Il Benvenuto Cellini, con cui il Teatro dell’Opera della capitale di fatto inaugura le celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario della morte di Berlioz, è il classico esempio di ottime intenzioni che si risolvono in un risultato interlocutorio. Buona l’idea di affidare la regia di questo strano mélange di suggestioni da grand-opéra (la rievocazione della Roma cinquecentesca, e più in generale dell’Italia, tradotta musicalmente come una terra favolosa in cui eccesso e genialità si intrecciano fino a specchiarsi l’uno nell’altra) e tratti e moduli compositivi da opéra-comique (la struttura a couplet di gran parte dei numeri solistici, la sostanziale mancanza di grandi conflitti storici e politici, sostituiti da un grandioso “ritratto dell’artista da giovane” in cui è facile individuare, accanto all’ovvio narcisismo, non poca autoironia – Cellini, talento indiscutibile, è uomo capace di ogni bassezza, taccagno, presuntuoso, leggero fino all’omicidio preterintenzionale) a un artista di lungo corso e assoluta maestria visiva come Terry Gilliam. Il primo quadro, brillante, frenetico, ricolmo di invenzioni è la parte migliore dello spettacolo (e pazienza per l’ouverture eseguita parzialmente a sipario aperto, quasi che la musica non bastasse a se stessa e non costituisse una sufficiente introduzione al dramma). Dal secondo quadro emergono i limiti di un’impostazione comune a molti registi (non solo a quelli “prestati” all’opera da altri ambiti artistici), caratterizzata dalla noncuranza nei confronti del testo da mettere in scena: abbiamo così un carnevale cupamente ottocentesco, dickensianamente privo di verve e più vicino alle suggestioni del prologo dei “Contes d’Hoffmann” che non alla follia organizzata di chi (volente o nolente) guardava da vicino al grande modello rossiniano, mentre la pantomima di Cassandro, con i suoi richiami al mondo del circo e a quello del burlesque, prepara la caricaturale apparizione del Papa, reso come una sorta di drag queen (laddove, a rendere ridicola la figura di Clemente VII, basterebbe evidenziare, sulla scorta del libretto, l’assoluta indifferenza del capo di Stato e sommo Pontefice nei confronti di atti contrari alla morale pubblica e addirittura alla legge divina, laddove entri in gioco l’arte, ovviamente da indirizzare alla maggior gloria di Dio – e di chi la finanzia). Quando nell’ultimo quadro il centro dell’attenzione si sposta sulla solitudine dell’artista e sulla grandiosa prova di forza della fusione del Perseo, lo spettacolo riprende parzialmente quota, anche se l’apoteosi finale risulta un poco meccanica e non costituisce, come da partitura, il solenne e sfolgorante coronamento dell’opera. Ma il principale responsabile di questa insufficiente tensione è Roberto Abbado, che alla testa dei complessi stabili del teatro (semiamatoriali, per tenuta d’intonazione ed esattezza di entrate) appiattisce colori e dinamiche orchestrali, batte la solfa con poca convinzione, nelle arie si preoccupa soprattutto di non “coprire” i solisti e sottolinea il finale di ogni quadro con effettacci da banda di paese. E pensare che pareva impossibile fare peggio rispetto al Maometto II di un paio di stagioni fa! Fra i cantanti, letteralmente inudibile Nicola Ulivieri (Balducci), un poco più sonori ma in difetto rispettivamente di incisività e solennità Alessandro Luongo (Fieramosca) e Marco Spotti (quest’ultimo di timbro quasi tenorile negli sgargianti panni del Papa). Varduhi Abrahamyan, che stando al carnet d’impegni parrebbe intenzionata a rinverdire i fasti di una Horne e di una Valentini Terrani, risulta molto sopranile e soprattutto molto ingolfata, con la voce bassa di posizione e conseguenti udibili difficoltà nelle parche incursioni all’acuto di un ruolo meramente decorativo, che è davvero poca cosa rispetto ai ruoli en travesti del melodramma rossiniano o a parti come Dalila, già comprese nel repertorio della cantante armena. Mariangela Sicilia (Teresa), voce non grande ma dotata di “punta” in alto, regge bene il primo quadro, al secondo “tira” con palese difficoltà il concertato, giunge alla seconda parte dello spettacolo con un volume significativamente ridotto e, arrivata al confronto con gli operai di Cellini, recupera un po’ di sonorità solo a prezzo di suoni prossimi al grido. Più omogeneo nella tenuta John Osborn, la cui voce non si espande però (a differenza della più giovane collega) nella sala, mantenendosi saldamente ancorata al palcoscenico: il registro basso risulta quasi inesistente (il che non meraviglia, dal momento che parliamo di un tenore contraltino), sul secondo passaggio di registro compaiono suoni schiacciati, che con il progredire della serata perdono in esattezza d’intonazione, mentre gli acuti, sicuri (con l’eccezione del do diesis alla prima scena con Teresa) e sonori, risultano fastidiosamente nasali. Accanto alla volontà di sfoggiare una linea di canto varia e sfumata (i risultati migliori sotto questo profilo arrivano alla melopea dell’ultimo quadro), risulta evidente una gestione della zona medio-alta della voce piuttosto precaria, il che rende poco plausibile una felice gestione dell’alternanza di ruoli centrali (Pollione) e altri di tessitura più elevata (Arnoldo, Elvino, Fernando di Favorita), cifra caratteristica dell’annata che attende il tenore statunitense.