimo della sua vicenda. Una provvida sventura di manzoniana memoria? Non stupirebbe: è nota l’affinità tra Verdi e Manzoni. E proprio La Forza del Destino rappresenta la più manzoniana delle sue opere (il compositore non volle mai accostarsi ai Promessi Sposi, pur se richiesto in tal senso, sicuramente per timore reverenziale e, forse, proprio perché già nel suo catalogo vi era un titolo assimilabile, per contenuti e tensione spirituale, al capolavoro dello scrittore milanese). Dopo aver cagionato, seppur indirettamente, la morte del padre, dopo essere stata, da questi, maledetta in punto di morte, fuggita dalla casa paterna, braccata dal fratello in cerca di vendetta (o di giustizia?), scampata fortunosamente ai sospetti di quest’ultimo (e dalla morbosa curiosità di un’umanità variopinta e meschina incrociata in una sordida locanda), desiderosa solo di espiare le proprie colpe (vere e presunte), Donna Leonora di Calatrava, rampolla di nobilissime origini e ora caduta nella disgrazia più misera, in preda a rimorsi e rimpianti (tornano in mente alcuni versi dell’Adelchi di Manzoni: te collocò la provida/sventura in fra gli oppressi/muori compianta e placida/scendi a dormir con essi/alle incolpate ceneri/nessuno insulterà), cerca riparo e rifugio, nella fede cristiana e nelle silenziose celle di un convento. Il tema del destino apre la scena: terribile, cupo e incalzante. Poi una calma improvvisa e inquieta, spezzata dal canto di Leonora, “Son giunta”: di nuovo il tema del destino è ripetuto, ma in modo del tutto differente, quasi un sospiro di sollievo, dopo l’affanno della fuga. Un sollievo momentaneo: perché al proprio destino nessuno sfugge e l’apparente sicurezza del rifugio – dove la sventurata pretendeva di fuggire al mondo e trovare, finalmente, pace – diverrà presto, teatro del compimento del disegno divino, del destino, della Provvidenza. Il recitativo alterna p e f, a rappresentare ansie, paure e sollievo: Leonora ricapitola la sua vicenda, il fratello che la cerca, il destino incerto dell’amato Alvaro. Contrasti di sentimenti e contrasti nella dinamica: la scrittura verdiana è ricchissima di segni d’espressione, atti a dipingere i sentimenti interni della protagonista (che qui, più che altrove, è chiamata a “recitare con la voce” senza lasciarsi andare a facili esteriorizzazioni o a eccessi di effettacci). “Grazie a Dio, estremo asil questo è per me”, un senso di sollievo nel p imposto al canto e al morbido tessuto orchestrale. “Son giunta!… Io tremo! La mia orrenda storia è nota in quell’albergo e mio fratello narrolla! Se scoperta m’avesse”, la voce di Leonora si intreccia alla ripresa (di nuovo) del tema del destino, in un incedere incalzante sino all’esplosione in ff “Cielo! Ei disse, naviga vers’occaso Don Alvaro! Né morto cadde quella notte in cui io, io del sangue di mio padre intrisa, l’ho seguito e il perdei”, e continua sempre più agitata, in un continuo alternarsi di contrasti “ed or mi lascia, mi lascia, mi fugge!”, un sussulto, un grido disperato: un SI acuto in f che si spegne poi nel p di un lento morendo, che suona come una sconfitta, “Ohimè, non reggo a tant’ambascia!”.
Verdi dipinge, dunque, un recitativo di grande efficacia teatrale, in pochi gesti, in pochi versi, riassume la vicenda e precipita l’ascoltatore nella più profonda intimità degli ambigui sentimenti di Leonora (amore e odio, speranza e colpa). Una delicata introduzione sulle note malinconiche di flauto e clarinetto, conde all’aria: allegro moderato, come un lamento. La partitura segna pp. Si apre un canto che è come una preghiera: le frasi sono legate e le forcelle movimentano il brano, mantenuto per lo più in piani e pianissimi, anche se è ben precepibile un movimento ondeggiante e continuo che conduce ad un lento crescendo.
