Estremamente interessante la riproposizione, in edizione critica, al Regio de “I pescatori di perle” di Bizet, che mancava dalle scene torinesi dal ben sessant’anni, allorché, nel 1959, Oliviero de Fabritiis, al Teatro Nuovo, si trovò a dirigere Enzo Sordello, Renata Scotto ed Alfredo Kraus. Dopo c’è stata solo un’edizione in forma di concerto alla RAI quattro anni fa, sotto la bacchetta di Ryan Mc Adams, direttore anche dell’attuale esecuzione del Regio.
Si sa che “I pescatori di perle” è un’opera che si dovrebbe fare quando si riesce a trovare un tenore in grado di cantare Nadir, dato che i punti dello spartito più attesi dal pubblico (i duetti del primo e del secondo atto e, soprattutto, l’aria) lo vedono chiamato direttamente in causa. A Torino, vedendo le cose dal di fuori, sulla base di quanto si leggeva negli annunci, viene da pensare che vi debbano essere stati dei problemi. C’è da presumersi che si sia scritturato un qualche tenore che poi abbia dato forfait (lo ripeto, questa è solo una presunzione, pur se basata su circostanze note, precise e concordanti), se è vero che la prima versione del programma della stagione annunciava l’opera con l’interprete di Nadir ancora da definire (e, come si è detto, è da presumersi che la direzione artistica del Regio non sia così folle da programmare “I pescatori di perle” per l’inaugurazione della stagione senza avere un tenore scritturato). Si è, quindi, trovato il giovane tenore francese Kévin Amiel, che, peraltro, è risultato l’elemento più debole della distribuzione. Ovviamente fra tutti era il cantante con la migliore pronunzia francese, aveva una qual certa eleganza, ma era proprio deboluccio, sì che i momenti topici dell’opera affidati a Nadir non venivano fuori. Non che per Nadir ci voglia un tenore di forza, ma un tenore lirico puro sì, basta sentire Gigli cantare “Mi par d’udire ancora” per capire come la parte debba essere eseguita. Nel nostro caso il tenore era proprio un tenorino, con una voce piccola, un poco problematico in acuto, di scarso corpo e senza particolari slanci.
Meglio, come Zurga, Fabia Maria Capitanucci, che per le prima tre recite dell’opera è stato sostituito da Pierre Doyen, a causa dei soliti problemi stagionali di salute. La pronuncia francese è perfettibile, non c’è forse la levigatezza che ci si potrebbe attendere da un baritono da opera francese, ma la voce è tutto sommato salda ed il personaggio viene fuori.
Più che sufficiente nei brevi interventi di Nourabad il basso Ugo Guagliardo.
Di tutti la migliore è stata l’interprete di Leila, il soprano Hasmik Torosyan, anche quella apparentemente più ferrata tecnicamente. La voce non è affatto immensa, è quella di un soprano leggero, che ha in repertorio ruoli come Musetta, Amina, Marie della Fille du régiment, Norina, Susanna, Fiorilla. Però l’uso della voce è corretto, c’è una certa facilità anche nel prendere l’acuto e nel fraseggiare. Gli applausi maggiori della recita si sono, infatti, avuti dopo “Comme autrefois” ed il duetto Leila Zurga del terzo atto. Significativo anche il fatto che il soprano è stata l’ultima, alla fine dell’opera, ad apparire al proscenio per ricevere gli applausi finali del pubblico, che sono stati i più calorosi.
Le prestazioni di orchestra e coro del Teatro Regio sono nella media di quelle cui ci hanno abituato, cioè di livello decisamente elevato. Bravo il coro (diretto dal M° Andrea Secchi) nei suoi non semplici e interventi. Precisa l’orchestra sotto la bacchetta del M° Mc Adams, abile, esperta ed attenta a dosare i livelli sonori, sì che i cantanti non erano mai coperti.
L’opera era eseguita nella edizione critica a cura di Brad Cohen.
