Quando venne varata questa produzione di don Carlos se ne parlò come di un evento perchè in grandi teatri (dapprima lo Chatelet di Parigi poi il Covent Garden) venne offerto al pubblico il grand-opéra verdiano del 1867, anche se poi erano soppressi i balli ed i battuta in battuta si poteva verificare quale dei più don Carlos venisse realmente offerto al pubblico. Tralasciamo il problema non essendo questa la sede e veniamo al grottesco allestimento che, per quel che ci interessa trasformava il convento di San Giusto in un banuelo di araba memoria di cui la Spagna del sud ad onta della pulizia non solo etnica ma pure religiosa serba ancora ampie vestigia. Solo che architetture arabeggianti (ripeto da banuelo o da Albaicin) configgono inesorabilmente con la storia, che si offre nel melodramma verdiano.Per altro il conflitto evidente è anche quello fra la vocalità del grand-opéra e quella di Karita Mattila e Roberto Alagna, poche coppie di innamorati del dramma verdiano sono state a partire dall’aspetto fisico peggio assortite. Al fisico da vikinga di Elisabetta si oppone quello da brachitipo mediterraneo di Roberto Alagna e la stridente differenza prosegue con il canto.
La Mattila nell’aria sfoggia suoni sordi ed opachi in prima ottava “riposo PROFONDO”, pie’ del Signore” e la pace dell’avel nella seconda sezione dell’aria ed appena compaiono note moderatamente acute (gli acuti parchi di una parte per soprano cosiddetto Falcon) tipo “godi” la cantante emette suoni duri e fissi. I tentativi di smorzare ovvero di eseguire forcelle il solito “Francia” i “verd’anni” si risolvono in serie di fissità ed il tipo di emissione esclude la possibilità di eseguire una forcella. Preciso che dal vivo a Londra nel giugno 1994 e Nizza nel marzo successivo la cantante finlandese era ancor più evidente nei propri difetti vocali e nella sua sostanziale estraneità alla vocalità da opera italiana o di vocalità all’italiana. Per altro a parte qualche titolo di Mozart e un carente approdo alla Maria del Boccanegra sotto l’ala protettrice di Claudio Abbado il rapporto della Mattila con la vocalità italiana è stato scarso e soprattutto di scarsa qualità.
Anche Roberto Alagna è estraneo a questa vocalità per la quale sono irrinunciabili scansioni eroica ed acuti squillanti per i quali Alagna non vanta oggi né vantava allora il controllo del fiato ed anche se lo avesse posseduto la voce, in natura, era da opera comique e non già da Palais Garnier.
Per rendersene conto basta sentire come Alagna, ad onta della freschezza vocale e della dote naturale sia stimbrato ed afono nella replica ad una fissa Matila nel passo, che dovrebbe essere cantato solo dolce e piano “Ma lassù…”, dove sia chiaro anche il direttore –oggi super mega ciber divo- con un tempo letargico e non disponendo, che so di Pertile e della Ponselle, addormenta pubblico e dramma dei due innamorati fiaccandone la limitata tempra vocale.
Del secondo convento, oggetto di questa nostra penitenziale puntata, è possibile salvare unicamente la direzione d’orchestra. O meglio, il suono compatto, omogeneo, classicamente “bello” che l’orchestra torinese è in grado di distillare sotto la guida di Gianandrea Noseda, soprattutto nell’introduzione alla grande aria di Elisabetta e nella sezione conclusiva del duetto. Non certo nella finale “resa dei conti” tra il principe e i suoi oppressori, in cui i clangori si sprecano. Inutilmente, perché, almeno dalla ripresa radiofonica, non riescono a soffocare fino in fondo i suoni, per descrivere i quali mancano le parole, provenienti dai solisti di canto.