“Madre, Madre pietosa Vergine, perdona al mio peccato, m’aita quell’ingrato dal core a cancellar” (ma davvero Leonora vorrà dimenticarsi dell’amore di Alvaro?), “in queste solitudini espierò l’errore…”. Infine “pietà di me, pietà Signor” conduce al f e poi al tipico sfogo in maggiore: con passione indica la partitura, “Deh non m’abbandonar Signore, deh non m’abbandonar. Pietà, pietà di me Signor” su di un tremolo di archi che accompagna la voce in un ultimo crescendo e in un diminuendo finale a simboleggiare il sospiro della disperazione, sino a spegnersi nel suono d’organo che accompagna il canto mattutino dei frati: come a rappresentare i definitivo abbandono di Leonora alla Provvidenza Divina. Ora il canto sommesso e implorante si intreccia alle litanie che provengono dalla chiesa “ah, que’ sublimi cantici dell’organo i concenti, che come incenso ascendono a Dio sui firmamenti, ispirano a quest’alma fede, speranza e calma” accompagnato dall’organo e dal coro fuori scena. Una breve transizione di recitativo porta alla ripresa del tema principale in maggiore: sfogato con ancor maggiore passione e slancio lirico, quasi trasfiguaro in una sorta di estasi mistica, “non mi lasciar, soccorrimi, pietà Signor, pietà. Deh non mi abbandonar, pietà di me Signor”, stavolta, oltre al tremolo degli archi si inserisce il canto dei frati, quasi di contrappunto a Leonora.
Grandi protagoniste delle scene liriche negli anni ’50, e interpreti celebrate del ruolo, due cantanti tra loro diversissime per timbro, temperamento e approccio al personaggio: Renata Tebaldi e Leyla Gencer. Entrambe si propongono di affrancare Leonora (e Verdi in genere) da quell’interpretazione che ancora risentiva di certa estetica verista, tutta volta a cercare un’artificiosa drammaticità nel canto del personaggio verdiano, risolvendone, spesso, la purezza e nobiltà vocale, in un declamato dalle tinte forti, corrispondente, certo, al gusto dell’epoca, ma forzate o inadeguato al tipo di scrittura. La Tebaldi impone, innanzitutto, una lettura estremamente lirica, morbida, delicata. Il recitativo iniziale è risolto nel pieno rispetto dei segni verdiani (come al solico ricchissimi e dettagliati) senza l’ombra di forzature o eccessi, sino a sfociare naturalmente nell’aria: ugualmente risolta nell’assoluto rispetto della scrittura. Si ascolti il fraseggio morbido che denota una piena padronanza del legato, o le forcelle eseguite con perfezione letterale che movimentano il canto senza mai forzarlo. Qualche lieve durezza nel SI acuto è ben poca cosa rispetto allo sfogo vibrante eppur misuratissimo del “deh non mi abbandonar”, tenuto in un unica frase perfettamente legata e sostenuta da un controllo di fiato eccezionale, in cui si stagliano i LA acuti, come scolpiti nel marmo. Il timbro puro e cristallino della Tebaldi, disegna una Leonora fragile e angelica, vittima degli eventi più che di sè stessa, penitente più che peccatrice. Diversissimo il personaggio delineato dalla Gencer: molto più drammatico e caricato. Per usare una metafora manzoniana si potrebbe dire che ricorda più la Monaca di Monza, mentre la Tebaldi assomiglia a Lucia. Fin dal recitativo emerge la diversità dell’approccio: innanzitutto i segni verdiani vengono rispettati meno fedelmente, forcelle, legati piani o forti, vengono rivisiti in funzione dell’interpretazione (risentendo, certamente, delle scelte in tal senso, del concertatore: ben identificabili in tutto il resto dell’esecuzione). La Gencer indulge in qualche eccesso veristeggiante di troppo (un declamato ai confini del parlato, in diversi momenti) e mostra alcuni limiti vocali: nell’acuto e nelle note di passaggio (il SI e i LA sono viziati) e nei bassi fa la sua comparsa qualche suono gutturale. In compenso il centro è ricco e corposo e regge assai bene l’arcata melodica verdiana. Purtroppo l’eccesso drammatico compromette in parte la tenuta dei fiati: il “deh non m’abbandonar” non rispetta la legatura prescritta e viene interrotto nel suo continuum da un brutto respiro che spezza la frase proprio nel mezzo. Splendido però il controllo nell’emissione, la corposità della stessa e il calore del timbro (non angelicato, ma fieramente drammatico e ricchissimo di pathos tragico). Due interpretazioni differenti dunque, entrambe valide, anche se la prima appare più corretta e consona alla scrittura verdiana. Spiace, tuttavia, che accanto ad esse – almeno nelle performance da me ascoltate – vi sia la presenza di due tenori che per gusto, il primo, e carenze tecniche, il secondo, restano estranei alla poetica dell’opera: Del Monaco e Di Stefano. In particolare il secondo è, come Don Alvaro, sconfortante esempio di plateale malcanto: superficiale, approssimativo, tecnicamente sprovveduto, in evidenti difficoltà negli acuti (apertissimi) e del tutto alieno all’autentica nobiltà dell’accento verdiano.
