Il buio del palcoscenico si apre sulla mente dell’anziano Capitano Vere: un non luogo, o, più probabilmente, il fondo del mare. La sua coscienza è un abisso marino dunque, senza confini, e Vere vi guarda al suo interno, colpevolmente sospeso su un flusso di ricordi dai quali emerge un dolore insostenibile, un dolore che prenderà la forma della sua nave, l’ “Indomitable”.
Tre ponti paralleli, che alla stregua di una gigantesca creatura prigioniera del metallo, delle corde annodate, tese quasi a imbrigliarla e dell’oceano, non smetterà mai di muoversi, di dimenarsi febbrilmente, di tramutarsi negli ambienti della tragedia e di mostrarci prospettive ardite e nuovi punti di vista.
Il mare è ovunque: nelle cinque file di vele blu intenso che gonfie pendono dall’alto e si muovono assieme a tutta la nave; nelle luci che sfumano sfiorate dalla musica, vibrando in tutte le tonalità dell’azzurro, ma capaci di esplodere fiammeggianti nella nebbia; nei movimenti marinareschi del coro, che traducono con il loro lavoro muscolare e coatto l’ondeggiare della marea; nella musica di Britten, che ne è imbevuta.
Davide Livermore, coadiuvato in maniera eccellente dalle scene di Tiziano Santi e dalle luci di Andrea Anfossi e Luciano Novelli, ci accompagna nella sua indagine su questo piccolo regno sospeso nel mare, nel quale la legge può diventare sopruso, nonostante l’amministrazione di un Capitano illuminato, coerente e ammirato, e in cui l’insinuarsi improvviso di una particella di purezza porterà verso una serie di conseguenze umane impensate e ad una distruttiva auto-analisi morale ed etica che coinvolgerà il significato del bene e del male.
Tutto, come dicevo, è coerente: Billy Budd, l’angelo del bene, puro folle, ma non stupido, piuttosto ambizioso, imperfetto a causa della balbuzie che si manifesta nei momenti più concitati e nervosi, che saprà abbagliare i suoi compagni ed il Capitano Vere; il maestro d’armi Claggart, incarnazione vampiresca del Male (il suo scendere al contrario le scalinate, la luce che divide a metà il suo volto, il suo aggirarsi come un incubo espressionista, le cure particolari al foulard rosso di Billy ed a Billy stesso, la soverchiante forza davanti ai gesti di comando), la stessa che coniuga l’intelligenza calcolatrice e marcia di Jago con la tenebra manipolatoria di Hagen, ineccepibile sul lavoro, ma sadico e violento corruttore di anime, che compie il suo compito distruttivo, semplicemente per rimanere fedele alla propria natura e di cui sente, fino alle lacrime, il vuoto dolore nonostante l’attrazione che lo spinge verso la luminosità di Billy e che egli vuole annichilire per soffocare in lui un desiderio celato di redenzione; infine Vere, “starry Vere”, colui che è destinato a ricevere la redenzione del protagonista, colui a cui Billy ha promesso la sua vita fino al sacrificio estremo pur di onorare il proprio Capitano, colui, però, che pur conoscendo la verità, applicando la legge per un eccesso di coerenza, darà la morte a Billy, sostituendosi quasi a Claggart in questo atto dovuto e scellerato insieme, ed il cui peso lo lascerà solo, vecchio, sospeso nuovamente nel fondale marino, alonato da una luce candida, in un finale in cui stavolta il cadavere impiccato di Billy ricorderà il peccato ed il perdono.
Tale è la regia di Livermore: gesti naturali, caratterizzazione personalizzata e cucita addosso ad ogni personaggio, ad ogni corista, attraverso una fisicità ed una appropriatezza di gesti che aumenta il carisma di ognuno e quindi l’impatto psicologico sul pubblico.
