Così Giuseppe Verdi stigmatizzava di proprio pugno la distanza tra il suo Don Carlo e quello della verità storica. Invenzione teatrale pura, sebbene non originale, derivata notoriamente da Schiller (1787), a sua volta inseritosi in una tradizione teatrale di matrice protestante, che favoleggiava di un principe Carlo eroico e passionale, in conflitto con l’imperatore.
Il Carlos innamorato della matrigna Elisabetta di Valois, concorrente per amore con il padre Filippo, era leggenda diffusasi per propaganda politica antispagnola, al fine di denigrare la figura dell’imperatore, dipinto come personaggio cupo e geloso, e la corte, attraversata dalle trame ordite a danno del figlio ribelle. Si trattava di romanzi storici come il Don Carlos di Vishard, del 1672, o di quello più noto di Otway, del 1676, ove gli amanti morivano per volontà del terribile Filippo. Anche Vittorio Alfieri, nella sua tragedia “Filippo”, pubblicata nel 1783, aveva ripreso il tema della rivalità amorosa tra Carlos e l’imperatore, ma non tanto in accezione politica quanto per descrivere le ossessioni dell’uomo preda dalla volontà assoluta di dominio e potere, capace di spingersi sino al delitto del figlio e della moglie. Solo Schiller, però, aveva tratto da quello stesso spunto fantastico una tragedia politica, religiosa ed umana di eccezionale forza teatrale, con esiti di critica e pubblico trionfali, che intrecciava ideali d’amore, amicizia, libertà, ragion di stato e storia. Ogni personaggio possiede, nella tragedia schilleriana, una dimensione gigantesca e statuaria, che fuse con la verosimiglianza storica, ben la rendeva idonea alle esigenze dei soggetti da Grand’Operà.
Fedelissimo al personaggio di Schiller, il Carlos di Méry e Du Locle è, dunque, una mera invenzione letteraria, che non lascia spazio ad una dimensione del personaggio diversa da quella del principe erede al soglio imperiale, destinato alla sconfitta sentimentale e politica di fronte all’inflessibilità della ragione di stato. Nessun taglio interpretativo aderente alla verità storica del vero figlio di Filippo, che mai ebbe alcuna relazione amorosa con la matrigna e per giunta mentalmente instabile, inadatto, perciò, alla successione imperiale, può aver spazio per un interprete. Il personaggio è amoroso e passionale, con continue alternanze di sentimenti tra il lirico e l’eroico: pienamente romantico, Don Carlos è certo il meno regale e statuario delle figure protagoniste, il meno “Grand’Operà”, se così si può dire. In Schiller come in Verdi è un principe per natali, che durante tutta l’opera è in contrasto con il proprio stato sociale e le regole che questo impone alla sua condotta. E’, dall’inizio alla fine del libretto, il vero sconfitto dell’opera. Da un punto di vista teatrale, inoltre, Carlo non ha i connotati per emergere sugli altri con la forza spaventosa e ieratica di un Filippo o dell’Inquisitore; né la straordinaria nobiltà e forza di ideali politici ed umani di Posa; né con la dirompente e sensuale aggressività di Eboli.
Quanto al lato vocale, poi, Don Carlo possiede i caratteri tipici del tenore verdiano maturo come del tenore da Grand Operà, su modello di Prophéte e, prima ancora, Juive. La tessitura non è acuta, certo, ed oscilla costantemente tra il centro e la zona cosiddetta di passaggio di registro acuto ( mi-fa diesis ), con svariati acuti da eseguire ormai solo“di petto”, che non passano il si nat ( la-la bem in particolare ), nessun ornamento, a meno di un paio di trilli nell’aria di ingresso della versione in 5 atti. La scrittura, in compenso, è ricchissima di segni di espressione, indicazioni di piani, forti, messe di voce e smorzature, corone. Descrivendolo in modo sintetico e a grandi linee, si può dire che il personaggio ha due lati sostanziali, uno lirico e amoroso, che canta in zona pressoché centrale, ed uno eroico, che canta di slancio e squillo, in zona di passaggio ed immediatamente sopra, sui primi acuti. Talvolta anche certe frasi amorose, però, si fanno concitate e di slancio, ed in quelle occasioni la tessitura tende ancora a salire.
Ruolo idoneo sia ai tenori lirici che a quelli cosiddetti “di forza”, dunque, ha subito nel tempo una certa evoluzione interpretativa, in particolare durante l’affermazione del tenore spinto alla fine del XIX secolo e con l’opera verista. Ad ogni modo, un ruolo che presuppone una grande facilità a cantare sul passaggio alto e a squillare, per ogni genere di voce e di interprete, sebbene non abbia mai costituito un must tenorile, almeno sino all’età moderna.