Gli ascolti
Verdi – La forza del destino
Atto II
Son giunta!…Madre, pietosa Vergine…Chi siete?…Più tranquilla l’alma sento…Se voi scacciate questa pentita…Sull’alba il piede all’eremo…Il santo nome di Dio Signore…La Vergine degli Angeli
1953 – Renata Tebaldi (con Cesare Siepi & Renato Capecchi – dir. Dimitri Mitropoulos – Maggio Musicale, Firenze)
1957 – Leyla Gencer (con Cesare Siepi & Enrico Campi – dir. Antonino Votto – Tournée scaligera a Colonia)
1960 – Renata Tebaldi (con Jerome Hines & Salvatore Baccaloni – dir. Thomas Schippers – Metropolitan, New York)
Stupende interpretazioni quelle della Tebaldi e della Gencer, quasi due dioscuri. Devo dire che, per gusto personale, preferisco la seconda, corrusca, drammatica, pur con voce non adatta alla scrittura del personaggio di Leonora (onde alcune difficoltà nel reggere la tessitura e il dettato musicale dello spartito). Ho qualche dubbio sulle affinità Verdi-Manzoni… Forse delle consonanze, dovute alla temperie dell'epoca, ci sono… Ma in Verdi non vedo l'abbandono nella "provvidenza", la necessità dell'abbandono per trovare un senso alla sventura… Vedo più una sorta di ironia tragica: non ostante l'abbandono, succede quel che deve succedere. D'altronde il Requiem di Verdi, scritto proprio per Manzoni, è una sorta di inno al dubbio: c'è o non c'è qualcosa (ricordo le sottolineature del "Nihil" nel Liber Scriptus)… La fede nell'al di là può realmente porre un argine al deflagrare dell'essere umano nella morte? Non so… Manzoni, d'altronde, è l'autore di un'opera come "Osservazioni sulla morale cattolica" (qui difende il cattolicesimo dagli strali del Sigismondi… A differenza dello storico ginevrino, che riteneva il cattolicesimo la causa principale del ritardo dell'indipendenza italiana, Manzoni vede nel papato l'unico elemento di unità della cultura italiana [sic!])… Non so se Verdi l'abbia mai letta (ne dubito!), ma se guardiamo al duetto Filippo-Grande Inquisitore mi pare che la posizione di Verdi in merito al rapporto potere temporale-potere spirituale fosse piuttosto diversa!
al volo, ma dove, sia pur limitatamente al romanzo ed alle odi, don lisander inneggia al potere temporale. Dubito che un convertito (o riportato sulla buona strada per dirla secondo la tradizione) ad opera di giansenisti o almeno vicini al giansenismo potesse mai inneggiare al potere temporale della Chiesa,
Magari falsando la realtà storica perchè Federigo Borromeo nasceva e da Borromeo, feudatari per tacer del resto, ragionava.
E beh… Nell'opera che cito… Poi non mi pare che nel Romanzo condanni!!!! Non inneggia, ma non condanna… Ricordo poi che il c.d. giansenismo del Manzoni da molti studiosi oggi viene piuttosto ridimensionato… In fondo anche Don Abbondio, che non è personaggio certamente eroico, in fondo viene quasi giustificato per la sua pusillanimeria…
mi viene da sorridere pensando alla Tebaldi e agli anni 50 la grande rivalità tra i fans della Callas e della Tebaldi,sarebbe bello se ai tempi nostri ci fosse ancora tanto entusiasmo.
