Per quale motivo l’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino suoni bene, se non benissimo, solo con alcuni direttori “specialisti”, oppure solo la sinfonica, o gli oratori, o le operette ed i musical, o il ‘900, mentre si lascia andare con superficialità e sciatteria quando affronta il repertorio consueto, che dovrebbe padroneggiare con facilità irrisoria, è mistero per me insondabile.
Capita anche che il pubblico snobbi di peso e con saggia indifferenza il titolo inaugurale, mentre accorra numeroso ed entusiasta agli oratori o ai concerti di piano (di cui il nostro amico Antonio Tamburini ha ampiamente testimoniato).
Fossi nella dirigenza qualche domanda sull’offerta e sulla risposta me la porrei, anche per impostare le stagioni future e cercare di riempirlo il teatro, invece di far fuggire il pubblico o farlo disaffezionare.
Il Mehta che affronta i concerti (Mahler) o gli oratori (questa “Creazione”) è un direttore profondamente diverso da quello che si occupa di opere e robetta commerciale (prossima la pubblicazione dell’ “Aida” con Andrea Bocelli).
Strano direttore il Mehta maturo degli ultimi anni: così stanco e macignoso nell’opera, tranne per pochi guizzi, ma interprete ancora intenso e concentrato nei concerti, e l’esito più che positivo di questa “Creazione” di Haydn andata in scena il due Maggio nel nuovo teatro dell’Opera di Firenze fa riflettere.
Il pubblico che riempiva, ma non esauriva la sala, era molto più partecipe rispetto allo stesso che ha giustamente snobbato il “Fidelio” inaugurale. L’ho snobbato anche io, perché conosco la lettura che Mehta dà all’opera e francamente mi interessa poco.
Quasi per caso, invece, mi sono ritrovata ad ascoltare questo concerto, credendoci pochissimo, ma sorprendendomi alla fine.
C’è molto Mozart e Beethoven nel gesto di Mehta, e ricordiamo che il primo ammirava molto questo lavoro di Haydn e condivideva tale stima con Salieri, che fu il clavicembalista della prima assoluta, ma anche con Rossini che la diresse con i SUOI cantanti, ma c’è anche un tenue profumo di Romanticismo, che lega perfettamente con l’ampiezza sinfonica del coro e soprattutto dell’Ouverture.
Mehta inizia al suo solito modo: tempi larghi, ma stavolta, al contrario dell’orrido “Tristan”, tale decisione non contrasta con Haydn, ma ne esalta quel lento montare orchestrale che raffigura musicalmente le oscure metamorfosi primigenie della nascita del cosmo. I tempi, successivamente, si distendono e si vivacizzano, accompagnando con lucentezza formale, ma anche con un tocco di introspezione grazie ai numerosi andanti che, legando con il canto, fanno da preludio ai grandi ariosi dei tre angeli posti a fondamento delle prime due parti dell’oratorio, ma soprattutto riesce ad ottenere quella maestosità epicheggiante, haendeliana direi, quando è il coro ad essere protagonista. L’orchestra si adegua con una potenza di elettrizzante spicco.
Orchestra rifinita più che in altre occasioni che solo inizialmente suona in modo sgradevole per certe secchezze timbriche degli archi o per qualche scivolata dei flauti, ma tutto circoscritto alle prime battute, poiché per il resto della serata il suono rimane limpido e rotondo.
Forse sarebbe stato meglio evitare nel duetto Adamo-Eva, già caramelloso di suo, quello spruzzo di cipria e zucchero a velo tipiche di certo Mozart tutto mossette e vezzi leziosi, quando probabilmente puntare sul canto aulico di Adamo e sul languore di Eva avrebbe bilanciato un momento musicalmente alto, ma incompleto.
Il coro stupisce per la perfetta intonazione, la giusta amalgama, il magnifico dosaggio dei volumi sonori e merita le incontrastate lodi finali che un pubblico in delirio gli ha riservato.
Sul lato canoro siamo, more solito, su un gradino più basso.
A causa della doppia indisposizione (casuale?) di Julia Kleiter e Michael Volle, sono stati chiamati in soccorso e sostituzione la già presente a Firenze Laura Claycomb che ritroveremo come Cunegonde nel “Candide” e Hanno Mueller-Brachmann bass-baritono utilitè in forza a Berlino.
