L’acqua alta non ha impedito la prevista inaugurazione del teatro la Fenice per la stagione 2019-’20. L’evento meteorologico è diventato quasi un punto di vanto per politica ed istituzioni musicali, che ripetono da giorni “ce l’abbiamo fatta”. Poi bisogna vedere come ed allora acqua granda, inondazioni, impianti elettrici sommersi dalle salmastre acque lagunari, quadri elettrici, pompieri nulla possono, almeno per chi abbia autonomia di pensiero e di ascolto a raddrizzare una modesta esecuzione del capolavoro verdiano. E premetto titoli come il presente piuttosto che Vespri o Forza del destino non ammettono mezze vie. E’ stato un don Carlo privo di nerbo, tanto inutilmente calligrafico quanto svisato da inutili clangori quasi che i due estremi della dinamica potessero compensare carenze della direzione e soprattutto della compagnia di canto. Da tempo lentezza di tempi, l’esaltazione di taluni dettagli orchestrali sono la caratteristiche del Verdi del maestro Chung. L’abbiamo apprezzato nel Simone veneziano di qualche anno fa, ma quel che basta o può bastare nel Simone è insufficiente per la magniloquenza, la grandezza dell’affresco storico che è il Grand opéra. Simone guarda al grand-opéra, don Carlos, ancora più dei Vespri, è la più completa realizzazione del maestro italiano di questo genere. Per chiarire sulla difficoltà don Carlos non è solo il dramma di un amore impossibile e contrastato e di sapore incestuoso, di scontro fra Stato e Chiesa, di sussulti insurrezionali e di lotta politica fra le diverse anime dell’impero, di oppressione dettata dalla religione: è tutto questo insieme e privilegiare una chiave di lettura a discapito dell’altra significa offrire una lettura parziale ed incompleta del titolo verdiano. In questo errore concettuale incorse, sulla scorta di chiare ideologie, un glorioso allestimento del capolavoro come quello scaligero del 7 dicembre 1977, che pure disponeva di altri elementi in palcoscenico e nella realizzazione della parte visiva.
Il grand-opéra, come il romanzo storico vituperato, proprio da coloro che sovrintesero a quel don Carlo scaligero per il timore dell’odor di incenso, quale “misto di realtà ed invenzione” è un genere proprio e particolare, che ha peculiari esigenze vocali ed orchestrali. I clangori, che chiudono il nefasto incontro/scontro Eboli Posa Carlo, o che connotano l’intero quadro dell’autodafé o la apparizione dell’inquisitore, che soprappone sé, ovvero l’autorità ed il potere della Chiesa, a quello del sovrano, alla fine del quarto atto per sedare la rivolta non sono sufficienti a recuperare il dramma e la grandiosità dell’opera che è di tutte le situazioni drammatiche che rifuggono da qualsiasi richiamo o cenno di realismo.
Inoltre le carenze della compagnia di canto hanno inficiato i momenti lirici ed amorosi dell’opera. Le peggiori in campo sono state le voci femminili. Veronica Simeoni soprano lirico, smerciato per mezzo acuto o Falcon, è ormai esausta e consumata. Imbarazzante la canzone del velo prodigio di suoni chiocci e vuoti complice la scrittura talora bassa e centrale, lievemente meglio la stretta del terzetto e la prima sezione del “don fatale” che non richiede legato cui è seguita, però, una infelice sezione conclusiva dove la cantante era in palese difficoltà per la difficoltà di legare in zona medio alta oltre che di emettere acuti che sono propri del soprano.
Peggio e di molto Maria Agresta. Nell’Ottocento e nei primi del Novecento per cantanti della carenza tecnica della Agresta si utilizzava il termine cantar falso che era un elegante modo per indicare il canto privo del sostegno della corretta respirazione professionale, che impediva saldezza e voce piena nella zona acuta della voce, sostituiti da suoni falsettanti, vero legato nelle frasi di ampio respiro che Verdi impone ai soprani drammatici, categoria cui rientrano la Valois, Aida, Leonora di Calatrava ed anche Amelia Boccanegra. Abbiamo sentito una Elisabettina tutta al ribasso e dedita alla sottomissione e remissività sotto il profilo interpretativo; in difficoltà palese su frasi acute e legate come “ritorna al suol natio” dell’aria del secondo quadro del primo atto o sugli attacchi in zona grave del “tu che le vanità”, soverchiata dall’orchestra tutt’altro che invadente del maestro coreano nel concertato dell’autodafè ed alle battute “si che un tuo accento” del duetto finale con don Carlo, che richiederebbero l’ampiezza e la penetrazione del soprano drammatico e genuino slancio, pigolante al risveglio dallo svenimento nello studio di Filippo come una modesta Mimì. In tutta la serata dall’ascolto radiofonico non si è mai sentito un piano, che fosse “a fuoco”, un acuto penetrante e risonante ed un accento scandito. Per capire e distinguere il cantare con la giusta dinamica e l’adeguato accento propongo un reperto archeologico Adelina Agostinelli (1882-1954), che non era un drammatico tipo Russ o Mazzoleni, ma un lirico dedita anche a Puccini, nella grande aria di San Giusto. Il soprano bergamasco assurge a modello insuperabile ed ineguagliabile confrontato con chi si arrabatti in grazia di tecnica falsa, la cui fonte è ben nota.
