Columbia Chamber Orchestra, dir. Fritz Reiner (1949)
Concentus Musicus Wien, dir. Nikolaus Harnoncourt (1964)
Nei commenti al ricordo di Nikolaus Harnoncourt è stato scritto che, tra i meriti dell’illustre direttore da poco scomparso, è da annoverarsi quello di avere, con le sue registrazioni, contribuito a sradicare la deleteria tradizione del Bach affidato a orchestre in ogni senso pachidermiche e più degne di cimenti tardoromantici. Come tutte le generalizzazioni anche questa ha sicuramente in sé un fondamento di verità. Però, come tutte le generalizzazioni, anche questa mortifica almeno in parte la verità che mette in luce, non fosse altro che per il fatto di presentare Harnoncourt come una sorta di alieno, capitato per caso in un pianeta dedito a deprecabili tradizioni esecutive bachiane, che con la sola forza della volontà (quella che non può mai mancare al filologo-vate, così come tratteggiato in primis dagli studiosi di filologia) riesce, tardivo eroe senza macchia e senza paura, a “mettere le cose a posto”. Una visione musicologica di stampo hollywoodiano, che viene però contraddetta proprio da quegli Stati Uniti che parrebbero, con la loro florida industria cinematografica, averne fissato le coordinate metaforiche. È infatti negli Stati Uniti che un direttore di formazione mitteleuropea come Fritz Reiner incide, sul finire degli anni Quaranta, una versione dei Concerti brandeburghesi che può a buon diritto essere considerata storica e (come oggi usa dirsi) seminale. In primo luogo perché il complesso scelto per l’incisione (la Columbia Chamber Orchestra) è per l’appunto una formazione cameristica, e non uno dei pachidermi di cui sopra, e in secondo e principale luogo perché gli esecutori convocati sono, semplicemente, alcuni dei massimi virtuosi della loro epoca. Basta scorrere la locandina per trovare i nomi di Hugo Kolberg (già Konzertmeister dei Berliner Philharmoniker, esule per motivi familiari – la moglie era di origini ebraiche – negli Stati Uniti, dove fu primo violino della Pittsburgh Symphony, della Cleveland Orchestra e dell’Orchestra del Metropolitan), Felix Eyle (violinista proveniente anch’egli dal Vecchio Mondo, più precisamente dall’Orchestra della Staatsoper di Vienna, allievo di Arnold Rosé), Sylvia Marlowe (tra i massimi clavicembalisti americani, formatasi a Parigi con Nadia Boulanger), Julius Baker (primo flauto della Pittsburgh, della Chicago Symphony Orchestra e più tardi della New York Philharmonic) e Robert Bloom (primo oboe della NBC Symphony Orchestra, nel 1946 tra i fondatori, proprio assieme a Baker, del Bach Aria Group, ensemble dedito all’esecuzione del repertorio del compositore di Eisenach). E quando dalla locandina si passa (soffocando le esclamazioni di meraviglia per il lusso della squadra riunita per l’occasione) all’ascolto delle incisioni, l’impressione di trovarsi di fronte a un documento eccezionale risulta, se possibile, rafforzata. Merito in eguale misura dei solisti e del direttore, questo Bach ha una levità, una misura e allo stesso una spontaneità e un coinvolgimento nel porgere, che ha davvero poco da invidiare alla giustamente celebrata realizzazione di Harnoncourt. Basti ascoltare, nel primo movimento del Quinto concerto, la naturalezza con cui l’episodio solistico del clavicembalo (vera e propria “scena di bravura” della signora Marlowe) si inserisce nell’affettuoso colloquio dei diversi strumenti, senza risultare un’appendice più o meno posticcia, ma infondendo maggiore solennità e impareggiabile eleganza al dialogo musicale. E non è solo l’equilibrio tra le diverse parti a meravigliare, ma anche la capacità di Reiner di staccare tempi sempre adeguati, brillanti e briosi ma privi di inutile precipitazione nel primo e nel terzo tempo, giustamente languidi, ma in nessun caso pedanti o pachidermici nella parentesi lirica del secondo movimento. È sufficiente, del resto, uno sguardo al minutaggio complessivo del concerto (del tutto analogo a quello della registrazione di Harnoncourt) per comprendere che la capacità di “vivere” e “respirare” la musica non sorge certo, nella discografia tradizionale, con l’avvento del direttore austriaco. Tanto per essere chiari, e per prevenire almeno in parte le obiezioni che inevitabilmente accoglieranno la puntata di questo venerdì (tutt’altro che quaresimale, atteso il livello degli ascolti proposti): non si tratta di sminuire Harnoncourt (non certo il peggiore tra i direttori-filologi proposti dal secondo Novecento), ma di sforzarsi di collocarlo in una prospettiva storica (in questo caso, quella della grande tradizione bachiana mitteleuropea, cui sono riconducibili tanto Reiner quanto la maggior parte dei suoi strumentisti). Del pari, nessuno nega il ruolo basilare degli studi filologici nel riportare alla luce il dettato originale degli autori, e magari anche i “ripensamenti”, le variazioni e le aggiunte degli interpreti loro contemporanei: si tratta semplicemente di riconoscere che il mestiere del filologo è assai diverso e distinto da quello del direttore, e che non necessariamente le due professionalità si possono rinvenire nel medesimo musicista. Questo ascolto è, crediamo, anche un modo per onorare il defunto con più saggio cordoglio, ricordando al tempo stesso quelli che sono i nostri doveri (e diritti) di ascoltatori appassionati e consapevoli.