La storia degli interpreti di Carlos, infatti, parla chiaro: a parte la scarsa circolazione dell’opera, per molto tempo un Grand’Operà sensibilmente meno attraente di altri come Prophéte, Huguenots, Africaine…., Carlo non ha saputo attrarre incondizionatamente tutti i più grandi tenori della storia, forse perché il lato vocale, al di là di quello drammaturgico, non apparve un cimento irrinunciabile per coloro i quali ambivano collocarsi in cima all’universo tenorile. A qualificare un tenore superstella erano altri ruoli. Di qui assenze vistose, come i nomi di Caruso, di Pertile, Gigli, Lauri Volpi oppure le frequentazioni men che occasionali di altre celebrità, sebbene fondamentali, come Tamagno ec.. E la storia delle incisioni discografiche parla altrettanto chiaro: agli albori del disco la grande aria del 1 atto, quella della versione dell’opera in 4 atti in italiano, è stata incisa soltanto da Bernardo De Muro e da Hermann Jadlowker ( nel 1913 ), mentre esistono due leggendarie incisioni del duetto Carlo- Posa, una Caruso – Scotti, l’altra Martinelli – De Luca. Un nonnulla di fronte alle incisioni relative alle parti di Posa e Filippo, tanto che anche il “Dio che nell’alma infondere“ vien da pensare che siano stati i baritoni, e non i tenori, a volerlo incidere.
Jean Morére, interprete di Carlos alla prima del 1867 all’Operà di Parigi, non era una celebrità assoluta dei suoi tempi. Fu artista di prima compagnia solo dal 1861 al 1869. Morì pazzo nel 1871 poco dopo la sua fuoriuscita dal palcoscenico parigino. Sappiamo che aveva in repertorio La Muette de Portici, Ebrea e Trovatore, ma anche che non fu uno dei più famosi tenori dell’Operà, non godendo, nelle cronache del tempo, degli onori tributati ai vari Gueymard, Roger, Achard. Fu una delle note negative del criticato cast della prima, tanto che la sua inadeguatezza portò Verdi ad abbandonare, durante le prove, le bozze di una seconda aria di Carlo da inserire in capo al V atto e a sostituirla con il “Tu che le vanità” di Elisabetta.
Alla prima londinese del Covent Garden del 1867, Don Carlo fu un tenore di levatura superiore, Emilio Naudin, già primo interprete di Africaine nel ’65 all’Operà di Parigi, per espresso desiderio di Meyerebeer. Aveva una voce lirica, di bel timbro, ed ampiezza di fraseggio unite a capacità sceniche. Famosissimo Duca di Mantova, cantava Luisa Miller, Puritani, Poliuto, Fra Diavolo.
I primi interpreti di Don Carlo, su modello di Naudin, furono tenori non ancora di vocalità lirico spinta quale oggi siamo abituati a sentire. Coniugavano ancora il belcanto, quello di Bellini e Donizetti soprattutto, con le parti del Grand Operà.
Carlo Mongini (1829-74), di timbro baritonale, ma esteso e ricco di squillo. Aveva in repertorio Ugonotti, Profeta, Forza del Destino, ma anche Barbiere, Flauto magico, Figlia del Reggimento e Marta. Giuseppe Capponi, di timbro metallico e squillo, stando al Monaldi, fu Don Carlo a Torino nel 1867, alla Scala nel ’68 dietro a Fancelli, a Padova nel ’69, a Cremona nel ’74. Giuseppe Fancelli ( 1833-88 ), una sorta di Pavarotti ante litteram stando alle descrizioni sia della voce come del cantante e dell’interprete. Aveva in repertorio Lucia, Dom Sebastién, Trovatore, Africana, Aida, Lohengrin. Fu uno dei Don Carlos delle recite scaligere del 1868, poi a Torino e Venezia nel ’70, di nuovo a Torino nel 1877. Su questa scia altro interprete di Don Carlos fu Mario Tiberini (1826-80), tenore contraltino da Linda Chamounix, Matilde Shabran, Puritani, Lucia, Sonnambula, quindi Ugonotti, Favorita, che approdò anche al Ballo in maschera. Tutti interpreti, però, della prima versione parigina in 5 atti, voci liriche ed estese in alto.