L’arte dell’arrangiarsi -male- è stata ben rappresentata da Alex Esposito nei panni di Filippo II. Siccome il mezzo è modestissimo per natura e per metodo di canto (la voce per trovare un po’ di volume è tutta bassa di posizione) il cantante è inudibile nei concertati o negli ensemble ovvero nella scena dell’autodafè piuttosto che nel quartetto dove, fra l’altro è poco distinguibile dal baritono (anch’esso dedito al suono in posizione bassa) e non brilla neppure per finezza di espressione al grande monologo del quarto atto ed al duetto con il marchese di Posa del primo, come uso ed anche necessità per i Filippo di limitati mezzi. In compenso alla “pietà d’adultera consorte”, che dovrebbe essere cantata con tanto di salita ad un re acuto abbiamo il ricorso al parlato e, per giunta di cattivo gusto. Il tasso di regalità di questo Filippo II latita e per schiarire dalla encomiastica faciloneria di taluna critica ricordo che i Filippo di limitato mezzo vocale, capaci di compensare con accento e idee interpretative rispondevano ai nomi, di levatura storica, di Pol Plancon, Vanni Marcoux e, forse Samuel Ramey. Ma, ripeto stiamo parlando, per tutti e tre i bassi nominati, di punti di riferimento assoluti del canto e dell’interpretazione.
Lo schieramento veneziano era di livello migliore per quanto concerne protagonista ed il Marchese di Posa. Piero Pretti, al suo debutto nel ruolo, quanto meno ha sfoggiato suoni abbastanza facili e torniti in zona medio alta senza scivolare sui giuramenti di fedeltà alla Fiandra ad esempio, certo il personaggio richiederebbe uno squillo ed una lucentezza in zona alta di cui Pretti non è dotato ed anche il fraseggiatore non va oltre la convenzionalità. Corretto e convenzionale, cantato senza berci (salvo quello di tradizione ad “orrenda orrenda pace” che ormai è di inattaccabile tradizione come la cadenza col flauto di Lucia) ed anche senza la nobiltà e lo spirito di patria e libertà, che sono la sigla del personaggio, il marchese di Posa di Julian Kim.
Per fortuna, credo di poter affermare, era solo una trasmissione radiofonica perché le immagini fotografiche, ma confidiamo nel video trasmesso da Rai 5, perché di attualizzazione delle opere, di abiti da sartina di casa di ringhiera tutti noiosamente uguali, di sacerdoti in ruolo di boia e killer per spiegare che la Chiesa era cattiva e serva del potere ne abbiamo le … piene. Basta andare sul sito del Gran Teatro la Fenice per pascersi dello “stupidario” registico rabberciato da Robert Carsen.
Siccome il melodramma ed il grand-opéra prima di altri, forse, si realizza non con un re trasformato in romano pontefice, ma con le voci, le buone orchestre e le realizzazioni interpretative, derivate da un grande controllo tecnico, propongo un vero reperto archeologico dove le parole sopra spese vengono ad opera di Bruno Walter, Alexander Kipnis e Alfred Jerger.
E’ un ascolto precario, ma l’orchestra che sottolinea il peso e la possanza dei personaggi, il fatto che l’inquisitore sfoggi un colore più chiaro di Filippo, ma un fraseggio più attento e analitico perchè l’inquisitore non grida e non detta ordini, ma “induce” sino a quando non presenta il conto (“A te chieggo il signor di Posa”) e metta in ginocchio Filippo sono aspetti, che debbono far riflettere un ascoltatore, ricusi di essere solo un viaggiatore domenicale da teatro a teatro, lasciando a casa cervello ed orecchie.
ho ascoltato don carlo per radio e sono d’accordo sul v/s giudizio, alla fine è stato detto qualcosa sulla regia e l’indomani ho voluto leggere recensioni complete( spero presto di leggerle qui) : bene , al peggio non c’è mai fine, scopriamo che per il regista Posa è un uomo dell’inquisizione, si finge morto e viene aiutato a rialzarsi dall’inquisitore che lo ringrazia e gli stringe la mano, infine nell’ultima scena l’inquisizione spara a don carlo e filippo e posa viene incoronato ; nella rececensione che ho letto in internet il tutto è approvato e esaltato.
queste pagliacciate non le sapevo. Se qualcuno osasse far finire il Lohengrin con il protagonista che se ne va con Ortrud scoppierebbe la terza guerra mondiale con invasione del paese di origine del regista !
