E così siamo arrivati in fondo a questo mese di proposizioni rossiniane in chiave sinfonica. Nessuna classifica per i passi di assoluta qualità che abbiamo sentito, testimonianza di una civiltà , che mi permetto di affermare oggi latita. L’omaggio finale è giusto sia dedicato a Vittorio Gui, che dalla metà degli anni ’20 propose i titoli del Rossini comico in versioni attendibili e che avrebbero aperto la strada a quella che oggi è l’esecuzione filologicamente rispettosa. L’esempio più significativo la Rosina in chiave di mezzo, anche se non era una novità assoluta perché a Parma nel 1916 era stata proposta con Fanny Anitua e per quel che è dato sapere Eugenia Mantelli ebbe sempre in repertorio la pupilla sivigliana. Per certo, però, con Vittorio Gui inizia un interesse filologico a Rossini. Non è mistero che la prima edizione critica del 1968 quella che servì per le riprese milanesi e venne approntata da Alberto Zedda mutui molto da uno spartito che lo stesso Gui aveva predisposto sulla base dell’autografo. E qui mi fermo perché il recente Aureliano in Palmira pesarese ci ha indotto a riflessioni sulla filologia, che occuperanno i prossimi mesi e che, a nostro avviso, ci indicano strade nuove ed ulteriori rispetto alle precedenti.
Ma l’osservazione cui il grande maestro fiorentino (allievo di Mancinelli, che passava dalla prima esecuzione dell’integrale di Beethoven a Figlia del reggimento tagliata su misura per la Sembrich ed assistente di Toscanini) filologo in nuce animato dal giusto desiderio di mettere in scena quello che l’autore aveva pensato (tesi condivisa con un’altra grande bacchetta italiana dedicata all’800 pre verdiano ossia Gino Marinuzzi) è la seconda parte del titolo, sino ad oggi taciuta ovvero : un direttore al giorno TOGLIE IL FILOLOGO DI TORNO.
Questo era il titolo originale e questo è stato il criterio ispiratore di questa parata. Gui per primo si pose dei problemi, non li risolse, alcuni magari li risolse in senso antifilologico, ma quando impugnava la bacchetta lo faceva da grande direttore. Questa è una sinfonia di Cenerentola staccata a tempi veloci, che non manca né di solennità né di ampiezza, che non scambia l’ultimo titolo comico (ma lo è veramente?) per una farsa né tanto meno per un intermezzo del ‘700 eppure nel contempo sono banditi clangori e pesantezze da tardo ottocento. Insomma perfettamente equilibrato, elegante, raffinato e grandioso al tempo stesso.