Già altre volte abbiamo rimarcato la deriva trash che l’opera lirica sta percorrendo nel suo spegnarsi. L’altra sera alla Scala abbiamo assistito ad un’altra puntata del fenomeno, nella quale si è arrivati a dare una cornice aulica, quella del più grande teatro lirico del mondo, ad una produzione provincial (padana) di Rigoletto, ispirata a criteri un tempo validi per le recite domenicali ma non per le produzioni dei cartelloni più importanti. Distrutte le gerarchie di valori tra gli artisti ed i teatri, annientata la rete della cosiddetta “provincia”, l’antico humus per la maturazione dei cantanti (quando i migliori dalle seconde piazze approdavano in quelli importanti) ed omologati tra loro i cosiddetti “grandi teatri” alla globalizzazione delle agenzie e dei carrozzoni delle new productions (tanto che le grandi opera houses hanno perso le loro peculiari identità di un tempo) registriamo ora anche la compiuta assimilazione tra routine provinciale e produzione importante. Mercoledì sera alla Scala ci mancavano il panino e la bottiglia di vino da assaggiare durante l’ascolto (a dire il vero una ragazza a fianco a me sorseggiava da un bicchierone con la cannuccia), perché la sensazione di paesanità e rusticità (oltre alla latitanza di contenuti degni di chiamarsi “musica colta”) fosse fortissima. Il sopraggiunto bis della “Vendetta” era prevedibile, richiesto dal pubblico non per meriti oggettivi ( una “Vedetta” modesta da parte di entrambi i protagonisti, che non era affatto il caso di risentire..) ma perché anche il pubblico, come gli artisti, è ormai solito procedere per clichè usurati, globalizzati anch’essi. Una richiesta prevedibile e, diciamolo, voluta da ambo le parti (come fu il bis preannunciato di Florez anni fa), acconsentita con un filo di apparente stupore, ma altro vero clichè. L’ottica è stata quella sportiva, in cui tutti urlavano “grande Leo”, perchè il protagonista vestiva la maglia del gobbo per la centomilionesima volta e staccava il cartellino del record del mondo di una qualche gara di fondo. Di come il baritono stesse cantando, e più in generale, di come abbia sempre cantato questo ruolo sin dalla sua maturità artistica, non pare esservi più contezza generale sui giornali o nei siti o nelle parole della gente, anzi, a nessuno pare interessare, esattamente come ormai si ignora, soprattutto a livello di direzioni artistiche, che dovrebbe sussistere una differenza tra il canto da scampagnata pomeridiana in provincia e quello di scuola degno di una sede importante come Milano. E’ oggettivo che gli argini antichi siano stati ormai travolti, le regole dell’arte e del mestiere fatte a pezzi, la struttura del teatro lirico distorta in un generico qualunquismo di cui, è triste dirlo, questi vecchi sopravvissuti sono l’altra faccia protagonista, a metà strada tra icona e maschera che cela la fine di un mondo. La globalizzazione di oggi è anche questo, Piacenza, Madrid, Milano, l’Arena, il club lirico privato sono diventati tutti palcoscenici equivalenti, interscambiabili ed indifferenti, tutto adeguato ma al ribasso. Ormai contano solo certi numeri, che in questo caso sono solo quelli del numero di recite, ma non certo quelli dei segni di espressione realmente eseguiti, delle nuances e degli accenti restituiti o trovati. Men che meno importa la contabilità “nera” dei portamenti, dei fiati abusati, delle frasi che l’età impone al cantante di spezzare, delle pause di mutuo soccorso, dei cerotti sulla linea di canto, delle frasi dure e stimbrate. Oggi molti di questi anziani cantanti, perchè non accade solo col signor Nucci, sia chiaro, ci impongono di ammirarli in virtù di dati anagrafici o di carriera, pretendendo che si dimentichi la realtà del loro canto ormai inadeguato, trasformati anche loro in “feticci artistici”, per usare un’espressione abituale agli studiosi della comunicazione del settore culturale. Il bis più svenduto e gratuito della lirica moderna è suonato strano, quasi imbarazzante nella stessa sala dove per tutta l’era Lissner si sono proibite le esecuzioni di arie d’opera nei programmi dei concerti di canto, ritenuti privi di una patina culturale adeguata al luogo, o dove Muti per anni ha impedito la ripetizione di prove straordinarie come quella di Ramey nell’Attila, tanto per esemplificare, o del dream team del primo Viaggio a Reims, o di altre prove di valore assoluto ancora più datate, come la morte di Posa di Bruson con Abbado, le strofe di Ossian di Kraus etc..
