Ieri è stata annunciata la stagione del Met, che per numero di produzioni e scelte di titoli resta il maggior teatro americano. Ieri sera Sky classica trasmetteva in milionesima replica un documentario su Gustav Mahler. E che hanno in comune Mahler ed il Met se non il fatto che il compositore austriaco fu, per un periodo il direttore ospite più importante, in quel teatro sino a quando uscì sconfitto dalla battaglia con il rissoso (parmigiano) Arturo Toscanini? Nulla, ma nel corso del documentario è stata citata una frase critica di Mahler sulla tradizione ovvero che la tradizione è il comodo alibi per non pensare e per proseguire nella routine. Lo si potrebbe anche dire con la fedeltà allo spartito ed alla chimera della prima esecuzione di un titolo operistico. L’adagio mahleriano è stato, poi, corretto ed interpretato da Harding (cui non smetterò mai di ricordare dobbiamo una Cavalleria e dei Pagliacci strepitosi e fuori della routine nello spirito di quei lavori, però, tanto che in Scala non lo hanno più richiamato) che, sempre citando il musicista, ha distinto fra tradizione e ceneri della tradizione, intese come quella parte della tradizione, che è per una serie di circostanze a partire dal gusto inesorabilmente passata e che secondo alcuni rappresenta l’essenza di questo sito. Siccome noi crediamo fermamente nella tradizione e non nelle ceneri della tradizione, in difetto ci saremmo accodati ai cretini che hanno fischiato a suo tempo Harding, abbiamo con questo criterio rispetto della tradizione esaminato la stagione del Met e, con le registrazioni di quei che hanno fatto del Met, il MET proposto qualche ascolto ai nostri lettori.
Ad esempio una coppa protagonistica di Traviata leggera come Damrau e Florez può evocare quella ufficialmente leggera di Amelita Galli-Curci e Tito Schipa, con la precisazione che la Galli Curci cantava Lucia con Caruso e Schipa Traviata con la Cigna e la Ponselle. Eppure la tradizione autentica per una coppia sulla carta leggera che affronti traviata è il canto elegante, stilizzato ed a fior di labbro quel dire sempre anche con mezzi che possono non essere del tutto idonei. Solo che la voce di Schipa, chiara, corta, ma di grande sonorità non aveva difficoltà a superare la scena della borsa e la Galli Curci l’Amami Alfredo altrimenti la patente di grandi in quest’opera se la sarebbero scordata.
Pensiamo ad esempi al protagonista dello Schicchi che proprio 100 anni fa ebbe al Met la sua prima rappresentazione. Oggi il protagonista è il terreno di azione di cantanti parlanti e bolsi, quasi che il temibile traditore di dantesca memoria sia un buffo parlante come Tagliaferro della Cecchina. E da questa casistica non decampa, anzi ne costituisce la punta di diamante il prescelto Schicchi: Placido Domingo. Ricordiamo che alla prima la parte venne affidata a Giuseppe de Luca ossia ad un baritono chiaro e dal canto di grandissima scuola, che gli consentiva mezze voci e colori. Eppure un cantante, che, secondo un discutibile giudizio, parlava più che cantare celeberrimo ed idolatrato dal pubblico del Met c’era e si trattava di Antonio Scotti, meglio noto come don Antonio. Ma venne preferito il canto di Giuseppe de Luca. I pochi passi di Falstaff o don Giovanni di Scotti sono esempio di come “parlare in luogo di cantare” sia nel tempo un concetto molto modificato. Anche in questo caso si tratta di far memoria per capire i cambiamenti e valutarli non di rimestar ceneri.
Quando si presenta Mefistofele, che comparve nella prima stagione del teatro forse per offrire il Faust italiano, forse per esaltare le qualità di Italo Campanini serve ricordare, secondo il principio che la tradizione serve e non le sue ceneri, che questo farraginoso titolo del teatro italiano ebbe nel 1920 un protagonista come Adamo Didur di cui talune registrazioni più felici e di rilevanza storica ricordano il repertorio del prescelto protagonista attuale ovvero Christian van Horn.
Per dire come la memoria e la tradizione devono essere presenti prima di talune scelte ricordo a me stesso come i panni di Maria figlia del Reggimento sono stati al Met indossati da Marcella Sembrich, Frieda Hempel, Lily Pons, Joan Sutherland e June Anderson, ciascuna delle quali ha declinato la tradizione, ciascuna è stata Marie, ciascuna con la propria voce, il proprio gusto, ma nel rispetto di studio, tecnica (tanta possiamo dire per tutte le cantanti citate) e sensibilità musicale. Questi aspetti il rispetto assoluto della tradizione non la venerazione delle sue ceneri perché la Maria da Met non deve cantare come la Sembrich o avere il fisico di Joan Sutherland, che si era inventata un granatiere di ragazzona che occupava da sola la scena, ma deve avere le qualità che hanno fatto di quelle cantanti nomi di rilevanza storica o, comunque, punti di riferimento nel servizio alla musica, nel rispetto per il pubblico, nell’essere modello per il dopo.
3 pensieri su “La stagione del Met e la memoria della tradizione”
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Si diceva anche su questo sito dell’ignoranza degli uffici stampa dei teatri italici e degli italici critici musicali e delle corbellerie che sparavano. Ma anche al di là dell’oceano si danno da fare in tal senso, se sul sito del MET, presentandosi il Mefistofele (http://www.metopera.org/Season/2018-19-season/mefistofele-verdi-tickets/) si legge che “Mefistofele is the celebrated and only opera by Arrigo Boito — who famously collaborated with Verdi on the libretti for Otello and Falstaff”. Il mio inglese è scarsissimo, ma non tanto da non capire che quivi si afferma che il Mefistofele è la sola opera di Arrigo Boito. Ed il Nerone allora che cosa è?
Il Nerone non credo sia mai stato rappresentato in America, forse passi in forma di concerto o a Chicago. Non è una scusa, basta Wikipedia per soccorrere l’ ignorante
Però il Nerone non fu mai completato da Boito che, di fatto, lasciò un lavoro privo dell’atto V e con grandi lacune nel resto, tanto che fu completato (senza ultimo atto di cui rimane monco), da Smareglia per poter essere rappresentato.