A Toscanini si sà piaceva tanto la Tebaldi da sopranominarla una voce d'angelo,bellissimo timbro,anche se non era in grado(per me) di cantare con la stessa qualità tutti ruoli che ha cantato la Callas,e non aveva l'intensità interpretativa di Magda Olivero. Della "Forza del Destino" c'è anche un bel dvd della recita dal san carlo di napoli del 58.In questi ascolti mi piacciono entrambe,anche se mi sembra che la Tebaldi stia di più nella parte come interpretazione.
Beh, Pasquale, la stessa cosa si potrebbe ribaltare a sfavore della Callas: si potrebbe dire che ugualmente non era in grado di cantare con la stessa qualità tutti i ruoli che ha cantato la Tebaldi. Ad esempio, la Forza della Callas è uno strazio, e la sua Aida non è certo un bel sentire (ho molto da ridire anche sulla sua Gilda, per non parlare della Butterfly)…
Avete visto cosa non erano gli anni '50 (e direi anche i '60)? E che belli i nomi dei tre magnifici direttori d'orchestra! Eh sì, cari miei, altri tempi davvero!
Ebbi il piacere – allora era un piacere ascoltare le opere e i cantanti in teatro – di ascoltare tutte e due le cantanti in teatro ma, purtroppo, non in questo ruolo.
La voce della Gencer era più "trasparente" di quella della amata Tebaldi. Ma ascoltare la facile voluminosità dei suoni di queste due artiste dal vivo ti dava un senso di trasporto e veniva naturale appagarle con applausi scroscianti ovunque possibile.
C'era una serietà ed umiltà di approcio alle opere e ai personaggi da parte degli artisti. Sapevano che dovevano soddisfare il pubblico in ascolto e non gli egoismi dei registi, che anche loro, a sua volta, lavoravano per il pubblico e non per la soddisfazione personale di aver fatto interpretare da un'artista un ruolo come voleva lui (…o lei)!
Questo ruolo (e anche l'intera opera stessa) è di uno spessore fenomenale. Anche le vostre discussioni portano dove non ci si pensa di mai arrivare parlando di opera lirica. E' bello e a volte anche istruttivo leggere le vostre conversazioni sapendole ispirate sia dal compositore che dall'ascolto dei brani. Questi ascolti, insieme all'opera, e i loro interpreti mi ricordano i discorsi del pubblico che una volta si sentivano durante gli intervalli nei teatri lirici di tutto il mondo.
Oggi si vive in stato confusionale durante l'intervallo perché si vorrebbe dire qualcosa ma si è tutti in imbarazzo. I cantanti certo non destono brividi (nel senso positivo, s'intende). Gli allestimenti sembrano tutti "videogames" gialli per scoprire cosa sta succedendo e dove. Non si riesce mai captare un discorso intelligente tra il pubblico. A volte si stava anche in silenzio, semplicemente ascoltando, con la certezza che alla fine qualcosa s'imparava. S'imparava e come!
Ma dove siamo arrivati oggi con queste idee moderne e aggiornamenti psicologici che cercano di farci imbevere a tutti i costi i dirigenti artistici e non dei teatri lirici come se per dire "Vedi come siamo intelligenti?"? Non è giusto!
Il giorno dopo le "prime" si leggono articoli sulla difesa degli allestimenti e sulla educazione mancata del pubblico che "osa" fischiare o protestare magari buando i geni che ci propongono come predicatori del "vero".
Temo però che ci stiamo avvicinado al momento in cui si protesterà a scena aperta e non si aspetterà il calo del sipario. Già si sentono le risatine dove invece si dovrebbe stare meravigliati e in silenzio. Se lo meriteranno. Il pubblico non ne può più. Tira una brutta aria.
Io resterò sempre deliziato dagli ascolti dei miei più cari e, oso dire, ultimi grandi interpreti della quasi perduta "Arte dell'Opera Lirica".
Io non ho avuto il piacere di assistere a serate del genere. Io riesco solo assaporare il gusto delle grandi interpretazioni tramite ascolti audio e, grazie a un pò di ripescaggio, qualche video dove si vede con quale serietà si proponeva "Musica"!