La prima con la sua vocina piccola piccola, bianca bianca, esile esile faceva fatica a sentirsi anche in uno spazio acusticamente perfetto come la sala del teatro: certo la gradevolezza di una voce filiforme coperta appena dal pianissimo di un violino faceva una certa tenerezza, meno tenerezza le poche note acute in puro stile toccata e fuga e l’accento da Papagena spiritata; il secondo, anch’egli quasi inudibile, ma dotato di tante voci in una e tali disuguaglianze da perdere l’intonazione ogni due note.
Un gradino sopra il tenore Michael Schade, gradevole e sonoro al centro, molto partecipe, ottima dizione, ma spigoloso e nasale in alto e completamente afono in basso.
Simpatiche però le controscene: la Claycomb, disinvolta e sorridente che ogni tanto buttava l’occhio, sulla partitura di Schade perché perdeva il segno e non si raccapezzava più; Schade che, faceva di tutto per far capire al pubblico quanto questo oratorio gli piacesse: dal battere il tempo col piede al cantare silenziosamente tutti i ruoli oltre al suo; Mueller-Brachmann con lo sguardo accigliato perso verso gli imperscrutabili confini dello spazio e del tempo, che al momento di cantare assumeva quell’atteggiamento a metà tra il profeta arcano e l’attore brechtiano impegnato pronti per la rivelazione che potrebbe cambiare le nostre vite: poi apriva la bocca per emettere suoni disuguali e ineleganti di varia natura e si metteva sulle punte per spingere e sostenere meglio. Molto divertente.
E se il “Fidelio” non aveva attrattiva alcuna per scomodare una visita a teatro, molto più affascinante e compiuto si è rivelato il successivo “Candide”, opera/operetta/musical nata, con molto travaglio, dal genio scatenato di Leonard Bernstein.
Le fabbriche, la pubblicità, la politica stessa, oggi, cercano di convincere il pubblico che i prodotti da loro creati per la massima diffusione siano il mezzo per giungere alla felicità più facilona, e creare quel mondo, il migliore possibile, descritto da Leibniz.
Il regista Francesco Micheli immagina allora, che le fabbriche producano direttamente uomini resi automi, perché privati della facoltà di discernere, di possedere spirito critico, di accettare la vita, comprenderla per quello che è, compiere scelte attive. Un mondo/fabbrica che crea uomini riprogrammati mentalmente, ognuno di essi rappresentando “tipi” caratteriali (Cunegonde, la fanciulla pura e ingenua, ma meccanica; Maximillian, suo fratello, macho vanesio; Paquette, donna di puro piacere), ognuno trovando il proprio posto semplicemente fingendo di vivere all’interno di una scatola-stanza che li completa, imposta loro dal direttore della fabbrica, altro fantoccio dal volto nascosto dietro una scatola di cartone. Essi sono uniti soltanto dallo stesso grado di idiozia ottimista inculcata dal filosofo Pangloss, e “controllati” nella loro riuscita dal suo assistente, quel Candide, già perfetto esempio di ottimista-idiota a tutti i costi la cui personalità ha già positivamente accettato questo nuovo ciclo vitale e che aiuta a insegnare tali principi.
La trama, sia nel libretto sia nell’opera di Voltaire, se seguita alla lettera è al limite della comprensibilità, essendo più un accumulo di situazioni surreali, anche simili tra loro, che un susseguirsi logico di eventi, ma il cui vero cuore narra con disillusione e coglie la ferocia ipocrisia insita in ogni stato sociale, non solo in quello maccartista americano degli anni ’50, periodo della composizione dell’opera. Il regista si disinteressa della trama e si concentra sulle situazioni, fa emergere i messaggi e li sottolinea con una carica inventiva che diventa spirito critico. Si ride delle morti e delle tragedie, si ride della resurrezione di quegli stessi morti e dei caratteri paradossali e viscidi insieme; ma tutto questo aiuta a riflettere, a commuoversi, crea il propellente necessario all’evoluzioni psicologiche dei protagonisti, parlano a noi attraverso simboli facilmente riconoscibili e inseriti nel contesto della storia con mirabile cura e intelligenza.
