Figlia di un certo retaggio romantico, la vulgata storiografica ha da sempre preferito declinare la figura di Giuseppe Verdi secondo il paradigma del rozzo contadino, dalla burbera verve vernacolare, più dedito alla contrattazione di bestiame nei mercati della Bassa Parmense che al passatempo letterario, in qualche modo culturale. Una prospettiva senza dubbio legittima, che però allontana altre legittime quanto fondate realtà: lettere, pezzi giornalistici e diversi documenti dell’epoca ci restituiscono infatti il bussetano come un attento conoscitore dei grandi letterati e drammaturghi europei – e non solo: «Gustava assaissimo la pittura e la scultura, e ne parlava con acume non ordinario», affermava l’amico scultore Giovanni Dupré – pur riconsegnati tramite le mediocri traduzioni di allora: Manzoni, Schiller, Shakespeare… E Byron. Quel George Gordon Byron da cui prese in considerazione due soggetti, poi abbandonati – La sposa di Abydos e Caino – e che gli ha ispirato in seguito la composizione di due opere, entrambe versificate da Francesco Maria Piave: I due Foscari, andato in scena al Teatro Argentina di Roma il 3 novembre 1844, e Il corsaro, la cui prima ebbe luogo al Teatro Grande di Trieste il 25 ottobre 1848. Un titolo – quest’ultimo – che credo meriti, al saldo del “buono” e del “cattivo” che vi si può trovare, qualche ulteriore spunto di riflessione.
Il soggetto è presto detto. Il corsaro Corrado sconta un esilio forzato su un isola dell’Egeo, dove ama ricambiato Medora. Tormentato da una forte ansia di vendetta e di riscatto verso un’umanità che pare averlo allontanato da una condotta di vita regolare, decide di intraprendere un’ultima impresa: irrompere a Corone fingendosi un derviscio e sconfiggere Said, il pascià. Lo scontro finisce male per il pirata, che viene condannato a morte, ma Gulnara, che detesta Said pur essendo la favorita dell’harem, si è innamorata di lui (perché ha tentato di sottrarla dall’harem!). La donna, una volta dichiarato l’amore a Corrado – che però le confessa di avere il cuore già impegnato – decide di liberarlo e condividerne la sorte. Uccide allora il pascià, e insieme al corsaro torna sull’isola in cui lo attende Medora, che però, consumata dal dolore per un ritorno che tardava ad arrivare, si è nel frattempo avvelenata. Corrado decide così di seguirla gettandosi in mare da uno scoglio. È chiaro dunque come basti un sunto di poche righe del libretto per far risalire l’intermezzo bayroniano della carriera di Verdi alla frequentazione di quell’ambiente romantico, in terra ambrosiana, che faceva capo al salotto della contessa Maffei. Un momento di intenso entusiasmo – non solo per il compositore – che l’ascolto dell’opera – ma sarebbe sufficiente la sola lettura del libretto… – aiuta a evocare, se non a definire, attingendo ai topoi di un movimento che va ben oltre i confini stretti della poetica. Le vicende del corsaro Conrad sono difatti state fonte di ispirazione non solo per Verdi, ma anche per Berlioz (l’ouverure Le corsaire, composta nel 1844 e resa pubblica nel 1855), per Adam (il balletto Le corsaire, del 1856) e per Pacini, che ne presentò una riduzione operistica – sparita dalla circolazione subito dopo il debutto – al Teatro Apollo di Roma nel 1831. Ma a dispetto di quanto fece Jacopo Ferretti per Pacini, che stemperò la novella in versi di Byron in un guazzabuglio ampolloso con tanto di mascheramenti e ruoli en travesti, Piave rimase fedele al poema originale, sia in termini di plot – eccezion fatta per aver fatto sopravvivere Medora e Gulnara perché potessero partecipare al terzetto finale – sia nell’intenzione appunto di mantenere fermi i tratti distintivi del milieu romantico. Che è poi ciò che premeva a Verdi e che – come detto – lo permeava.