Starsene in una via di mezzo come la mia, ossia non credere ai manifesti intellettuali artificiali, ma non partecipare nemmeno alle scene di entusiasmo per qualcosa, che trae e genera entusiasmo per il mero fatto di essere oramai un clichè abusato, condiviso universalmente e acriticamente assunto dai più nella gioia di una cena con gli amici dopo recita o in un pomeriggio a teatro (tutte cose buone pure queste, sia chiaro anche questo) ma non derivante da una manifestazione artistica oggettiva, sono certa che sembrerà un reato di “gufaggine”, il peccato dell’essere gli eterni malcontenti.
E si è talmente fuor dal coro, controcorrente e spaesati, anche perché la serata di Verdi ha avuto giusto il titolo dell’opera e nemmeno mezza frase detta in accordo con il compositore, che prima di scrivere si può decidere, dopo tanti anni, di riascoltare il cantante degli anni d’oro per capire dove stesse il mutamento del tempo e dove, invece, stessero le permanenze, le invarianti, che gli anni non hanno cancellato. Ho riguardato le tappe della carriera, dagli esordi, al repertorio,ai ruoli più o meno frequentati in rapporto al panorama delle altre voci in attività, in modo che tutto ritornasse a fuoco e prendesse la giusta ottica. A risentire le prove del passato si osserva come ci fosse già tutto sin dagli anni ’80-’90, i portamenti, la mancanza di dolcezza e di un grande legato, di quel canto a fior di labbra con cui i sommi Rigoletti attaccavano “ Deh non parlare al misero” o fraseggiavano con infiniti colori il “Pari siamo”, con le voci tonde e morbide, l’emissione superba. I riascolti chiariscono oggi il senso dei records, dei numeri, del gusto, dei bis delle “Vendette” e di tutto il vigoroso apparato scenico ed empatico messo in campo dal professionista sapiente che ben conosce se stesso, il ruolo e il suo pubblico. Mi limito a segnalarvi la discussione di un noto forum spagnolo (http://www.unanocheenlaopera.com/viewtopic.php?f=14&t=17857 ) ove alcuni utenti diversi dai sottoscritti hanno fatto il punto sul Rigoletto del signor Nucci, dello sbilanciamento eccessivo del giullare sul vecchio cattivo e vendicativo, troppo lontano dalla complessa figura di padre amoroso, dolente e vindice solo, offeso nel più caro e sacro degli affetti, come Verdi aveva immaginato. Il must non solo vocale, ma interpretativo, è oggi assolutamente scomparso con Tibbett, Tagliabue, Mc Neill, Protti ed in parte Bruson e per consentire una autentica rinascita di Rigoletto sarebbe opportuno un salutare periodo di dismissione dai teatri, che restituirebbe il doveroso rispetto al ruolo, summa del canto baritonale.
La riprova della condizione crepuscolare della lirica, peraltro, l’altra sera non è stata dove è mancato un grande vecchio del teatro, ma in quanto hanno dimostrato i suoi ben più giovani colleghi, incapaci di fraseggiare come Verdi prescrive e pretende, oltre che di gestire la voce come si dovrebbe.
Il signor Grigolo ha cantato tutto a squarciagola, generico, forte, e cara grazia che gli è riuscito di continuare a spingere e pompare la sua vocina artificiale fino al fine, facendo finta di essere quel che non è pur perdendo volume con l’avanzare della serata. Il fraseggio è per lui un caro estinto ( la duttilità è nulla a cantare d’affondo così), il duca una creatura esagitata buona per ogni occasione ( sarà il complesso di Gelsomino) e terribilmente esteriore; i mezzi, a volte anche mezzucci ( mirabile il taglio della puntatura scritta dell’aria ), hanno reso il suo duca una creatura fastidiosa che si spera esca presto dalla scena. Un duca contrario a Verdi e a tutto quello che la parte consente e richiede.
