In attesa del 7 di dicembre, quando (sindacati permettendo naturalmente) la coraggiosa bacchetta di Barenboim si alzerà, per condurre l’orchestra del Teatro alla Scala sugli impervi sentieri di una partitura di gran lunga superiore alle sue odierne capacità (è la stessa orchestra, infatti, che mostrò palesi difficoltà già con il Candide, figurarsi con le complesse ed estenuanti trame musicali del Tristan), può essere utile una riflessione sull’opera.
Tristan und Isolde viene composto da Wagner dall’autunno del 1857 all’estate del 1859, ma dovrà attendere il 10 giugno del 1865 per la prima rappresentazione, avvenuta a Monaco con la direzione di Hans von Bulow, il tenore Ludwig Schnorr von Carosfeld nel ruolo di Tristano, il soprano Malvina Schnorr von Carosfeld nel ruolo di Isotta e il mezzosoprano Anna Deinet in quello di Brangane. L’opera ottenne un successo di stima, lasciando freddo e perplesso un pubblico (tra cui un diffidente Bruckner – mentre Liszt, pure invitato, se ne resterà a Roma) non abituato a quella che la critica contemporanea salutava (o denigrava, a seconda delle posizioni ideali e degli intenti polemici) come “musica dell’avvenire”. Durante questa lunga e faticosa gestazione, Wagner venne influenzato da svariati elementi, che concorreranno tutti a definire l’aspetto finale del Tristan e che vanno considerati e approfonditi per comprenderne la portata rivoluzionaria ed individuarne il carattere e la corretta cifra ideale e interpretativa. Da una parte la lettura di Schopenauer, dall’altra l’amore passionale e clandestino per Mathilde Wesendonck (per la quale scriverà negli stessi anni il famoso ciclo di lieder che tanto ha in comune con il Tristan e che è essenziale per la piena comprensione dell’opera). Non appare opportuno in questa sede (per ovvi motivi di brevità) soffermarsi in modo analitico su ogni aspetto della partitura e della sua composizione. Meglio dunque, procedere per cenni e sfiorare soltanto le problematiche più rilevanti. Innanzitutto, dove si colloca il Tristan nell’opera di Wagner? Esso è allo stesso tempo un punto di svolta ed un unicum. Infatti, da una parte, con esso, Wagner abbandona definitivamente la distinzione aria/recitativo e la struttura essenzialmente strofica che ancora sopravviveva – seppure in modo sempre meno evidente – nei sui titoli precedenti (Lohengrin, Tannhauser, Der fliegende Hollander, e naturalmente Die Feen e Rienzi), ancora riconducibili all’opera romantica post weberiana: la musica fluisce ora senza soluzione di continuità, una sorta di melodia infinita che scorre libera e senza argine nelle continue modulazioni musicali e ritmiche. Dall’altra però, questa continuità, questo discorso ininterrotto si pone con caratteristiche uniche ed autonome rispetto a tutto il resto della musica di Wagner, precedente e successiva: vi è infatti, una prevalenza assoluta dell’aspetto melodico-vocale sugli altri elementi musicali. E’ ancora la fase “italiana” di Wagner, dove ancora si sentiva debitore della nostra tradizione vocale (del resto i cantanti per i quali scriveva allora, da questa scuola venivano formati), prima delle successive (e a dire il vero un pò triviali) prese di posizione e di distanza (si pensi allo sgradevole – e di pessimo gusto – attacco alla tradizione italiana e a Rossini in particolare, nell’atto II dei Meistersinger, dove viene citato, a scopo di derisione, “Di tanti palpiti”). Qui Wagner è ancora debitore di Bellini (di cui fu grande ammiratore: “Di tutte le creazioni belliniane – scrive Wagner – Norma è quella che, accanto alla più ricca pienezza delle melodie, unisce l’ardore più intimo con la verità più profonda” – opera, la Norma, per la quale lui stesso compose un’aria alternativa per Oroveso) e dell’astrattezza del belcanto. E proprio questa astrattezza si ritrova nel Tristan. E se ben si osserva – senza preconcetti o posizioni ideologicamente cieche – l’atmosfera notturna, il mistero, la malinconia di certe pagine, gli aspetti “lunari” sembrano trovare un palese e manifesto richiamo proprio in Norma. Così pure lo stesso trattamento delle linee vocali richiama apertamente il belcanto belliniano. Se poi si analizza il tessuto armonico orchestrale e strumentale, si noterà come anch’esso viene ricondotto al canto vocale: al contrario della Tetralogia (dove emerge il predominio dell’orchestra e dove le stesse voci vengono trattate alla stregua di strumenti musicali nell’intento di ricondurre il tutto ad un’unica grande costruzione sinfonica), nel Tristan, i temi musicali sono essenzialmente vocali (a differenza del sistema dei leimotive, sviluppato nei lavori successivi) e anche quando vengono affidati all’orchestra essi appaiono nati per la voce e solo successivamente trasferiti agli strumenti. Si può dire che mentre altrove in Wagner le voci “suonano”, qui l’orchestra “canta”. In questo senso Tristan und Isolde è opera che, più di qualsiasi altra del suo catalogo, va “cantata” e non declamata! E in ciò ovviamente risiede la sua difficoltà, la sua ambiguità, il suo fascino e anche il motivo dei molti fallimenti interpretativi, laddove invece, non se ne colga la natura.