L’aria di sortita di Corrado esemplifica e sintetizza bene la sensibilità del compositore nei riguardi della figura che con ogni probabilità deve aver entusiasmato la sua ispirazione. A livello di schietta drammaturgia – e non già di scrittura musicale, sebbene il pregiudizio che si tratti di un’opera completamente scentrata sia stato portato avanti, per decenni, da critici che mai avevano potuto assistere a una sua esecuzione: già dalla metà degli anni ’60 infatti, dopo alcune isolate rappresentazioni a Cagliari (1849/1850), al Carcano e al Carignano di Milano e Torino (1852), a Modena, Novara, Catania, Vercelli, Piacenza e alla Fenice di Venezia (1852/1853), al San Carlo di Napoli (1854), al Teatro in Borgognissanti a Firenze (1856), a Lodi (1860) e a Oporto (1864), Il corsaro scomparve infatti dalle scene, fino alla prima ripresa in epoca moderna a Venezia, nel cortile del Palazzo Ducale (agosto 1963) – il bandito del mare tratteggiato da Piave dev’essere riuscito a incarnare, ancor più di quanto abbiano potuto fare i villain Ernani e Carlo Moor, non solo le peculiarità tipiche dell’eroe del tempo, ma ad aver intercettato in prima istanza i dilemmi e le inquietudini dell’”uomo-Verdi”, per usare la felice sintesi di Marcello Conati. Il recitativo che introduce il personaggio definisce quindi da subito i tratti di una personalità d’azione, tormentata da un’infelice quanto ineluttabile destino di solitudine (“Temuto da costor ed esecrato / infelice son io). Un uomo mosso da smania di vendetta nei riguardi di un’umanità non meglio identificata – come rimane purtroppo vago il cenno a un evento che avrebbe cambiato la sua esistenza – causa di una sorta di isolamento sociale impossibile da ribaltare (non dimentichiamo i gravi lutti e la pesante malattia – conclusa pochi mesi prima delle riflessioni iniziali sul Corsaro – che hanno accompagnato Verdi durante i primi lavori).
Appare a questo punto piuttosto riduttiva la consuetudine che vorrebbe Verdi il freddo rinnegatore della sua creazione, l’autore che l’avrebbe abbandonata a sé stessa addirittura il giorno della prima rappresentazione a Trieste, in barba all’obbligo – prima contrattuale che morale – che prevedeva la presenza del compositore ai debutti delle proprie opere. Certo, mancò l’appuntamento, ma le ragioni vanno rintracciate più nei pessimi rapporti con l’editore Francesco Lucca – a quel tempo il concorrente più in vista di Giulio Ricordi, che Verdi non coinvolse nel progetto al fine di “punirlo” per una recensione poco lusinghiera della sua Giovanna d’Arco apparsa su “La gazzetta musicale di Milano”, il periodico di casa Ricordi – che in un autentico disinteresse dell’autore. Se di lavoro minore si può parlare, lo si deve fare quindi alla luce di diversi fattori, estranei però alla tanto promulgata disaffezione da parte del bussetano. Primo fra tutti, il tempo. Il contratto, stipulato nell’ottobre del 1845, poche settimane dopo il debutto di Alzira al San Carlo di Napoli il 12 agosto, prevedeva la composizione di due opere, da mettere in scena nel 1847 e nel 1848, rispettivamente a Londra e in Italia, la seconda con la garanzia di un cast di primo livello. I fatti che portarono all’abbandono dell’iniziale progetto di musicare Il corsaro per Londra – non senza qualche effettiva reticenza di Verdi una volta avuto tra le mani il libretto di Piave – furono alla base delle iniziali “difficoltà” con Lucca. Così la composizione fu costretta a slittare. Ma quando l’autore iniziò a cullare di nuovo la possibilità di musicare il poema byroniano – anche per adempiere agli obblighi formali con l’editore – i tempi erano fin troppo maturati: nell’economia del corpus verdiano, una partitura composta nel ’45 non può essere assimilabile a un’altra composta nel ’48. Tra il primo periodo di ideazione del Corsaro e la sua relativa messa in musica ci sono Attila, Macbeth, I masnadieri e la prima incursione nel grand-opéra di Jérusalem. Era già iniziato quindi quel processo di progressivo affrancamento dalle strette convenzioni “rinascimentali” degli “anni di galera”. La definizione dei personaggi – ridotti a bozzetti, fatti salvi Gulnara e in parte Corrado – la scansione drammaturgica – invero piuttosto meccanica – ma in particolare la versificazione del libretto erano ferme appunto al grado stilistico del primo Verdi: sarebbe stato impossibile per il compositore tentare di aggiornare il lavoro di Piave alle nuove, più libere forme musicali, tanto che pure un intervento dello stesso librettista sembrava impossibile, poiché nel 1847 si era arruolato nella guardia nazionale della Repubblica di Venezia, e Verdi, causa pressioni di Lucca, non poteva certo permettersi un ulteriore posticipo. Così, pur piegandosi a una stesura “a singhiozzo”, portò a termine Il corsaro, che venne allestito – come già accennato – al Teatro Grande di Trieste il 25 ottobre 1948, con un cast che sulla carta avrebbe potuto facilmente entusiasmare la platea (invece di riscuotere solo una benevola accoglienza, causa forse l’assenza del compositore rimasto a Parigi): Gaetano Fraschini – forse il più verdiano tenore del’Ottocento e uno degli interpreti favoriti di Verdi, già primo Zamoro in Alzira, Stiffelio nell’opera omonima, Arrigo nella Battaglia di Legnano e futuro Riccardo nel Ballo in maschera – nella parte di Corrado, Marianna Barbieri-Nini – prima Lucrezia Contarini nei Due Foscari e Lady nel Macbeth – nella parte di Gulnara, Achille de Bassini – baritono dalle immensi doti d’interprete oltre che dotato di notevole estensione, fu primo Doge nei Due Foscari, Miller nella Luisa Miller nonché Fra’ Melitone nella Forza del destino – nella parte del pascià; insieme alla Berbieri-Nini l’altra voce femminile era, nel ruolo di Medora, quella del soprano Carolina Rapazzini.
Suddivisa in tre atti, l’opera è composta da 12 numeri musicali, preceduti da un preludio a forti contrasti, che attraverso alcune volate del flauto richiama la scena delle streghe di Macbeth, composta l’anno precedente. L’ordinario coro omofonico dei corsari apre la vicenda e introduce il recitativo di Corrado (“Ah, sì, ben dite”), sostenuto con impeto dall’orchestra. La successiva aria in andante “Tutto parea sorridere” rimanda nelle battute iniziali la melodia lineare del Verdi prima maniera, ma la logora ripetizione del motivo viene evitata e sostituita dall’intervento degli archi, su cui si staglia un felice passo declamato dal tenore. “Tempo di mezzo” e cabaletta in tempo di polacca (“Sì; de’ corsari il fulmine”), che richiama senza particolari titubanze “Nell’argilla” dei Masnadieri, conclude la scena con estremo vigore, evitando il facile virtuosismo – manca la cadenza – a favore di una concisione tanto rozza quanto efficace. Il secondo quadro si apre con recitativo (“Egli non riede ancora!”) e aria (“Non so le tetre immagini”) di Medora, la cui introduzione affidata agli archi è un flash-forward che anticipa – quasi si trattasse di una bozza – il tema di “Amami, Alfredo” della Traviata, mentre l’avvio dell’aria è affidato all’arpa, capace di evocare allo stesso tempo la mestizia della protagonista e l’ambiente rarefatto dei lidi egei. L’efficacia della canzone strofica è garantita da fioriture raffinate – oltre che dall’intervento dei fiati: flauto e raddoppio dei clarinetti – non lontane da quelle della grande aria di Leonora nel quarto atto del Trovatore. Le incalzanti figurazioni del successivo duetto tra Corrado e Medora (“No, tu non sai comprendere”), in cui il cambio di armonia da minore a maggiore contribuisce a definire i diversi caratteri dei due amanti, portano alla cabaletta che chiude il primo atto (“Tornerai, ma forse spenta”), di impianto tradizionale sul versante vocale ma meno banale su quello orchestrale. Un coro di odalische, dalle trite venature esotiche, apre il secondo atto e accompagna l’ingresso nell’opera della vera protagonista femminile (Gulnara), il cui andante (“Vola talor dal carcere”) è strumentato con una certa delicatezza, con una soavità d’accento conforme alla successiva cabaletta (“Ah, conforto è sol la speme”), presentata