E invitare i registi “di un certo genere” che vanno ad esprimere il loro “genio” alla Fenice (e non solo loro) a fare un giretto culturale-storico in Laguna a vedere il Canal Orfano e lì completare spontaneamente la visita secondo le antiche usanze della Serenissima Repubblica, come facevano in illo tempore molti “visitatori” condotti in detto ameno loco, non sarebbe una buona idea? Essi farebbero cosa buona, utile, giusta e giovevole assai all’umanità, almeno a quella parte di umanità costituita dai frequentatori dei teatri d’opera.
Forse vado fuori argomento, ma leggevo oggi un’intervista alla regista dei Vespri siciliani che inaugurerà la stagione di Roma. Ad un certo punto la signora risponde così ad una domanda:
” D. Un’opera corale, come i Vespri, è più complicata da interpretare?
R.«Verdi sceglie di intitolare l’opera con il nome di un gruppo umano e di affidare al coro un ruolo centrale. Io ho lavorato sulle varie sfaccettature che portano a fare e non fare la rivoluzione. L’amore, i legami familiari, gli interessi…”.
I Vespri un gruppo umano??? Capite a che livello siamo? Se il livello culturale degli addetti ai lavori è questo di cosa stiamo parlando???
Quelli come me sanno che i Vespri si fanno se hai un’orchestra di qualità, un buon basso ed un buon baritono ed un tenore ed un soprano straordinari per tecnica di canto e gusto visto che i Vespri vennero scritti per dei fuori classi Sofia Cruvelli specialmente. Sarà mica un caso che duchesse Elena complete vocalmente rispondessero ai nomi di Maria Callas ed Anita Cerquetti
“Sarà mica un caso che duchesse Elena complete vocalmente rispondessero ai nomi di Maria Callas ed Anita Cerquetti”
oltre a Cheryl Studer, naturalmente.
Per quanto riguarda questo Don Carlo ho ascoltato per radio il terzo e quarto atto: riuscire a rendere noioso un vero capolavoro come questo è un delitto non da poco. L’unico salvabile il baritono, il resto tutto da dimenticare, ivi compreso Chung che – anche all’ascolto dal vivo – negli ultimi anni mi pare abbia perso molto smalto.
guarda che alla fin dell’opera la duchessa Elena ossia Cherilona fece la fine dei francesi!!!!
Queste cose paiono piacere assai al sovrintendente Ortombrina, che ha autentico culto per i registi astrusi e tedescheggianti, almeno apparentemente…
Della serie cosa farebbero i veneziani per l’opera…d’altra parte è lo stesso pubblico che quando cantò esposito l’aria del catalogo credo batterono le mani prima della fine? Giustamente dico perché erano gli stessi che un pò di tempo fa costruirono una gondola ad hoc solo per la Maria Malibran, almeno così pare. Almeno il teatro lo hanno ricostruito senza quelle tribune assurde da stadio che fanno oggi senza capire che il teatro all’italiana ha una ragione acustica e funzionale prima che estetica.
Che meraviglia la voce della agostinelli!!!! Brava fino alle lacrime. Trovo assurdo scagliarsi contro coloro che dovrebbero essere dei punti di riferimento. Il personaggio vive con lei quando canta non é una semplice suggestione é realtà!
Riporto per mero dovere di cronaca il parere esternato sul suo profilo aperto di facebook un noto musicista e accompagnatore operistico sulla serata in questione.
“Venezia è risorta alla vita musicale con la bellissima edizione di Don Carlo. Dobbiamo ringraziare tutti i lavoratori del fantastico Teatro,dal Sovrintentente Ortombina in giù,tutti uniti nel’ meritatissimo applauso finale. Voglio sottolineare la grande fortuna del Teatro nell’avere il Maestro Chung probabilmente il più grande direttore di oggi in campo mondiale. Mi ha ricordato spesso il mitico Von Karajan nella ricerca del suono, nella stretta simbiosi con i cantanti,mai sacrificati a sadiche ubbie filologiche, liberi di tenere gli acuti senza le prevaricazioni di tanti Maestri grandi o piccoli di oggi. E ottimo il cast, specie nel settore maschile”.
Ho riferito e sono a posto.
Diciamo che ha sentito il don Carlos dei sogni datato 1936 diretto da Bruno Walter e con Kirsten Flagstad, Ebe Stignani, Tancredi Pasero, Alexander Kipnis, Carlo Galeffi, la partecipazione straordinaria di Emanuel List, come Frate e lascio la scelta per il protagonista fra Rosvaenge, Wittrish, Thill, Ansseau,Lauri Volpi, Wolker e il nostrano Francesco Merli
Ma no, non era List, era Josef von Manowarda!
Ah tu hai il nastro della pomeridiana 😇