Non avrà la profondità del Britten direttore d’orchestra, o il senso analitico di Nagano, o la cupezza di Mackerras, o la levità di Davis, ma il maestro Andrea Battistoni, stavolta stupisce. Ammetto la mia prevenzione nei suoi riguardi dopo ascolti e serate tutt’altro che esaltanti, anzi proprio fallimentari e finite in caciara musicale o verdicidi, ma questa volta Battistoni, che sceglie la consueta seconda versione, padroneggia la materia in maniera più che buona: il piglio impetuoso, il dosaggio dei volumi, i tempi stringati che si aprono in meditazioni di grande intensità emotiva come gli interludi, le tre “arie” dei tre protagonisti, la scena della battaglia navale, tutti momenti diretti con una sapienza che ti aspetti da chi ha approfondito l’autore Britten. E’ una visione fatta di contrasti, anche piuttosto accentuati, come il rincorrersi dei temi alla maniera wagneriana, ma senza il piglio nibelungico: quindi i temi di Claggart ricordano quelli legati a Fafner, ma attenuati dai pianissimi e dalle tonalità minori; Billy ha la leggiadria di uno “scherzo” musicale che si riempie di irruenza acerba quando deve duettare con il virtuosismo dei cori, parenti lontani di quelli del “Tristan” e del “Fliegende Hollaender”; Vere, ha giustamente l’acompagnamento più meditativo, più cerebrale, più calcolato, ma senza manierismi o compiacimenti. Nonostante un’orchestra più che volenterosa, che non si è mai scollata con il palco, ha mantenuto salda la tensione e la coesione, devo registrare suoni vetrosi o cali vistosi d’intonazione negli archi, negli ottoni e nei legni, che per fortuna hanno inquinato la prova solo modicamente. Mi auguro che Battistoni segua questa strada o affronti le prove future con la medesima concentrazione.
i cori si coprono di gloria: impeccabili e preparatissimi sia quello genovese diretto da Pablo Assante, sia quello di voci bianche curato da Gino Tanasini, sia quello del Teatro São Carlos di Lisbona di Giovanni Andreoli.
Pur non essendo debordanti, preziosi o onnipotenti, i cantanti riuniti nel cast hanno offerto una ottima prova di stile essendo tutti specialisti, ma anche di buona educazione e civiltà vocale ed hanno dimostrato di essere, tutti, attori superbi.
Il protagonista Phillip Addis possiede un delicato timbro da baritono chiaro, ideale per un ruolo schietto e giovanile, ed una ragguardevole sicurezza, tale da permettergli di onorare la tessitura acuta del ruolo, il tutto esaltato da un fraseggio di spiccata virilità, che riesce a piegarsi a ricchissime sfumature più intime e commosse.
Alan Oke incarna un Capitano Vere certamente carismatico grazie al fraseggio ovunque appropriato, la cui voce chiara e matura ricorda però quella di un Renè Kollo degli anni ’80: sicuramente meno sicura e più dura rispetto a quella del protagonista, ma ha dalla sua parte una musicalità precisa ed una linea di canto che regge le asprezze di un ruolo irto di spigolosità.
Granulosa e gutturale la vocalità del Claggart interpretato da Graeme Broadbent, non esente però da una sua torva efficacia, soprattutto se unito ad una presenza scenica così inquietante e ad una caratterizzazione che non si esaurisce nella malvagità, ma che esplora anche le profonde e violente contraddizioni.
Il resto del cast formato da Christopher Robertson, Mansoo Kim, Simon Lim, Marcello Nardis, Daniele Piscopo, John Paul Huckle, Alessandro Fantoni, Matteo Macchioni, Claudio Ottino, Roberto Maietta, Davide Mura, Naoyuki Okada, Ricardo Crampton, Alessio Bianchini, Matteo Armanino, Loris Purpura merita di essere menzionato in toto per l’ottimo affiatamento e per la dignità delle singole prestazioni che hanno contribuito ad impreziosire l’esito positivo della serata.
Sala semipiena o semivuota, come preferite, anche a causa della vicinanza de “I puritani” torinesi e della “Jenufa” felsinea e, sospetto, anche perché nessuno faceva il Do e sulla locandina non c’era scritto VerdiPuccini.