in pieno stile verdiano, con l’orchestra che espone il tema interrompendolo improvvisamente in modo da attendere l’ingresso della voce, che lo ripete dando inizio al pezzo. In un chiosco nel porto di Corone, soldati e duci mussulmani pennellano un clima festoso che introduce l’ultimo dei protagonisti (Seid), il cui ingresso è affidato a un recitativo (“O prodi miei”) e a un’aria (Salve, Allah!”) piuttosto convenzionali, nonostante Verdi riprenda anche qui il cambio di armonia. Il recitativo e il duettino tra Corrado e Seid porta a una mediocre scena di battaglia. Più interessante è la scena finale – di derivazione donizettiana – con un largo che sviluppa una cellula ritmica a sua volta esposta a nuove trasformazioni lasciando distinguibili i caratteri dei personaggi e una stretta in cui affetti privati e ragioni d’onore si fondono con una certa efficacia. L’assolo del pascià che avvia il terzo atto (recitativo e aria “Alfin questo corsaro è mio prigione!… Cento leggiadre vergini”) è interessante per il tema opportunamente variato a partire da “Ma se l’amor che m’agita”, mentre la cabaletta (“S’avvicina il tuo momento”) è forse il motivo più banale che Verdi abbia mai partorito. Invece la celebre scena della prigione e il duetto a seguire tra Corrado e Gulnara – le prime pagine composte da Verdi – rappresentano, per parafrasare le parole del compositore, i passi più riuscite dell’opera, e per l’introduzione orchestrale degli archi, che dipingono un motivo dagli echi marini di rara suggestione, e per l’abbandono della rigida struttura ad episodi in favore di un flusso senza spigolature, degno degli anni della maturità. Anche il finale, portato avanti a partire dal recitativo fiorettato di Medora, non dà alcuna concessione all’ovvio.
Considerate le quattro prime parti nella loro scrittura vocale, è chiaro come Il corsaro sia opera destinata a fini dicitori, capaci di gestire l’autentica emissione a fior di labbro e con la dote della perfetta modulazione in ogni zona del pentagramma, in particolare per quanto riguarda le due protagoniste: nella sua cavatina, Medora rimane ancorata a una vocalità da schietto soprano lirico, capace di padroneggiare i centri nel recitativo e risolvere le improvvise salite in zona acuta delle fioriture nell’aria di sortita. Gulnara è parte ancor più centrale, con una prima ottava corposa – come richiede soprattutto il duetto con Corrado al terzo atto e gli svariati passaggi declamati – e un uso sicuro e timbrato della smorzatura. Da questo punto di vista risulta emblematica la lettera ricca di suggerimenti che Verdi scrisse alla Barbieri-Nini in occasione della prima triestina – altro che disinteresse e abbandono! – in cui il compositore non si risparmia in dettagli che interessano sia l’esecuzione («la cavatina è facile da interpretare […] prendete l’adagio largo e cantatelo a mezza voce. La cabaletta pure prendetela non troppo presto e stringete soltanto le tre o quattro note d’agilità con cui termina»; «nel duetto col basso prendete il primo tempo sostenuto, declamato»), che il coté espressivo («nel duetto col tenore […] dite il recitativo sottovoce e lento: il primo tempo sarà moderato e cercate di esprimere la parola con tutta la potenza dell’anima vostra»; «la cabaletta ditela lenta e cantatela con tutta la passione»). Lo stesso Corrado è di tessitura centrale – raggiunge al massimo il si bemolle4 nel terzetto finale – e prevede un’ampia gamma di colori per risolvere con plausibilità il passaggio dall’emissione impetuosa, quasi violenta del corsaro a quella più raccolta e quindi portata al gioco di sfumature del finto derviscio nel duetto col pascià nel secondo atto. Quasi ad anticipare le tessiture baritonali acute che caratterizzeranno il futuro Verdi – Conte di Luna, per esempio – Said è baritono che necessita di squillo e risoluzione facile del passaggio superiore. Le arcate melodiche di grande respiro (aria del terzo atto) richiedono invece indubbia perizia nel cesellare il fraseggio e nel sostegno costante della cavità d’aria.