La messa a punto della versione in 4 atti, con lo spostamento dell’aria del tenore prima del duetto con Posa, rimaneggiata ed abbassata di un tono in modo da poterla inserire nella scena del convento, pare costituire una svolta nella storia interpretativa di Don Carlo. La versione dell’84 andò in scena alla Scala di Milano, protagonista Francesco Tamagno. A quell’epoca Tamagno non era ancora il cantante straordinario che passò alla storia grazie alla creazione del primo Otello verdiano. Sempre il Monaldi ci descrive un tenore di voce formidabile, ma ancora privo, in quella data, di ogni qualità di cantante ed attore. Una sorta di Fancelli, si disse, dalla voce possente e saldissima, ma ….greve. Tamagno non passò senza lasciar traccia sul ruolo di Carlos, almeno a ben vedere i tenori che lo seguirono immediatamente nel ruolo. O forse il tempo ed il gusto erano ormai maturi perché Carlo passasse a tenori meno lirici e più spinti. Negli anni ’80-’90, a cavallo del remake verdiano dell’opera, fu Francesco Signorini (1861-1927) ad impersonare Carlo con maggior frequenza nei teatri italiani: a Modena nel 1886, Genova nel 1887, a Parma nel 1889, a Trieste nel 1895, a Milano nel 1897, Roma ancora nel 1910. Era allievo di Tamberlick, dotato di voce di grande qualità e squillo, elegante e sapiente fraseggiatore. Aveva in repertorio Ebrea e, Tell, Trovatore ed Aida, Ernani e Profeta, Cavalleria ed Ugonotti, secondo il modello di quegli anni di tenore cosiddetto “di forza”.
Alla Scala di Milano, nella ripresa del 1912, si esibì poi quello che è passato alla storia come il primo epigono di Francesco Tamagno, cioè Bernardo De Muro (1881-1955), tra i primissimi a lasciarci una documentazione audio (disco acustico) dell’aria di Carlo. Non certo aiutato dalla presenza fisica, più adatta al Don Carlo della realtà storica che non a quello reinventato dal teatro, De Muro fu un cantante straordinario sul piano dello squillo, del timbro ma anche del fraseggio, soprattutto in prima fase di carriera, quando il gusto non era ancora contaminato dagli eccessi veristi. (L’aria incisa è bellissima per lirismo ed accento. Esegue le forcelle scritte con grandissima espansione lirica ma sempre nella misura del gusto: direi che forse nessuno mai ( nemmeno quello che a me pare essere stato il più completo Don Carlo, ossia R. Tucker ) le abbia eseguite come lui. De Muro non spinge, non singhiozza, non urla, espandendo progressivamente la voce con dolcezza e slancio al contempo. Se questa testimonianza può rappresentare il gusto dei tenori di forza di inizio secolo, possiamo ritenere che i loro Carlo fossero assai più stilizzati ed eleganti di quelli dispensatici dai nostri moderni tenori lirici.)
In quello stesso anno a Berlino fu Hermann Jadlowker, ad impersonare Carlos forse per la prima ed unica volta nella sua carriera, occasione nella quale incise l’aria.
Un elemento è certo le prime registrazioni testimoniano che don Carlos rientrava nelle corde dei cosiddetti tenori drammatici o di forza.
Categoria alla quale appartenevano senza dubbio Francesco Merli e Giovanni Martinelli, il primo in Italia fu il protagonista dell’opera tra il ‘26 ed il ’47 a Roma, Bologna, Venezia e Napoli. Il secondo vestì i panni dell’Infante nella prima al Metropolitan ( versione in 5 atti ) del 1920 e poi nel 1922.
Le scelte propiziate da grandi direttori circa il protagonista furono un poco differenti circa la tipologia vocale del protagonista. Il Don Carlo di Toscanini alla Scala fu un tenore francese, Antonin Trantoul (1887-1966) nelle produzioni del ’26 e del ’28. Di Toulouse come già Morére, era stato allievo di Jean de Reszke. Cantava Manon, Trovatore, Lohengrin,Rigoletto, Carmen, poi Otello e persino Nerone. Criticato per limiti di estensione e volume, ad onta del repertorio praticato, pare che fosse abile nelle mezze voci ed elegante interprete.
Anche Franz Voelker, il don Carlos di Bruno Walter e di Clemens Krauss a Vienna nel 1936, non era a stretto rigore un tenore drammatico, anche se nella seconda parte della carriera eseguiva Otello e Siegmund. Aveva però una voce bellissima, timbrata e cantava con grandissimo gusto.
All’immagine vocale ottocentesca di don Carlos si attenne il bulgaro Teodor Mazaroff l’altro don Carlos di Walter (che sia detto a smentire il disinteresse delle grandi bacchette gli insegnò la parte personalmente) dalla voce squillante, facilissima in alto tanto da interpolare in vero stile grand-opera alla chiusa del duetto con Posa uno scintillante do acuto. Sul podio, ripeto una grandissima bacchetta Bruno Walter, sostenitore e complice dell’arbitrio, stilisticamente lecito, teatralmente esaltante.