Questa natura inafferrabile e ambigua è realizzata anche attraverso un trattamento orchestrale assolutamente rivoluzionario, fatto di cromatismo semitonale, armonico e melodico, di modulazioni tonali, di strumentazione complessa e ostica (si pensi al ruolo inusitatamente ampio delle viole, che all’epoca erano suonate da violinisti di terza scelta e che mai avevano avuto un ruolo di così ampio rilievo). Wagner anche nell’orchestrazione, coerentemente all’impianto “belcantista” del Tristan, opera in maniera opposta rispetto alle successive composizioni (appaiono molto lontane le compagini mastodontiche del Gotterdammerung, con le sue 6 arpe, 8 corni, 4 tube etc..), attraverso cioè un progressivo “svuotamento”, un alleggerimento del contorno per evidenziare l’essenzialità delle linee melodiche. Alleggerimento funzionale all’emergere della dimensione intima e individuale, sino ad ora assente dalle ampie costruzioni wagneriane: non ci sono imperscrutabili eroi, e il mito – seppur presente, anche se più come spunto narrativo che simbolico – lascia spazio al dramma tutto interiore dell’anima umana, contesa tra luce e buio, vita e morte, ragione e passione. Probabilmente influenzato da certe suggestioni di Novalis (si pensi agli Inni alla Notte: “fedele il mio cuore segreto rimane alla notte, e a suo figlio, l’amore che crea…”), Wagner contrappone la notte che diviene mistero e magia, luogo dell’anima ove la passione non ha freni e diviene lussuria (Tristan non parla di amore, ma di passione e di carnalità), ove la morale è sommersa dal piacere, alla prosaicità del giorno (che è razionalità, convenzioni, ruoli). Tutto scompare nella notte, tutto si mescola, tutto è lecito, i confini spariscono, la vista si annebbia, i sensi si risvegliano. E la morte alla fine altro non è che un’eterna notte, ove finalmente sfogare i desideri: un buio perpetuo in cui la passione, liberata dalla schiavitù della luce vive questi suoi desideri. La morte di Isolde non è che un atto sessuale in cui essa si perde nei propri sensi. Opera quindi del desiderio irrazionale e nascosto, opera dell’incomunicabilità, più vicina a Debussy che alla Tetralogia, e priva di ogni cedimento a certa retorica e manierismo esteriore. Attraverso questo complesso disegno di passioni non appagate, il direttore (e l’orchestra) è chiamato ad un compito difficilissimo. Sia a livello tecnico che interpretativo. Diversi quindi, sono stati gli approcci alla partitura, e diversi, di conseguenza gli esiti. Furtwaengler, ad esempio, attraverso tempi morbidi e meditati, e la ricerca di un suono rotondo e definito, tratteggia il suo Tristan come una sacra rappresentazione, senza però fraintenderne l’intimismo. Accentua il dramma della rassegnazione e dell’impotenza di fronte ad un destino che si figura avverso e nemico. Il finale è una alta trasfigurazione di tutti i sensi verso un ideale superiore fatto sì di sensualità, ma anche di pace e bellezza.