Peccato, perché il pubblico ha ringraziato gli artefici con un franco successo e svariate chiamate, scatenandosi in un candescente entusiasmo per i protagonisti, per il coro e per Battistoni.
Billy Budd è un’opera molto bella, una delle più belle del dopoguerra. Avevo visto l’allestimento di Livermore a Torino dove era nato, alcuni anni fa e devo dire che mi è parso, sinora, la cosa migliore che di Livermore abbia visto. Nonostante qualche errore (la corte marziale in piedi e non seduta ad un tavolo) o cosa discutibile, era decisamente, imparagonabilmente migliore di un brutto, discutibilissimo, strampalato Ratto dal serraglio o, soprattutto, di un assolutamente orribile, orrendo, orripilante, ridicolo Idomeneo, che ci siamo visti sul palcoscenico torinese (per di più afflitto da una direzione noiosa e da cantanti o inadatti o fuori ruolo). Anche a Torino era funzionato tutto bene.
anche a me è piaciuto, voglio però sottolineare che un’opera simile meriterebbe una “lettura” ancor più nquietante e ambiga, come voleva il suo autore e i suoi librettisti (e poi…sarà stato forse difficile riunire sei o sette voci bianche tutte di ragazzi…ma quelle fanciulline travestite da mozzo , proprio in quest’opera tutta al maschile, avranno fatto rivoltare nella tomba Britten!). Giovedì ultima replica, da non perdere se possibile.
https://www.youtube.com/watch?v=AAEyeOGDsRs
seppur in versione abbreviata questa è la versione di riferimento , per lo splendido il protagonista e l’interprete di Claggart
Concordo in pieno con la bella recensione di Marianne, soprattutto per la relativa sorpresa di Battistoni (che ho trovato precedentemente già “maturato” nella ADRIANA andata in scena a Sassari lo scorso dicembre) che ha dato davvero una bella e coinvolgente prova.
L’allestimento, che pur io vidi a Torino, l’ho trovato ancora più rifinito e meditato. I tre primi ruoli davvero centratissimi, sia musicalmente che scenicamente.
Un’unica lamentela: possibile che alla Scala non si decidano a presentare questo capolavoro e magari proprio con questo allestimento che è praticamente a “costo zero”?
E’ il mio primo intervento, anche se vi leggo da sempre. Non essendo un grande esperto di voci, seguo solo i vostri commenti, che comunque mi capita spessissimo di condividere nel caso abbia assistito alle rappresentazioni di cui parlate.
Scrivo per porre una questione: quando mai ci capitera’ di sentire dal vivo il Billy Budd nella versione orIginale, quella con l’invettiva di Vere contro i francesi? Ho letto che venne cancellata dopo la prima della BBC con Benjamin Luxon, su richiesta di Pears, perche’ la critica anglosassone disse che sembrava un pezzo dai Pirates of Penzance. Che peccato.
Credo che l’unica versione disponibile sia quella di Nagano.
Credo che proprio a Genova una decina d’anni fa, presentarono la prima versione.
credo che il motivo del taglio sia quello di sempre o, quanto meno, uno dei più tipici del mondo dell’opera ovvero la difficoltà dell’invettiva ed i mezzi davvero modesti del primo interprete del ruolo!
Infatti, e’ probabile che questo fosse il motivo alla base di quel commento all’acido solforico…
esiste l’incisione della prima esecuzione del 1951 stampata dalla Vai.
Intreprete di Billy è l’insostituibile Theodor Uppman
Non avrei mai creduto che proprio in questo sito avrei visto menzionato in termini positivi (se pur brevevemente e genericamente) il nome di Marcello Nardis, mirabile miscela dei massimi vizi qui deprecati: totale dilettantismo vocale e musicale abbinato a viscidi opportunismi e ammanicamenti personali. Tuttavia se la sua prestatazione vi è parsa meritevole di menzione, è stato giusto non tacerlo.