A dieci giorni di distanza, un altro teatro italiano, dopo Venezia, mette in scena una serata davvero valida e stimolante, dedicata alla musica contemporanea che riflette su quella dei secoli precedenti, e ancora una volta l’iniziativa cade nel vuoto e nell’apatia del pubblico (sala semideserta alla seconda di due recite in cartellone), non so se per scarsa pubblicità, slittamento delle date inizialmente previste (in sede di presentazione della stagione era stato preventivato un allestimento a fine ottobre presso l’Arena del Sole) o la più comune e diffusa indifferenza nei confronti di un repertorio inconsueto e di fatto ignoto. Rimane la tristezza, come per lo spettacolo veneziano e come per l’opera di Sciarrino offerta a Bologna l’anno scorso, soprattutto perché l’esito artistico è ben diverso da quello degli spettacoli “di provincia” (cito un commento letto alcuni giorni fa sulla bacheca Facebook del teatro) che popolano, per il solito, le stagioni felsinee, e che copiose si annunciano anche per quella prossima ventura.
La seconda edizione del Festival Bologna Modern si è aperta con la prima rappresentazione italiana di Medeamaterial, opera del compositore francese Pascal Dusapin, proposta per la prima volta a Bruxelles nel 1992 sotto la bacchetta di Philippe Herreweghe. Il nome del direttore (allora, come oggi del resto, uno dei riferimenti per il repertorio barocco) e l’abbinamento del titolo a Dido and Aeneas testimoniano la natura “antica” della composizione, ideata per un organico orchestrale in linea di massima analogo a quello dell’opera di Purcell. Bologna la propone, invece, assieme a un altro dramma dedicato alla figura di Medea, il melologo di Georg Benda, che ebbe immenso successo all’epoca (anche presso ascoltatori come Wolfgang Amadeus Mozart) e che mancava dalle scene bolognesi (salvo mio errore) da una quindicina d’anni (ricordo una proposta, nella versione con il pianoforte, presso il Chiostro della Basilica di Santo Stefano, protagonista Monica Guerritore). La scelta di allestire il dramma di Benda in versione originale permette una perfetta continuità linguistica con l’opera di Dusapin, che utilizza testi del poeta tedesco Heiner Müller. Il maggiore dei meriti del direttore Marco Angius è quello di non cercare a ogni costo un’unità stilistica o di linguaggio dove non sia effettivamente presente, ma di assecondare le voci, in ogni senso complesse e stratificate, delle partiture. Così, il classicismo denso di fremiti di Benda (e forse, in alcuni punti, l’orchestra potrebbe essere più incandescente – ma si cerca di salvaguardare, in primo luogo, l’intellegibilità del testo drammatico, e questo comporta un limite al livello sonoro degli strumenti) si specchia nell’algida, apparentemente apatica “radiografia” di Dusapin, che letteralmente “smonta” il dramma, facendoci udire le voci che popolano lo spirito di Medea nei momenti che preparano e seguono l’infanticidio. In entrambi i casi viene raccontata la stessa storia, che, più che l’uccisione dei figli, riguarda il distacco definitivo di marito e moglie. In questo la seconda parte dello spettacolo è molto più riuscita della prima, ché se la regia di Pamela Hunter si limita, in Benda, a mettere in scena, in un’elegante quanto stilizzata cornice a base di proiezioni e parchi elementi scenici, la tragedia della maga, affidando per intero il peso dello spettacolo alla protagonista (Salome Kammer, a tratti persino eccessiva nel rendere la perfidia del personaggio, sino a sfiorare il grottesco e la caricatura), l’incipit dell’opera di Dusapin (che non prevede, di fatto, azione propriamente detta, bensì iterazione ossessiva di frammenti di monologo e rarissimi dialoghi) vede una Medea contemporanea muoversi negli spazi di una clinica, in cui potrebbe essere stata ricoverata dopo l’uccisione dei figli. Man mano che lo spettacolo prosegue, è sempre meno chiaro se l’oggetto delle attenzioni dei medici sia Medea o piuttosto Giasone, che giace, come moribondo, in un letto (la sua voce, al pari di quella della Nutrice, è amplificata e proviene da un luogo “altro”). Medea (Piia Komsi, soprano di coloratura impegnato in tessiture spesso estreme, voce limpida e intelligibile anche nel registro medio, nonché attrice di grande fascino) stringe fra le braccia un bambolotto (emblema di una discendenza perduta o, piuttosto, mai posseduta?) e lamenta la freschezza immolata per la gloria del marito, ma risulta comunque più giovane, forte e disperatamente vitale di Giasone, sino al distacco definitivo (l’opera si conclude con le parole: “Nutrice, conosci quest’uomo?”). Ottima prova di orchestra e coro del teatro (con il supporto di Tempo Reale alla regia del suono) e consensi calorosi (nonostante l’esiguità del pubblico) sia alla fine del melologo di Benda, sia al termine della rappresentazione.