Il nuovo fenomeno, poi, la signorina Sierra, preannunciata con grandi parole di elogio, mi è parsa degna di una vecchia etichetta rispolverata per l’occasione da un vecchio caro amico di loggione, che l’ha definita “cantantina”. Con buona pace di quelli che le urlavano rumorosamente “brava” al primo atto ( e dopo hanno urlato un po’ meno …), la signorina canta con una posizione della voce troppo bassa per poter salire con agio, e pure per fraseggiare. Ha spinto nei due duetti del I atto per farci credere che la sua voce abbia un po’ di “punta”, poi all’aria, regolare come la pioggia che cade dall’alto in basso, ha assottigliato la voce per inerpicarsi oltre il pentagramma, ma gli acuti erano sempre indietro e spoggiati, fino ai rocamboleschi falsettini sottili, sottili della cadenza. Un’esecuzione scolastica perché insicura dell’aria degna di altre sedi teatrali minori, ma non da Scala. Gli acuti piccoli e la sonorità decisamente ridotta al secondo atto hanno poi fatto il resto nel “Tutte le feste al tempio”: la voce non si può manovrare in quella posizione, perciò latitanza di fraseggio, tutto piatto salvo un paio di effettini e, finalmente, gli strilli nella “Vendetta”, prima e seconda esecuzione. E quando non si possono offrire i falsetti urletti e suonacci. Al terzo atto, idem come sopra, salvo le frasi sguaiate prima dell’omicidio nella taverna. Un buon Fra’ Melitone alla scena della minestra lo Sparafucile del signor Colombara.
Il re del peggio di questa maldestra produzione di successo è stato però il maestro Luisotti. Tralascio i fuori tempo tra la sua buca e il coro (vedi “l’amante di Rigoletto”), e passo agli accompagnamenti pesanti, grevi oppure dalle velocità altalenanti, che hanno tolto alla sua orchestra ogni cifra verdiana, anche quella della sana ruotine di un tempo. Strumentale, ma non espressivi e drammatici i rallentamenti manierati al duetto padre – figlia del II atto, il tempo scatenato ed insopportabile al I atto nella scena Rigoletto – Duca – Coro, con Grigolo, che ha pure smesso di cantare perché davvero non poteva stare col direttore, gli archi a corda da bucato della scena finale padre-figlia “Vo’ ingannato..”. Forse c’era meno chiasso di altre prove, come l’Attila, ma per tutta la sera l’opera è parsa ferma, pesante, senza scorrevolezza, latitanti tutti gli aspetti con cui Verdi commenta, dipinge e sorregge la tragedia di Rigoletto scena per scena. Insomma qualcosa di veramente antiverdiano e, devo dire, inusuale da sentire e che a mio avviso ha condizionato la serata forse in maniera preponderante.
Buon pomeriggio!
Mi presento: sono un universitario e giovane amante dell’opera, un tempo studente di pianoforte, ma non per questo così esperto di musica. Mi sono imbattuto nel mondo dell’opera cinque anni fa e da allora ho cercato di leggere ed ascoltare quanto più possibile per affinare gusto ed orecchio. In questo, il vostro blog è sempre stato uno strumento prezioso.
Vivo in Romagna, in una di quelle province che non possono godere della presenza di un teatro lirico, ma cerco di spostarmi e viaggiare in giro per l’Italia, per quanto posso, per assistere ad opere. E’ amaro leggere e dover constatare che questa forma d’arte si stia spegnendo nel suo crepuscolo (come avete scritto altrove).
Riguardo all’articolo in questione, non mi aspettavo niente di diverso da quanto da voi recensito. Tuttavia mi ha incuriosito l’accenno alle peculiarità ormai scomparse dei diversi teatri d’opera. Vi sarei grato se voleste e poteste fornirmi una delucidazione in merito.
Cordialmente, Cherubino92
concedi mi un po’ di tempo e ti rispondo anche se la lettura di sette anni di doglianza è già uno strumento per capire
ciao dd