L’ennesima ed inutile Lucia di Lammermoor discografica non meriterebbe, invero, alcuna attenzione da parte nostra (e di chiunque altro), tuttavia si offre come occasione per alcune amare considerazioni sullo stato in cui versa la gestione del cosiddetto repertorio anche da parte di professionisti che, almeno in passato, si presentavano come esperti conoscitori del belcanto. Accade con Jesus Lopez-Cobos alla sua seconda Lucia discografica e mai come in questo caso si addice quanto scrisse Karl Marx nell’incipit de “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte” sul fatto che tutti i fatti della storia universale si presentino due volte “la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”… Nel 1976 Lopez-Cobos incise una versione dell’opera il più possibile aderente al manoscritto originale – ancora non era disponibile l’edizione critica – con il ripristino delle tonalità corrette, la riapertura di tutti i tagli e una generale ripulitura dalle incrostazioni tradizionali (con tutto l’apparato di acuti interpolati, cadenze spurie, semplificazioni e piccole omissioni)…operazione certo ammirevole, almeno nelle intenzioni, ma naufragata già nella scelta dei protagonisti: una Caballé ormai prossima al disarmo e un Carreras che restava quanto di più lontano dal prototipo del tenore romantico donizettiano. A ciò si aggiunga il passo greve e monocromo di burocratico grigiore e l’incapacità di riempire il vuoto lasciato dagli inserti di dubbia tradizione, con materiale stilisticamente coerente (perché non basta eliminare cadenze e variazioni fuori stile, ma bisogna sostituirle con altrettante più adeguate: dato che il genere lo pretende…e non ci si può illudere che l’adesione alla mera pagina scritta esaurisca i compiti dell’esecutore: così come è stupido lasciare la scena della pazzia senza alcuna cadenza solo perché Donizetti non l’ha scritta). Con questa nuova incisione Lopez-Cobos cambia rotta, con risultati ancor più discutibili. Ciò che non muta, invece, è il grigiore di fondo, la noia, la lentezza. Tanto la vecchia Lucia era “integralista” nel rispettare il manoscritto, così questa è disinvolta nel reiterare scelte testuali che si credevano fortunatamente superate. E così ricompaiono i tagli e i tagliettini (per fortuna la scena della torre rimane, ma con alcuni interventi “tradizionali” nella semplificazione della scrittura tenorile), i “da capo” delle cabalette immancabilmente omessi con l’orribile inserimento della cadenza già nell’esposizione e acutazzo finale, le code orchestrali accorciate, le tonalità riportate a quelle “di tradizione” con tutto il conseguente pasticcio armonico e gli squilibri tra i diversi numeri (viene risparmiata solo la sortita di Lucia che conserva il suo originale Mi bemolle/La bemolle maggiore) e così via sino all’orribile cadenzone tradizionale (senza flauto, ma con la glassarmonica), la penultima scena tagliata di netto e l’ultima scena per Edgardo abbassata di mezzo tono come d’uso 50 anni fa… Ma se sconcertanti appaiono nel 2014 queste scelte testuali – ora che è disponibile l’edizione critica dell’opera e dopo che Mackerras e Bonynge, in epoche diverse, hanno mostrato quale fosse la vera sonorità del capolavoro di Donizetti – non è da meno il complessivo livello artistico che davvero ci fa chiedere cui prodest preservare la memoria di un’esecuzione del genere! Nessuna attrattiva, infatti, risiede nel cast. a cominciare dalla protagonista che mi sembra poco plausibile come Lucia: non per questioni tecniche, ma per temperamento troppo algido e distaccato. Certo non è da tutte sostenere i tempi letargici che stacca Lopez- Cobos e in questo dimostra un ammirevole senso del fraseggio e grande controllo del fiato lungo tutta l’estensione. Anche i colori e gli abbellimenti sono eleganti e sobri, ma alla fine oggi ci si dovrebbe aspettare qualcosa di più dal personaggio, dopo la rivoluzione che ne fece la Callas, sottraendola per sempre alla figura diafana e vulnerabile della tradizione precedente. Quella della Damrau resta un’esecuzione corretta, ma non certo memorabile. Lo