Solti (che non sembra molto a suo agio col mondo ideale evocato dall’opera) al contrario, ne evidenzia gli elementi più esteriori, i contrasti dinamici, il vitalismo di certe pagine. Risulta alla fine un pò manierato nella ricerca del mito a tutti i costi. Fa del Tristan una scultura di marmo, invece di un dipinto sfumato.
Kleiber ha della partitura, una visione che pare ispirata al Nietszche della “Nascita della Tragedia”, come un contrasto tra apollineo e dionisiaco. Un mare infinito che appare placido e uniforme, ma che in realtà è, sotto la superficie, agitato da correnti e vortici, e solcato da venti gelidi, pronto a sommergere e a scatenarsi con la potenza delle sue onde. E così la sua lettura: una apparente perfezione formale, una cura meticolosa di ogni dettaglio, di ogni sfumatura, di ogni pausa, che però sottintende l’agitarsi di passioni sopite, e che talvolta emergono con forza.
Barenboim, infine, riducele dimensioni, ne accentua il nervosismo, la problematicità, il senso di sconfitta, il pessimismo, si pone agli antipodi di Furtwaengler: quanto quello è sacrale e metafisico, questo appare laico, umano, materialista. Ogni dettaglio è sviscerato con diligenza maniacale, spogliato da ogni trascendenza. Una visione più “cameristica” della partitura. Ma oltre all’approccio direttoriale (e naturalmente, fortemente influenzato dallo stesso) vero centro della partitura, vero snodo, è la morte di Isolde, “Mild und Leise”: momento in cui tutto viene ricondotto all’unico esito possibile, ove tutto si scioglie e si libera. Ove la visione e l’interpretazione del direttore è chiamata al banco di prova. Luogo in cui si evidenziano i differenti atteggiamenti ideali: morte o nuova vita? Fine o inizio? La morte di Isotta è un lungo abbraccio che porta al trionfo del buio sulla luce: attraverso la morte, la passione si libera da ogni costrizione. E diviene splendente: la notte che risplende infuocata dai sensi. Ma solo lei lo vede questo fuoco, solo lei lo sente. Ancora l’individualità che emerge su tutto il resto. Queste sono le parole di Isolde, nella traduzione di Manacorda:
“Lieve, sommesso
come sorride,
come l’occhio
dolce egli apre…
lo vedete amici?
Non lo vedete?
Sempre più limpido
come esso brilla
e raggiante d’una luce stellare
si leva verso l’alto?
Non lo vedete?
Come il cuore a lui
baldanzosamente si gonfia,
e pieno e maestoso
nel petto gli sgorga?
Come alle labbra,
voluttuosamente miti,
un dolce respiro
lievemente sfugge…
Amici! Vedete!
Non lo sentite, non lo vedete?
Odo io soltanto
questa melodia
che così meravigliosa
e sommessa,
voluttà lamentosa
tutto esprimente,
dolce conciliante,
da lui risuonando penetra in me,
e verso l’alto si libra
e dolce echeggiando
intorno a me risuona?
Queste armonie più chiare
che mi circondano,
sono forse onde
di miti aure?
Sono forse vortici
di voluttuosi sapori?
Come esse si gonfiano
e mi circondano del loro sussurro,
debbo io respirarle,
prestar loro ascolto?
A sorsi beverle,
sommergermici?
Dolcemente in vapori
dissiparmi?
Nell’ondeggiante oceano
nell’armonia sonora,
del respiro del mondo
nell’alitante Tutto…
naufragare,
affondare…
inconsapevolmente…
suprema letizia!”