La scena, vuota, si popola degli stupendi effetti luminosi creati da Angelo Linzalate, che utilizzando colori acidi e pastello differenzia mirabilmente le ambientazioni e gli stati d’animo, dando peso ben maggiore alla semplicità delle scene create da Federica Parolini; la quale fondendo l’ambiente industriale, gli scatoloni ammassati in foggia di scenografia e mossi, ruotati e capovolti con millimetrica precisione a formare ambienti i più disparati, con gusto per il kitsch estremizzato , colorato e luccicante e lo sberleffo, riesce nell’impresa di unire e animare le stampe degli anni ’30 assieme alle caricature più ammiccanti come quella destinata alla Apple, Eldorado asettico e digitale dominato da una enorme ananas stilizzata e, ovviamente, morsa. Di grande effetto la visione dei cinque sovrani, sorta di teste gigantesche rese ancora più mostruose dall’essere formate da brandelli di corpi ammassati in fattezze scultoree; l’utilizzo dei manichini, mossi dagli instancabili servi di scena, che di volta in volta diventano gusci vuoti in rappresentanza del vuoto cerebrale dei protagonisti o cadaveri impiccati e brutalizzati comicamente durante autodafé bizzarri; la presa in giro iconoclasta che accomuna dapprima le cupole dei vari simboli architettonici delle religioni monoteiste, fino alla gabbia dorata a forma di cupola, nella quale una Cunegonda bambola meccanica e di piacere diventa ostaggio di rabbini e cardinali vogliosi; o ancora Paquette che da cameriera meccanica, diventa contemporaneamente icona del denaro e poi icona religiosa e sessuale; tutto questo, dicevo, si assomma per dare allo spettacolo un disegno preciso e coerente con ogni società.
Nel finale, la presa di coscienza di tutti, riporta il punto di vista nella giusta prospettiva di realismo, fede, amore e lavoro: i protagonisti diventeranno servi di scena, come il coro ed i ballerini, e lasceranno che la vita li guidi nella realtà, stavolta uniti e consapevoli della loro maturità.
Ottimi sia i costumi disegnati da Daniela Cernigliaro che le coreografie perfette di Alfonso cayetano.
Molto lieta la scelta di un cast adattissimo alle esigenze del musical: il protagonista, Keith Jameson, ha una voce tenorile chiara, adolescenziale, ben emessa, che fatica un po’ a riscaldarsi nella prima parte, ma che diventa più sicura e sonora nella seconda, unita a intonazione molto buona, ottima dizione inglese e accento che coglie sia il “puro idiota” iniziale, sia l’uomo realista e concreto che si svela teneramente nel finale.
Buona la performance di entrambi i baritoni: il primo, Richard Stuart, nei panni di Pangloss, la cui voce chiara più affine al buffo, tende a caricare più il lato comico e sgradevole del filosofo che la sua canagliesca saggezza, perdendo forse un po’ di compattezza nella linea e nella profondità del personaggio, ma guadagnandoci in simpatia; più disinvolto Gary Griffiths, Maximilian, dotato di bel timbro, di ottima musicalità e di quella duttilità che lo deve portare a cantare anche in falsetto senza perdere morbidezza nel colore; sorprendente Chris Merritt, reduce da una brutta caduta di stile (crowdfunding su Facebook per far ripartire la carriera), ma che se affrontasse questo repertorio, specializzandosi quindi nell’operetta e nel musical, avrebbe ancora molto da dire e da dare, ritrovando quindi nel lavoro stesso, come suggerisce lo stesso finale del “Candide” il riscatto cercato e voluto. La voce ha, soprattutto al centro, un volume di tutto rispetto ed una emissione sicura e timbrata; poco male se in alto e in basso oscilla, visto che i tre ruoli da lui interpretati gli evitano scalate spericolate o discese abissali. Certo, si vorrebbe un gioco di sfumature più calibrato, la stessa sfoggiata, dai suoi colleghi, eppure la lussuria, la sfacciataggine, la corruzione umana emergono nette sulla scena e risulta quindi credibile. Gli auguro di seguire le orme dei suoi illustri colleghi che calcarono e calcano le tavole dei palcoscenici di Broadway con successo immutato come, tra gli altri, Bryn Terfel, Felicity Palmer, Paul Groves, Thomas Allen, Rodney Gilfry, Harolyn Blackwell, Stanford Olsen. I ruoli ci sono e sono ricchissimi di fascino e possibilità.
Un ottimo contributo lo regalano le interpretazioni sempre educate e puntuali di Christopher Lemmings e Gianluca di Lauro, un Ragotzki ed un Cacambo di impagabile disinvoltura, la Paquette puntuta di Jessica Renfro ed i cinque monarchi e inquisitori sonori e musicali di Timothy Martin, Luca Casalin, Hector Guedes, Christopher Turves, Alessandro Calamai.
Purtroppo pesante la zavorra che si trascina sul fronte femminile: Laura Claycomb manca in toto il personaggio di Cunegonde, troppo preoccupata delle note che non possiede, soprattutto in alto, troppo fioco il registro centrale, troppo linfatica l’emissione, troppo dura l’intonazione. E’ spigliata e simpatica, ma non possiede l’altera amarezza di una Anderson, la follia isterica di una Pratt, o il carisma straordinario e piccante di una Chenoweth, né la loro preparazione e sicurezza vocale, né la profondità psicologica richiesta.