Non sono d'accordo con Velluti: se riduciamo i Promessi sposi a una mera bocciatura o approvazione di ogni singolo personaggio facciamo davvero un cattivo servizio a Manzoni. Ogni opera d'arte che si rispetti è e dev'essere molto di più, altrimenti riduciamo tutto a una mera tabella di valori della'turoe – che c'è di più noioso? Anche volendo leggere i promessi alla luce delle idee del Manzoni, come giustificare gli elementi positivi del libro, quali il Cardinale, l'Innominato e Fra' Cristoforo? SOno riconducibili per caso all'establishment ecclesiastico? A me sembrano figure ampiamente indipendenti e che coltivano una spiritualità tutta personale, indissolubilmente legata all'etica e alla prassi sociale, nel più alto senso.
Ma anche volendo dimenticare tutto questo, mi sembra puerile subordinare l'opera alle idiosincrasie dell'autore: dovremmo buttare a mare tutto l'ultimo Dostoevskij, inevitabilmente contaminato dalla sua svolta slavofila e antisemita… mi spiace, ma non ci starei…
mi permetto di dissentire anche dal giudizio sulla Callas: non è certo il suo ruolo più riuscito, ma nemmeno il peggiore. Ha problemi con gli acuti, alle volte è un po' slegata qui e lì, ma i centri e i gravi sono morbidi e sontuosi. Possiamo condannare qualche eccesso di drammatizzazione, ma non mi pare di molto inferiore alla Gencer. Continuo in ogni caso a preferir la Tebaldi.
Caro Silvio…oggi mi prenderò un pò di tempo per risponderti (e per rispondere a Velluti): circa i Promessi sposi, Manzoni e l'autonomia dell'opera d'arte rispetto a vizi e virtù dell'autore. Comunque sono d'accordo con te. Non però sulla Callas. Ti confesso che non l'ho mai apprezzata fino in fondo, preferisco altre cantanti in ciascuno dei ruoli per cui è giustamente celebrata. Non me ne vogliano i "vedovi", ma la Callas migliore si ferma – per me – ben prima del suo ingresso al Piermarini… Comunque, vi sono alcuni ruoli dove proprio non è all'altezza: tra questi, naturalmente per il mio gusto, Aida, Butterfly, Gilfa e Leonora. Se ascolti la Gencer (che comunque ritengo inferiore alla Tebaldi) ti si apre un mondo diverso, più complesso. Quello che non sento nella Callas è la cavata verdiana, la tenuta di quelle frasi lunghe e legate, diversissime dalle melodie "lunghe lunghe" belliniane e che richiedono un corpo ben maggiore, e molti meno vezzi o vizi da eccessi interpretativi (di cui la greca non fu certo scevra).
Duprez forse mi sono spiegato male,non ho detto che la Callas era superiore alla Tebaldi,volevo solo dire che la Callas ha avuto rispetto ad altri soprani quindi anche della Tebaldi un ruolo più universale,tanto è vero che sul blog avete scritto dei post dul prima e dopo la Callas.
Anzi qualche anno addietro ebbi a dire tramite un email è possibile che per i discografici esiste solo la Callas ci sono state anche tante altre cantanti che hanno fatto la storia dell'opera.
Certo la Callas ha avuto tanto merito di fare riscoprire opere ormai dimenticate da decenni,e anche un nuova impostazione nel canto.A me personalmente la Tebaldi nelle opere verdiane mi piace di più.Si dice che Toscanini piaceva tanto la voce della Tebaldi quando non piaceva quella della Callas,perchè diceva che aveva un timbro "sporco" la Callas è andata diverse volte per farlo convinto che cantava bene,alla fine Toscanini gli diede un ruolo nel Macbeth (Lady Macbeth)siccome Verdi per questo ruolo voleva un soprano con la vocalità un pò sporca gli ha detto brava,e al tempo stesso si è preso la ragione.
almeno cosi racconta l'anedotto..
Al di là degli aneddoti, ritengo che alcune cose come già detto siano censurabili nella forza del destino callasiana ma ci sia ben poco da invidiare alla Gencer: il modo non è quello adatto a Verdi, quando invece nel 51 in Messico per Traviata la Callas l'aveva ben trovato a mio modo di vedere, però c'è una voce enorme e ci sono dei centri e dei gravi splendidi e c'è l'interpetazione che può piacere o no, ma non è certo da buttar via. Non sto gridando al miracolo, solo non mi sentirei di dire che è un strazio, tutt'altro.