La Fenice in questi giorni ha offerto al pubblico un titolo del grande repertorio, Lucia di Lammermoor, in un’esecuzione senza climax (né positivi né negativi), dignitosa nel complesso, ma in cui sarebbe inutile cercare elementi di spicco.
A cominciare dalla direzione del Maestro Frizza che riapre pressoché per intero i tagli di tradizione, garantisce un suono gradevole, cerca di sostenere i cantanti, ma manca di una qualsivoglia cifra interpretativa e fa della noia la protagonista della serata senza trovare mai un guizzo che sia uno: tutto scorre lento e uguale, il lato febbrile di molte pagine è del tutto sedato e l’elemento gotico-romantico è, di fatto, inesistente.
La compagnia di canto non è certo peggiore rispetto a quelle proposte negli ultimi anni da teatri più importanti, ma ciò non significa che si possa parlare di un buon cast dato il livello modesto dell’ensemble. Simon Lim è un Raimondo meno ingolato di moltissimi colleghi della medesima corda, tuttavia non conosce il legato, palesa difficoltà negli estremi acuti e non è in grado di dare spessore al personaggio, come è evidente dal duetto con Lucia e dalla scena che precede la pazzia, passati senza lasciar segno. Marcus Werba, al contrario, oltre alla buona dizione, delinea adeguatamente il personaggio di Enrico rendendo al meglio la sua spietata cattiveria; i problemi di intonazione sono, però, frequenti, la voce è piccola e nel repertorio italiano a emergere sono soprattutto i limiti vocali di questo intelligente interprete.
Francesco Demuro non ha la voce per Edgardo: manca di ampiezza, di tecnica e anche di un timbro adatto. Si apprezza la cura per la dizione e la volontà, come in Werba, di creare un personaggio dando senso a quanto cantato, ma la parte è impietosa per una voce tanto esile e sottile… a poco vale in questo caso il mib raggiunto con facilità nel duetto del primo atto. Demuro sarebbe adatto ai ruoli di mezzo carattere, ma dovrebbe lavorare sugli acuti bianchi e presi alla garibaldina.
Nadine Sierra compita una Lucia gradevole, si impegna con la dizione e si avvale di una voce dal bel timbro. Qui finiscono i suoi meriti. La voce è piccola ed estesa, ma poco flessibile, dunque le variazioni, abbondanti come di tradizione, sono risolte poco agevolmente e senza mordente: l’esecuzione risulta macchinosa e i tempi, già “placidi” di loro, vengono rallentati ulteriormente col risultato che il filo del discorso musicale è di continuo spezzato. Gli acuti della Sierra sono facili, complici la giovinezza e la freschezza, ma non facilissimi, essi tendono, inoltre, ad essere striduli e non perfettamente calibrati; i gravi, invece, le finiscono i bocca e sono deboli. La parte migliore della voce è, come sovente accade, quella centrale in cui la cantante cerca sempre la rotondità e la morbidezza e fa valere il bel timbro, che, purtroppo, tale non si mantiene negli estremi del pentagramma; va detto, però, che l’effetto della patata in bocca è sempre dietro l’angolo e si percepisce chiaramente. Ciò che più spiace è constatare che l’interprete manca di personalità, non fa uso delle dinamiche, non è una virtuosa, non è neppure una fine dicitrice, motivo per cui la noia diventa il tratto principale di questa Lucia; la lentezza e la macchinosità del suo canto, specie nella scena della pazzia, non fanno che aggravare questa sensazione e la glassarmonica, da sola, non fa certo miracoli.
Note non entusiasmanti neppure da parte dei comprimari Angela Nicoli (Alisa), Francesco Marsiglia (Arturo) e Marcello Nardis (Normanno), bene, invece, il coro. Il pubblico della Fenice dispensa, seppur con parsimonia, applausi per tutti.
Ricordavo una cantante corta . Direi un Caro nome bruttarello a Milano se non vai errata….una per cui salire è difficile .
Sì, anch’io in un’altra occasione la ricordava corta, ma era un ruolo più centrale in cui gonfiava maggiormente i centri, qui tenendo la voce più leggera dimostra che fino al mib la voce c’è (anche se anche se non è un fulmine di guerra). Si ha la sensazione, però, che siano note che non dureranno a lungo…
Io invece ho volutamente assistito alla recita del secondo cast, curioso di risentire Mukeria (che anni fa è stato protagonista di una bella prestazione sul medesimo palco) e Altomare (buon Rigoletto che avevo sentito tempo fa).
Quanto al direttore è stato uno degli aspetti peggiori, oltre alla noia mortale e lentezze senza grande significato espressivo, quello che più ho trovato fastidioso è la mancanza di una cifra drammatica che invece dovrebbe essere fondamentale. Soprattutto nelle parti di assieme si sono sentiti suoni bandistici, non drammatici.
Per il resto sono rimasto soddisfatto della scelta perché ascoltare il tenore è valso il prezzo del biglietto e anche il baritono ha fatto il suo.
Mukeria si conferma un Edgardo di rilievo, con voce non certo straripante di natura, ma sempre a fuoco e correttamente posizionata con l’effetto di essere sempre squillante e udibile, pressoché sempre svettante sulla Lucietta della Markova. Pregevole proprietà di fraseggio e di accenti, ha cantato e soprattutto interpretato con il canto e gli accenti, raggiungendo il massimo nel finale e soprattutto in Tombe degli avi miei. Si vede che ha padronanza del ruolo. Infatti ha ricevuto applausi convinti.
Parimenti positiva la prova di Altomare che seppure non ha particolare eleganza di fraseggio e varietà espressiva come il collega, quanto meno ha saputo cantare in modo corretto mantenendo una linea di canto costante, senza berciare o eccessivamente caricare di gola le note, come è usuale in suoi pari.
Una Lucia, però, non può reggere solo su tenore e baritono, presuppone una solida Lucia.
Non è questo il caso della Markova, soprano leggero a cui la parte sta troppo larga e che non ha lo spessore vocale per risolvere correttamente soprattutto acuti ed agilità (meglio nei centri). E da qui derivano le difficoltà di emettere suoni che non risultino fissi in alto e striduli. Ha comunque il pregio di non rendersi fastidiosa e di cantare onestamente, rispettando i limiti che la natura vocale le ha imposto. Il punto meno memorabile, diciamo così, è stato Spargi d’amaro pianto, con visibili difficoltà ad arrivare all’urletto finale. Buona tenuta del palcoscenico, facilitata dalla bella presenza.
Senza infamia nè lode il basso di cui non ricordo il nome.
La cosa peggiore, a mio avviso, è stata però la regia di cui non ho colto lo scopo: troppo simbolismo cervellotico e fine a se stesso (è stato riesumato il cappotto rosso di spielbergiana memoria..), troppe forzature stomachevoli su movimenti robotici dei personaggi, troppi vaneggi che disturbano lo spettatore e non aggiungono nulla, anzi tolgono. Trovo discutibile la “trovata” di far apparire Enrico del tutto estraniato dal contesto dalla scena della pazzia in poi, come fosse uno zombie distrutto dal pensiero di esser stato…distrutto dagli eventi (io almeno ho così inteso così quella scena).
Tirando le fila del discorso: spettacolo gradevole, valorizzato da un’eccellente prova di Mukeria, da una buona prova di Altomare e sporcato da una prova non memorabile della protagonista, con un sottofondo orchestrale banale e con un background registico brutto.
Grazie del resoconto del secondo cast Mr. Angelo