Parlare di Anja Silja è un po’ come affrontare la propria Nemesi. Carriera per me incomprensibile, non l’ho mai sopportata, non l’ho mai capita, non l’ho mai apprezzata in nessun ruolo e trovo capziosi anche gli autentici deliri sulle sue presunte doti sceniche e di fraseggiatrice: e se la voce già era sfracellata nel 1960, figurarsi nel 2015 quali delizie è capace di regalarci.
Già nel recentissimo gala viennese dedicato all’indomito beniamino di casa Neil Shicoff, la Silja ci regalava una Contessa nella “Dama di picche” che rantolava sfiatata l’arietta di Gretry truccandosi seduta al pianoforte con l’atteggiamento da fatalona geriatrica. Certo, poi c’erano le risatazze rauche, sovrapponibili dunque al canto ascoltato poco prima, in risposta alle minacce di un Hermann che armato di pistola cercava di estorcerle il segreto delle tre carte; e poi ancora c’era la scena della morte risolta con un incontro sessuale, voluto, preteso e cercato, tra i due culminante in una penetrazione che sanciva la morte della donna, dopo un immancabile urlo asmatico, vetta registica talmente involontariamente comica da iscriversi tra i primi nella mia personale classifica di orrori.
Bisogna riconoscerle di aver sempre scelto ruoli adatti alla sua età anagrafica, magrissima consolazione infatti, e qui a Firenze interpretava, coerentemente, gli abiti della Old Lady.
La voce non esiste, ovvio, non si sente, e nei rari momenti sembrava che in scena ci fosse la leggendaria Natalia de Andrade, con tutto il suo campionario di effetti vocali! Ci fa il favore, la Silja, di sparire spesso nei duetti, nei terzetti e nei concertati, anche se devo ammettere che qualora il canto si esprimeva con l’emissione da cantante di musica leggera, diventava meno sgradevole. Scenicamente passeggia e trova in una accenno di lap-dance, il suo momento migliore. E’ inutile fare paragoni: la Ludwig e Patti LuPone sanno darci ben altre soddisfazioni.
Coinvolta, scatenata, ma irrimediabilmente antipatica e invadente, la presenza del personaggio di Voltaire interpretato da Lella Costa, chiamata a fare da “narratore” tra i vari numeri musicali recitando in inglese, francese e italiano.
Il direttore John Axelrod sceglie la famosa “versione Chelsea”, che nel 1974 presentava a Broadway un “Candide” dotato di un nuovo testo riscritto da Hugh Wheeler, il quale creò di fatto la figura narrante di Voltaire, e rimaneggiato nell’orchestrazione da Hershy Kay e Stephen Sondheim (compositore e paroliere, a sua volta, di grandi capolavori nell’ambito del Musical).
Edizione che all’epoca ebbe un notevole successo, ma che fu mal tollerata dalla librettista originaria Lillian Hellmann e da Leonard Bernstein stesso, il quale solo alla fine degli anni ‘80 darà finalmente una visione definitiva del suo lavoro culminante nell’incisione ufficiale che vide protagonisti Jerry Hadley, June Anderson e Christa Ludwig e ponendo fine, almeno lui vivente, ad una serie interminabile di rimaneggiamenti e riscritture che si protraeva dal 1956, anno del suo debutto.
Axelrod, nonostante avesse potuto osare la versione finale licenziata da Bernstein, dimostra con la sua direzione un affiatamento totale con questo repertorio, un entusiasmo letteralmente contagioso che fa brillare buca e palcoscenico. Una direzione dai tempi rapidi, dalla narrazione vorticosa che non perde mai di vista la brillantezza dello strumentale, la sofisticazione degli impasti sonori, il velenoso, irrisorio sarcasmo alla base della partitura. Ne sortisce una visione meno al vetriolo, dissacrante e malinconica di Bernstein, ma più circense e cinica in termini espressivi, senza sacrificare o perdere di vista gli aspetti più umani o giocosi che sono parte integrante del lavoro. E se l’orchestra risponde con una encomiabile precisione e rotondità sonora, il coro parte malissimo, con le voci femminili che anticipano le battute ed i tenori troppo veementi e urlanti, per poi trovare coesione e compattezza solo successivamente.
Teatro stranamente pieno nell’ultima ripresa, viste le precedenti recite semivuote, e successo trionfale che ha superato la soglia dei quindici minuti.