stesso non si può dire dei suoi compagni d’avventura che si dimostrano non all’altezza del compito, a cominciare dall’Edgardo di Calleja che incurante di ogni connotazione stilistiche si limita a dar fiato all’ugola cantando senza alcuna sfumature con un vibrato robusto più adatto a Canio che al romantico personaggio di Scott: per tacere del disordine vocale nel passaggio di registro, dei patteggiamenti con l’intonazione e il ritmo e un tono generalmente sguaiato che toglie poesia ai momenti più toccanti (particolarmente sgradevole il finale). Peccato perché la dote ci sarebbe pure, ma la scelta alla Di Stefano pare ormai pregiudicare ogni misura interpretativa (e il repertorio che soffre maggiormente è proprio il belcanto che, invece, necessita controllo d’emissione e sfumature). Tezier (Enrico) mostra le corde nel registro più acuto e appare peggiorato in generale. Di scarsissimo rilievo il Raimondo di Nicolas Testé che si segnala solo per essere il marito della protagonista. Orchestra e coro senza infamia e senza lode per un’incisione di cui ci si chiede il senso. E qui si ci si potrebbe dilungare su come debba essere inteso il repertorio e sul valore della documentazione discografica. Sempre più spesso, infatti, si assiste alla trascuratezza elevata a unica cifra interpretative per una larga fetta di titoli (quelli che una volta erano il repertorio propriamente detto) tanto che pare ritornare – fuori tempo massimo – l’epoca dei concerti per primadonna, tale è la pochezza del contorno: con la differenza scontata ed evidente che non ci sono più le figure d’un tempo e le voci che allora cantavano (né le dive, purtroppo o per fortuna). E così si costruiscono esecuzioni che si ispirano alla routine più o meno di lusso (a seconda dei contesti) e alla provincia (italiana, tedesca, francese…). Questa Lucia affidata ad un direttore che nel migliore dei casi può essere solo definito un onesto professionista e con un cast che pare studiato per non far ombra alla Damrau (Calleja compreso, divenuto ormai il “prezzemolino” di tutte le incisioni del genere), si inserisce appieno nella categoria. E qui ci si domanda – ancora – quale debba essere la funzione del disco: preservare la memoria di qualcosa che merita il ricordo o testimoniare qualsiasi esecuzione che pure non va oltre la nmediocrità? Ha senso nel 2014 incidere una Lucia concepita come i praticoni degli anni ’60, tagliuzzata e abbassata e con un cast che non compensa in alcun modo la disinvoltura filologica? Sembrano tornare i tempi della Nuova Era che incideva robe che non solo sarebbe stato inutile ricordare, ma anzi meglio sarebbe stato cancellare al più presto dalla memoria! E poi ci si lamenta che l’industria discografica è sull’orlo del baratro… Oggi assistiamo ad una patologica mancanza di coraggio, di serietà, di fiducia e mai come in questi tempi si assiste alla piena realizzazione di quella illustre scemenza verdiana del “tornate all’antico e sarà progresso”…declinato ora in modo ancor più miope e insensato nel ritornare al vecchiume polveroso e impolverato, non tanto perché “sarà progresso”, ma perché secondo qualcuno non si deve rischiare (anche i recenti Contes d’Hoffman ASLICO sono figli della stessa scuola nel presentare la polverosa Choudens – quando più o meno 10 anni fa la stessa istituzione “osò”, con successo peraltro, la revisione Keck). Io credo che un tale prodotto non solo aggiunga ben poco alla storia discografica di Lucia di Lammermoor, ma che anche contribuisca alla distorsione nell’esecuzione di tale capolavoro per cui oggi non sono più accettabili interventi di così bassa sartoria.
Gli ascolti:
Franz Liszt: “Réminiscenses de Lucia di Lammermoor” – Jorge Bolet:
Chi come me, ha potuto ascoltare dal vivo il direttore Lopez Cobos, nel fatidico Mosè scaligero di anni or sono, e possedendo la sua precedente Lucia discografica utilizzata solo nelle nottate insonni,
potrà acquistarla solo se perdurerà la insonnia ed i rimedi della “nonna”
non funzionassero. Spiace solo che in in disco non si possa ammirare
le fattezze della interprete.