Murray Perahia è un pianista molto particolare, sempre in un originale equilibrio tra la vecchia e ieratica scuola del primo dopoguerra (scuola nella quale lui si è formato, Rudolf Serkin e Vladimir Horowitz in primis) e la nuova generazione di pianisti che dagli anni Ottanta in poi hanno optato per un ringiovanimento dell’immagine e della discografia. Ed effettivamente basta guardare alla sua carriera per capire il singolare percorso di questo artista americano: dopo un inizio precocissimo e un lungo tragitto nel più classico dei repertori pianistici, da Beethoven a Chopin fino a Mendelssohn, nel 1992, complice anche una pausa forzata per questioni mediche, Perahia scopre (o riscopre) Bach e con esso tutta un’estetica barocca e classicheggiante che ha marcato, e in alcuni momenti contaminato, l’ultimo ventennio della sua parabola artistica.
Il concerto che Murray Perahia ha offerto martedì sera all’affezionato pubblico milanese della Società del Quartetto in un certo senso ha messo in luce molto chiaramente il “Perahia” odierno e il suo contrasto con quello “passato”, con tutte le sue qualità e pure i suoi difetti, complice anche un programma eterogeneo, tradizionale e vasto che dalla Suite francese n. 6 in mi maggiore BWV 817 di Bach è passato alla Sonata in la bemolle maggiore Hob.XVI.46 fino al Beethoven più classico del “Chiaro di Luna” per concludere, passando attraverso Chopin, con un piccolo assaggio dell’ultimo 800 con una mistica pagina di Cesar Franck. Insomma tanta carne al fuoco, forse troppa. E troppo diversa.
Bach Perahia lo mastica bene, con chiarezza e fluidità, riuscendo a risaltare tutte le sottili sfumature e geometrie delle affascinanti e astratte impalcature bachiane. Lo sguardo però mostra una sempre più marcata tendenza al “clavicembalismo”, cioè ad una lettura più secca con sonorità più ridotte, forse anche più che nei fortunati dischi incisi con la Sony. Lettura che emerge anche nel fraseggio discreto ma sciolto, fresco e leggero, quasi saltellante che comunque offre un Bach organico ed equilibrato.
Non diverso è il discorso per Haydn del quale oltre alla già citata sonata, Perahia ha affrontato le Variazioni in fa minore Hob. XVII 6, di ben venticinque anni più tarde. Nella prima pagina, nel più genuino e brillante stile haydiano, Perahia ha optato per una lettura chiaramente galante, tardo barocca, rotonda ed abbondante nella melodia e nitida nel ritmo offrendo un’interpretazione assolutamente godibilissima e scorrevole dal suono chiaro e fresco. Ben diverso il discorso per la pagina successiva, più matura e complessa, con un colore più cupo e preromantico che Perahia ha fatto difficoltà a gestire non comprendendo né quindi riuscendo a rendere il sottile e fragile equilibrio tra Sette e Ottocento che caratterizza questa composizione. La lettura è rimasta squisitamente neoclassica, razionale, brillante ma priva di quella libertà e quello impeto che Haydn sembra richiedere all’interprete.
Slancio che fatica ancora di più a venir fuori con Beethoven nella sua sonata n. 14 op. 27 n. 2, più nota come “Chiaro di Luna”. Superato con intelligenza ma poca intimità il celeberrimo primo movimento e pure il (a mio parere insopportabile) tempo centrale, nel finale Perahia a convinto a metà: da un lato è riuscito ad interpretare con originalità e brio una pagina ormai fin troppo letta e riletta, dall’altro però non si è “lasciato andare”. Forti, fortissimi, salti, gesti affascinano il grande pubblico, danno l’idea di un interprete potente ed invasato. Ma in fin dei conti è nel suono, nel fraseggio, nella musica insomma, che si vede il pianista. Il suono è bellissimo, curato, cristallino, fluido in Beethoven come in Haydn, come in Bach e come pure lo è stato dopo in Franck. Ma forse è proprio qui il problema: a volte può essere richiesto di mettere da parte la geometria e la chiarezza per lasciarsi andare al nervosismo e alla energia e trovare un suono meno cristallino ma più profondo, scuro e denso. E’ il caso, a volte, di Beethoven. E’ il caso di Chopin, che Perahia farebbe bene ad eliminare dal suo repertorio. E’ il caso, senza dubbio di Cesar Franck, affascinante compositore ed emblematica figura di passaggio tra Otto e Novecento. Di Franck Perahia ha proposto il preludio, corale e fuga per pianoforte, composti nell’ultima fase della sua vita, quando il compositore vallone decise di riavvicinarsi al misticismo e alla geometria del suo primo amore: Bach. Si tratta di una pagina intensa, brillante, intrisa di intimità e misticismo espressi con uno straordinario gusto melodico e un virtuosismo di altissimo livello. Perahia ha risposto con intelligenza e sensibilità a tutte queste immani richieste dello spartito, ma, ancora una volta, restando a metà. E’ mancato il suono profondo, rotondo e abbandonato, così come la libertà e il gusto di soffermarsi su alcuni punti, rallentare e godersi ciò che la musica offre.
Alla fine la gremitissima (ed attentissima) Sala Verdi del Conservatorio di Milano ha ringraziato Murray Perahia con un lungo applauso. Forse più alla carriera che al concerto in sé, ma comunque meritatissimo per un pianista che, al di là delle singole scelte interpretative, è sempre riuscito a servire la musica con onestà, sensibilità ed intelligenza. Merce rara, rarissima tra gli artisti di oggi.