Come affronta Wagner questi versi? Innanzitutto il tempo: molto moderato, che firma l’intero brano, a volte accellerando e sostenendo il ritmo, a volte ritornando alla placida calma iniziale. Tempo di ampio respiro quindi, largo, comodo, mai affrettato. Si inizia in pp, con una frase legata, da tenere con un unico fiato: un sospiro, un sussurro, accompagnato dal tremolo dei violoncelli con sordina e dal clarinetto basso che raddoppia la frase, donandole una sfumatura di malinconica dolcezza. E’ poi la volta delle viole (sempre con sordina) e del clarinetto ad accompagnare il canto. Questo procede, attraverso un cromatismo che dona al brano instabilità e ambiguità tonale, e su di esso si innestano i corni e i violini (divisi in quattro parti) con sordina, a riecheggiare la frase iniziale (come se si ripetesse all’infinito nella mente di Isolde) in un crescendo che accompagna il crescere del canto fino al culmine, per poi spegnersi morendo, con dolcezza, sfumando nel cambio di tonalità. Qui la linea vocale si intreccia con le viole, i violini e i legni, con frasi ampie e trasognate. Tutto è pp, dolce, con molte forcelle, a movimentare la dinamica. E’ poi la volta di un lungo crescendo accompagnato dal tremolo degli archi, e che è un susseguirsi di amplissime frasi legate, dove dosare sapientemente i fiati per non spezzare la continuità del discorso musicale. Il tutto va eseguito dolcemente e con calma. Sul canto, modulato e sfumato, si innestano talvolta delle screziature, come degli scheletri di agilità belcantiste che ricordano l’astrattezza delle prime frasi di “Casta diva” (e qui emerge ancora tutto il debito di Wagner nei confronti dell’opera di Bellini). Gradualmente tutta l’orchestra viene coinvolta in queste ondate di crescendo e diminuendo, quasi a rappresentare il respiro affannato e stanco di Isotta, che procede rallentando, spegnendosi, al ritmo del suo cuore che anch’esso, lentamente, si spegne. E con il cuore il canto: le pause si fanno più ampie, le note di legni e ottoni vengono tenute lunghe, come un letto su cui appoggiare la voce, sostenuta appena dal tremolo degli archi e dal dolce sussurro dell’arpa, mentre clarinetto, oboe e corno inglese si scambiano frammenti di frasi. Si va verso la fine, “hochste lust”, “suprema letizia”: un ultimo e difficile salto di ottava verso l’acuto, pianissimo, dolce, un ultimo Fa da sostenere e smorzare, sino a spegnersi negli accordi finale, ancora un breve crescendo e un diminuendo, un ultimo brivido e, sul pizzicato dei contrabbassi l’immensa partitura sfuma nel buio notturno della fine, come la sua protagonista. Così scrive Wagner. Ma naturalmente ogni cantante l’ha reso con la propria sensibilità, è quindi opportuno un breve excursus tra le interpretazioni, vecchie e nuove. E parlando di Isolde non si può che cominciare con la Flagstad. Voglio considerare due incisioni: 1948 diretta da Issay Dobrowen e 1952 diretta da Wilhelm Furtwangler. In entrambe le versioni (la prima mostra una maggiore freschezza, mentre la seconda – con una voce appena più brunita – comunica una certa maggiore sensualità) la Flagstad fa mostra della purezza adamantina della sua linea vocale, della morbidezza dell’emissione, della sicurezza regale degli acuti, della perfezione del legato, del fraseggio sfumato, ricco e continuo. Un’Isolde “cantata” dalla prima all’ultima nota: una interpretazione che sottolinea soprattutto la musica e la sua nobiltà. L’Isotta della Flagstad è una dea celeste che si trasfigura verso un’idealità superiore: la morte non è che una metamorfosi. A questa visione altamente tragica (nel senso classico del termine), si può contrapporre l’Isolde “elegiaca” della Nilsson (diretta nel 1960 da Solti), risolta quasi esclusivamente nella bellezza del canto, qui sgargiante e perfetto – anche se talvolta appare un po’ troppo compiaciuto della propria perfezione. Qui la regina diviene l’eroina bellissima e seducente che non ha bisogno di filtri o magie (che sembrano quasi dei pretesti) per far scaturire la passione di Tristan. Unico appunto che si