Barbara Frittoli e Ramón Vargas sono esemplari nell’esibizione di una decozione vocale, frutto di saltuaria applicazione delle regole del buon canto, applicate per giunta con evidente fatica e sforzo sovrumano, congiunta a scelte di repertorio sconsiderate, anzi scriteriate. Letteralmente. Sono infatti voci nate per il repertorio mozartiano e selezionatissimi titoli di quello donizettiano e belliniano, applicate con regolarità e per sistema a titoli in ogni senso troppo pesanti per loro. Non abbiamo insomma, come in altre puntate, Mimì e Rodolfo al convento di San Giusto, al massimo Adina e Nemorino, prossimi al capolinea. Entrambi i cantanti, al momento dell’esecuzione proposta anagraficamente prossimi alla cinquantina (l’italiana ancora lontana dal fatidico traguardo, il messicano poco oltre lo stesso) denunciano una condizione vocale che vivamente consiglia l’immediato abbandono delle scene per sopraggiunti limiti non di età, ma di decente prestazione professionale. Impossibile scendere in dettagli esaustivi, perché questo comporterebbe chiosare ogni battuta o quasi. Per la Frittoli valgano i suoni spampanati, da esausta Barbieri, in prima ottava alle parole “conoscesti del mondo”, il “Francia”, che dovrebbe evocare il paradiso perduto delle memorie patrie e suggerisce invece più prosaici cigolii, il grido sul la diesis acuto de “il pianto mio” alla cadenza conclusiva dell’aria, che il pubblico torinese inspiegabilmente applaude. Quanto a Vargas, basta la frase “sublime eccelso avel” in cui i labem e sibem esemplificano, qualora fosse necessario, che cosa debba intendersi per acuto tirato e indietro. In una simile babele (ma forse sarebbe più opportuno un termine meno neutro) vocale è semplicemente impensabile parlare di interpretazione, perché con simili assetti vocali non si riesce neppure ad essere corretti esecutori del testo musicale. E in effetti il principio, cui entrambi i cantanti sembrano uniformarsi, è quello di “portare a casa”, o meglio a conclusione, l’opera, al punto che la Frittoli non esita a scontarsi la salita al si naturale de “il sospirato ben che fugge in terra ognor” (purtroppo, quello che conclude l’opera non conosce lo stesso misericordioso esito). Ovviamente il duetto viene proposto in versione integrale, con apertura del taglio di tradizione “Sì l’eroismo è questo”, che risulta, a conti fatti, la cosa meno discutibile, ché se la salita agli acuti è sempre malagevole, non appaiono i suonini privi di appoggio, contrabbandati (con scarso esito) per piani e pianissimi, che si manifestano, soprattutto per il soprano, al successivo “Ma lassù ci vedremo”.
Gli ascolti
Verdi – Don Carlo
Atto V
Tu che le vanità…E’ dessa! Un detto, un sol…Sì, per sempre!
Barbara Frittoli, Ramón Vargas (con Ildar Abdrazakov, Marco Spotti, Roberto Tagliavini – dir. Gianandrea Noseda – Torino 2013)
Tutto vero…. purtroppo! Non posso che trovarmi di nuovo d’accordo con Donzelli, dopo il confronto Guerrini/Opolais dell’altro ieri. E senza la necessità di riascoltare i brani proposti, perchè già li conosco ed un ascolto basta!
Alagna: un vero peccato che non abbia dimostrato un po’ più di intelligenza nella scelta dei ruoli, perchè con una voce naturalmente così bella poteva fare grandi cose (magari anche stando un po’ più attento alla tecnica….)
La Mattila, però, può far di peggio. Rimando, a tal proposito, alla Tosca di cui ho già [s]consigliato l’ascolto: http://www.youtube.com/watch?v=lde9CvSRYnM.
Parafrasando il libretto di Auden e Kallman per “The rake’s progress” (atto 2 sc. 1) si potrebbe commentare “Si dice che temibili guerrieri, gente che non arretra al tuono dei moschetti, siano svenuti appena l’hanno [udita]”!
Vidi l’allestimento l’allestimento di Bondy (quello della produzione dello Chatelet) solo in video e, se pur la ripresa valorizzava taluni scorci suggestivi e i bei giochi di luce, la visione complessiva era effettivamente poca cosa: ho trovato molto brutti il quadro dell’autodafé, quella specie di “porziuncola” finita chissà come in un severo convento spagnolo, lo studio di Filippo con una specie di brandina militare…orrendi anche i costumi (in particolare quello del Re). L’edizione, poi, risulta un guazzabuglio incomprensibile di versioni assemblate senza alcuna coerenza (così che risulta fuorviante la presentazione come “versione originale francese del 1867” come si legge sul dvd). Personalmente trovo molto più coerente e riuscita la revisione in 4 atti del 1884, ma se proprio si vuole recuperare il primo atto allora è meglio inserirlo nella versione originale, rinunciando ai miglioramenti della revisione, ma guadagnando in coerenza stilistica: e se già è compromessa nelle versione Modena 1886, ancora peggio è saltare da un’edizione all’altra senza alcun criterio. Pappano dirige bene, ma Verdi non è il suo autore ideale (e le scelte di testo ne sono una prova). Sul cast nulla da dire, anche se su Alagna la penso diversamente, nel senso che – per quel che ho sentito – il suo Carlo è molto interessante (e non è scritto da nessuna parte che Carlo debba essere stentore ed eroico..anzi)