A conti fatti, sia sul lato drammaturgico che su quello musicale, Il corsaro appare da subito come un lavoro ibrido, fuori tempo massimo, che presenta squarci di conclamata ispirazione a fianco di altri adagiati sulle formule più tradizionali di un impianto che superato il Macbeth non avrebbe avuto ragione di essere ancora riproposto. Un lavoro insomma che non può non risentire del gap incolmabile tra la sua ideazione e la rispettiva scrittura. Ma malgrado le evidenti flessioni alle convenzioni rinascimentali, rimane a suo modo un’opera carica di vitalità e di furore barbarico, che procede per sottrazione, che fa leva sulla concisione per fare piazza pulita di ogni rigurgito di retorica e ogni eccesso di enfasi. Forse tratteggiano bene la forza tellurica del Corsaro alcune, focose righe di Bruno Barilli dedicate a Verdi: «Sembra l’uomo nato apposta per spazzare via col suo pugno sterminatore ogni parassitismo intellettualistico, per mettere in fuga la musicologia ragionante, per scomporre le tele di ragno dei sistemi metafisici […] Egli ignora la parafrasi, s’intromette furiosamente, taglia i nodi con la roncola, e fa scorrere lacrime e sangue esilaranti, piomba sul pubblico, lo mette tutto in un sacco, se lo carica sulle spalle e lo porta a gran passi entro i rossi, vulcanici dominii della sua arte». Se questo è il guanto che ci offre Il corsaro, sta allora al verdiano più incallito accettare o meno la sfida.
Gli ascolti
Giuseppe Verdi
Il corsaro
Atto I
Preludio – Carlo Franci(1971)
Come liberi volano…Ah sì, ben dite…Tutto parea sorridere…Sì: de’ Corsari il fulmine – Giorgio Casellato-Lamberti (1971), Carlo Bergonzi(1981)
Egli non riede ancora…Non so le tetre immagini – Katia Ricciarelli(1971), Rosalind Plowright (1982)
E’ pur mesto, o Medora, il canto tuo…No, tu non sai comprendere – Giorgio Casellato-Lamberti & Katia Ricciarelli (1971)
Atto II
Oh, qual perenne…Nè sulla terra…Vola talor dal carcere…Ah, conforto è sol la speme – Pauline Tinsley (1970), Angeles Gulin (1971), June Anderson(1982)
Sol grida di festa…O prodi miei…Salve Allah – Renato Bruson (1971)
Giunge un Dervis…Di’: que’ ribaldi fremono…Prode invero – Renato Bruson, Giorgio Casellato-Lamberti, Angeles Gulin, Maurizio Mazzieri, Nereo Ceroni (1971)
Atto III
Alfin questo corsaro…Cento leggiadre vergini – Renato Bruson (1971)
Vieni, Gulnara…Sia l’istante maledetto – Terence Sharpe & Pauline Tinsley (1970), Renato Bruson & Angeles Gulin (1971)
Eccomi prigioniero…Non sai tu che sulla testa – Keith Erwen & Pauline Tinsley (1970), Anlfonso Navarette & June Anderson (1982)
Voi tacete…O mio Corrado, appressati – Rosalind Plowright, Alfonso Navarette & June Anderson (1982)
Piccolo errore Carlotta. Il primo Ernani fu Carlo Guasco. Fraschini era stato il primo Zamoro in Alzira
Grazie per avermi segnalato il refuso. correggo subito.