può muovere è l’orchestra a volte soverchiante, dovuta più che altro alla lettura di Solti che accentua in modo spesso invadente l’aspetto strumentale. E’ poi la volta di Margaret Price, che incide nel 1982 con Carlos Kleiber: la voce è angelica, rotonda, levigata, perfetta nel seguire ogni dettaglio della complessa costruzione wagneriana. Splendido il legato e il fraseggio, l’acuto è sempre sicuro e tagliante, senza perdere mai la morbidezza. Un’Isolde giocata sulle mezze voci e il canto rifinito, nell’ottica dell’alleggerimento per evidenziare l’assoluta bellezza del canto. Una visione fortemente lirica, malinconica e romantica. Un’eroina non più tragica o divina o sovrannaturale, ma fragile e terrena, aristocratica e decadente, quasi trasparente nella sua semplicità. L’Isolde della Price appare fin da subito consapevole della propria morte d’amore, e comunica – in questa accettazione schopenaueriana e buddhista – un senso di pace e rassegnazione, solo talvolta screziato dalla sofferenza e dal dolore: il dramma è intimo e divora da dentro. Diametralmente opposta la lettura della Meier, con Barenboim nel 1994 (entrambi saranno i protagonisti della prossima apertura scaligera, 13 anni dopo quest’incisione, ed entrambi con grossi problemi da affrontare: lei un’usura vocale ed un innegabile decadimento, già messo impietosamente in evidenza nell’ultimo Lohengrin scaligero; lui un’orchestra assai decaduta e priva di disciplina e professionalità che da almeno 3 anni non manca di mostrare ad ogni sua esibizione, evidenti problemi di tenuta e affidabilità). L’Isolde della Meier, che sembra rifarsi alla discutibile lezione della Modl, è una potenza infernale: la voce è più scura, ambrata, nervosa. Gli elementi drammatici vengono accentuati. Il senso di dolore, rabbia e morte lascia poco spazio al compiacimento estetico dell’assaporare la bellezza musicale. Il canto appare sforzato – e questo, purtroppo, non solo per scelte interpretative – l’acuto è meno brillante, più faticoso. Già allora la Meier correva pericolosamente su di un filo, temo che oggi faticherà a portare a termine il ruolo “cantando” (ecco perché credo che assisteremo ad un’Isolde “declamata” – strana e consueta via di fuga quando l’usura comincia a farsi evidente e la tecnica inizia a scemare – in barba al carattere essenzialmente vocalista dell’opera). Chi è dunque Isolde? Dea tragica, eroina bellissima, angelo, femmina sensuale, strega infernale? Vittima o artefice del suo destino? Creatura malinconica e decadente o demonio egoista guidato solo dalle sue passioni? Venere o Elisabetta? Redenzione o condanna? Forse è tutto questo. Forse tutti questi caratteri coesistono nello stesso personaggio. Forse è proprio l’ambiguità e l’inafferrabilità a rendere possibili tutte queste sfaccettature interpretative. Interpretazioni tutte legittime, certo, a patto di non tradirne l’essenza vocalista (provocatoriamente direi belcantista). Ecco il punto: il Tristan und Isolde va cantato. E cantato per davvero (pensando anche a Bellini e a Norma), senza le facili vie di fuga di un declamato mal inteso che sfocia nel parlare, o di una teatralità soverchiante, finalizzata solo a mascherare le mancanze vocali. Non ci possono essere scappatoie, se al canto si sostituisce la parola, non si regge, nessuno regge: né il cantante né il pubblico!
Gli ascolti
Mild und leise
Félia Litvinne – 1902
Lilli Lehmann – 1907
Lillian Nordica – 1911 – Cilindri Mapleson 01/1903 & 02/1903
Melanie Kurt – 1911
Olive Fremstad – 1913
Amelia Pinto – 1914
Nanny Larsen-Todsen – 1928
Meta Seinemeyer – 1928
Germaine Lubin – 1930
Giuseppina Cobelli – 1930
Frieda Leider – 1931
Kirsten Flagstad – 1936
Marta Fuchs – 1938
Gertrud Grob-Prandl – 1953
Birgit Nilsson – 1959
complimenti per questi saggi-trattati di grande rilievo. Ho molto apprezzato e posso dire di avere ora qualche strumento in più per valutare il prossimo tristano alla scala. grazie.
Grazie per questa collezione bellissima di Isotte, soprattutto per la Lubin che mi piace tantissimo.
Ale – http://www.zenpercaso.splinder.com