Lotte Lehmann (1927)
TURANDOT (esaltata, travolta)
Del primo pianto… sì…
Stranier, quando sei giunto,
con angoscia ho sentito
il brivido fatale
di questo male
supremo!
Quanti ho visto sbiancare,
quanti ho visto morire
per me!…
E li ho spregiati
ma ho temuto te!..
C’era negli occhi tuoi
la luce degli eroi,
la superba certezza.
E per quella t’ho odiato,
e per quella t’ho amato,
tormentata e divisa
tra due terrori uguali:
vincerti od esser vinta…
E vinta son!…Son vinta,
più che dall’alta prova,
da questo foco
terribile e soave,
da questa febbre che mi vien da te!
IL PRINCIPE IGNOTO
Sei mia!… Sei mia!…
TURANDOT
Sei mia!… Sei mia!…Questo chiedevi…
Ora lo sai! Più grande
vittoria non voler!
Non umiliarmi più!…
Di tanta gloria altero,
parti, straniero,
parti col tuo mistero!
Per la verità la donna Turandot si era compitamente palesata già dopo il secondo degli enigmi, quando aveva reagito in maniera diciamo scomposta all’esultanza del popolo di fronte all’incombente vittoria di Calaf. Ma è per certo nel finale dell’opera, qui proposto nel completamento di Franco Alfano, che la Principessa di gelo acquista, seppur in maniera controversa e per certi versi contraddittoria (donde il suo fascino e la difficoltà, per Puccini, di tradurne in musica i moti), pensiero e parola pienamente umani. L’arioso “Del primo pianto” segna il culmine di questa metamorfosi, sottolineata dall’andamento dolce e calmo della melodia, dalla scrittura squisitamente centrale (il limite acuto è il la naturale), all’estremo opposto della drammatica alternanza di accenti e registri diversi che caratterizza la scena degli enigmi e del sorvegliato, quasi ostentato lirismo di “In questa reggia”. Confrontiamo in questa pagina tre celebri Turandot, una (Lotte Lehmann, prima interprete del ruolo alla Staatsoper di Vienna) sporadica, le altre due sistematiche e per certi versi paradigmatiche interpreti del ruolo, tutte e tre celebrate esecutrici del repertorio straussiano. E in effetti una pagina come questa richiama, anche e soprattutto per la necessità di dire e colorare la parola, gli assoli delle grandi protagoniste straussiane, da Marescialla ad Ariadne (altra donna che si apre, quasi inconscia, all’amore), alla Tintora, alla stessa Elektra, almeno nelle scene in cui velatamente minaccia la madre o riabbraccia il fratello. Proprio nell’arte del dire rifulge la Lehmann, che sfoggia un timbro dolcissimo e femminile (di una femminilità ben più corposa, però, di quella esibita dalle moderne, e magari già acciaccate, Mimì e Margherite del Faust gabellate per soprani drammatici), un’attenzione scrupolosa alle indicazioni espressive (ascoltare la frase “C’era negli occhi tuoi”, prescritta in “p dolcissimo”), una grande facilità in passaggi come “E t’ho odiato per quella”, che insistono sulla zona dei primi acuti, il tutto senza che la commozione del personaggio si traduca neppure per sbaglio in bamboleggiamento o svenevolezza. Inge Borkh, pur evitando saggiamente ogni effetto eccessivo, ha la tendenza ad aprire i suoni in zona medio-grave (“con angoscia ho sentito il brivido”), risultando un poco fioca al centro (“e li ho spregiati”, si bemolle) e meno salda di quanto sarebbe necessario nella salita agli acuti immediatamente successiva. Decisamente migliore la seconda parte dell’arioso, in cui la frase “ora lo sai” (sol diesis-si naturale) evidenzia un accorto uso del pianissimo e delle smorzature a fini espressivi. Anche Birgit Nilsson risulta chioccia in prima ottava e la dizione è tutt’altro che ideale, ma dal secondo passaggio in su la voce è il solito prodigio di lucentezza e penetrazione sonora (anche e soprattutto nei piani e pianissimi generosamente profusi) e la cantante risolve con irrisoria e davvero ‘strumentale’ facilità i passaggi più impervi, dall’attacco sul fa diesis di “quanti ho visto morir” sino alla smorzatura sul sol acuto di “col tuo mister”. Nel complesso, comunque, la Lehmann giustifica e comprova di essere la Lehmann ovvero la cantante che sapeva dire e che, senza esagerazione e con misura, coglieva sempre il senso del personaggio. Qui complice una scrittura vocale più comoda di quella pucciniana ( soprattutto chiusa della entrata e certe frasi dei singoli indovinelli) la cantante tedesca è in grado di offrire il ritratto vocalmente e interpretativamente più convincente di questo passaggio dell’opera, spesso tagliato per finire il lavoro con la minor dose possibile di Alfano. A prescindere dalla polemica su completamento, attendibilità ed opportunità degli stessi l’esecuzione diciamo molto femminile delle Lehmann riesce ad essere quella più aderente alle idee interpretative e vocali, che su Turandot circolano dal secondo dopo guerra in poi e hanno regalato un paio di ridicoli tentativi.