Piacevole lo spettacolo a firma del duo francese Julien Lubek e Cécile Roussat, già autori di una azzeccata messa in scena di “Didone ed Enea” alcuni anni fa. Spettacolo alieno da riletture o follie “alla tedesca”, basato su quella che poteva essere l’idea dell’esotismo in Europa nell’800, con costumi coloratissimi, fondali blu mare o rosso fuoco a seconda del momento, archi indiani stilizzati. Non troppo azzeccate, invece, le coreografie. Particolare il colore rosa confetto che, per le luci, ad un certo punto viene a prendere la roccia su cui sta Leila.
Complimenti infine per colui che si è messo a parlare al telefonino durante una pausa del duetto del terzo atto. Anche se al livello di quello che tanti anni fa, durante il secondo atto de “La forza del destino”, proprio nel bel mezzo del brano per organo e violino che introduce la scena della vestizione di Leonora, nel silenzio della sala si era messo a rispondere al cellulare che squillava, avvertendo il suo interlocutore che si trovava al Regio a sentire l’opera e che lo avrebbe chiamato più tardi…
(Recita di domenica 20/10/19)
2 pensieri su “Le cronache di Don Carlo de Vargas: Fine settimana lirico in Piemonte, parte seconda. Pescatori di perle a Torino”
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Bellissimi ascolti. Mi spiace solo che tu non abbia citato la magnifica esecuzione di Roberto d’Alessio tenore oggi dimenticato…
Concordo sul giudizio relativo all’allestimento gradevole; più bello ed elegante nel primo atto (d’altronde molto “semplice”) mentre un po’ più ingenuo e naif al secondo e terzo atto.
Il livello su cui si è attestato il canto mi è parso invece più basso di quanto qui esposto. Sarà che ogni recita è diversa, ma nella mia la prova di Capitanucci – a detta anche di molti altri uditori – mi è parsa peggiore: innanzitutto lo stile francese (pronuncia, fraseggio, ecc.), che non possiede. Anche la Ciofi è cantante italiana che canta in francese con una pronucia non paragonabile a quella di una madrelingua (Massis, Dessay, Fuchs, ecc. nei medesimi ruoli), ma possiede lo stile francese per aver frequentato spesso quel repertorio (e quel paese) e rende(va) bene certi personaggi anche cantando in una lingua straniera.
Poi, è pur vero che tra le prove e le recite vere e proprie sarà passato un mese, e sono scusabili quindi gli errori testuali (che arrivano nei momenti topici, tra l’altro, come “vous m’avez donné la puissance…..” scambiato col verso successivo), ma la voce stessa salendo incrementa il vibrato e sfoca. In questo contesto, manca completamente il canto “alla francese” .
La voce del tenore ha tratti di senescenza e sforzo già in giovane età (aspetto che appariva anche in radio), ed in sala è ancora più piccola di quanto si poteva ascoltare alla diretta della prima: al di là di una generica correttezza testuale ed interpretativa (pronuncia, fraseggio), fa quel che può. Gli auguro in ogni caso che proseguendo nello studio e in repertori diversi possa fare comunque una bella carriera.
Resta Leila. A parte un piccolo sbandamento in un acuto nella diretta radio, dal vivo in sala la voce non si espande molto, nemmeno nei momenti lirici; gli acuti sono tutti presi in pianissimo (prodezza tecnica? richiesta dal direttore? necessaria? mah); il duetto del terzo atto la mette a repentaglio (“Zurga je te maudis” è quasi indudibile, ad esempio) – cosa che succede in ogni caso anche alla brava Julie Fuchs nella recente registrazione di Bloch, ma che nel resto dell’opera è ben più espressiva e lirica.
Non capisco quindi – un po’ come scrive Carlo di Vargas – perché fare un’opera fuori repertorio corrente, che ha delle gran belle melodie (il duetto d’amore del secondo atto!), ma deve essere eseguita con correttezza ed idiomaticità per essere apprezzata. Per una inaugurazione si potevano fare le cose un po’ più in grande, considerando anche che in Francia circolano giovani cantanti bravini nei rispettivi ruoli. In questi giorni è in scena a Liegi una produzione diretta da Plasson con Massis (usato sicuro :-), sia detto con simpatia per la lunga ed ampia carriera), il tenore Cyrille Dubois e Pierre Doyen che ha sostituito qui a Torino Capitanucci per l’indisposizione delle prime recite.