Il dopoguerra vede una ripresa cospicua e costante dell’opera di Verdi. Vede anche l’abbandono progressivo dei tenori di forza di questo ruolo a vantaggio di tenori classificati come lirici o, al più lirico spinti. Ma forse la verità è altra e differente. I tenori di forza del dopoguerra che rispondono ai nomi di Ramon Vinay, Mario del Monaco e tutti i suoi epigoni erano in realtà tenori centrali impostati sul gusto e sulla scrittura vocale verista (il confronto fra l’Otello di Merli e quelle de due sopra citati ne è la dimostrazione) che nulla per vocalità e gusto di fraseggio avevano a che dividere con il cosiddetto tenore di forza di stampo ottocentesco che come Martinelli spaziava dal Tell all’Otello passando per tutto o quasi il repertorio Verdiano
Il 1950 vede due grandi riprese quella del Maggio Musicale con Mirto Picchi e al Met quale opera di debutto dell’era Bing, protagonista Jussi Bjoerling, una voce pienamente lirica, di gran timbro, ma comunque facilissimo a squillare negli acuti.
Picchi, Don Carlos per un decennio in quasi tutti i teatri italiani, non brillava per qualità vocale, ma per finezza di espressione e fraseggio che si addice al personaggio.
Il Metropolitan proseguì con i limiti del mercato delle voci nella tradizione del tenore di forza sul ruolo di Carlos soprattutto con Rickard Tucker dal ’51 al ‘72, e Franco Corelli. Forse Tucker, il tenore più versatile di cui abbia disposto il massimo teatro americano, richiamava per lo squillo i tenori drammatici di stampo ottocentesco, mentre Corelli, titolare del ruolo sin dall’epoca del debutto italiano ed al Met nel 1964, 1970, 1972, era più vicino ai modelli post romantici.
Ma al Met come in tutti i teatri italiani l’Infante passò a tenori lirici o poco più, spesso tenori lirici di “seconda fila”, talora imprestati al repertorio spinto, come Eugenio Fernandi ( voce superba ma poco stile ed eleganza anche scenica, stando alle critiche ), Bruno Prevedi, Sandor Konya, Flaviano Labò.
E anche quanto negli anni settanta riprese il gusto di proporre l’opera in cinque atti il protagonista ebbe sempre la voce e soprattutto il fraseggio di un tenore lirico o al più lirico spinto, ma idoneo a Puccini e Cilea, piuttosto che a Verdi
Il riferimento può avere ad oggetto Giuseppe Giacomini, protagonista al Met nel 1979 delle riproposta versione in cinque atti dopo che l’anno precedente in Scala lo erano stati Placido Domingo e José Carreras e, prima Veriano Lucchetti a Venezia nel 1973 in un tentativo di proporre l’originale del 1867 (tradotto in italiano, però). Migliore tra i lirici, a mio avviso, certamente Jaime Aragall, Don Carlos innumerevoli volte, che univa qualità timbrica, lirismo, nonchè facilità negli acuti come nell’accento di forza, oltre che bellissima presenza scenica.( Per i suoi ascolti vi rimandiamo direttamente agli estratti presenti su You Tube. )
Ad illustrazione degli ascolti proposti ( vi inviato anche a rifrequantare le pagne dedicate ad Elisabetta, Eboli e Posa ), qualche appunto circa i contenuti vocali della parte di Don Carlo.
Aria Carlos
In 5 atti
Aria in do maggiore. Il recitativo ha carattere lirico. Alcuni passaggi sono da cantare dolci ed estatici già sul passaggio. L’aria, andante poco mosso, è scritta prevalentemente sul passaggio o immediatamente a ridosso. Sono scomode le frasi in chiusa “Dio sorridi al nostro affetto…ah benedici..“ con forcelle che obbligano a messa di voce e smorzatura, portando la voce anche all’acciaccatura sul si nat – la nat. Sul si nat centrale di “Casto amor “ e corona sul re centrale in chiusa per cadenza o altro.
In 4 atti
L’aria, rimaneggiata e trasportata un tono sotto a quella della versione in 5 atti, ossia in si bem maggiore, si differenzia per un recitativo da subito concitato e disperato. Vi son frasi ampie, che richiedono capacità di esecuzione di lunghe messe di voce, come quella già prescritta in recitativo sulla “ foresta di Fontainbleu”. L’aria è un andante cantabile, più corta di quella originaria, ma che ha la peculiarità di salire decisamente in chiusa in passaggi come quello “ vita il triste albor m’hai rubato… “ con messa di voce e portamento scritto sol-la. Subito dopo di nuovo su “amor m’hai rubato” la salita legata con messa di voce fa – si bem, discesa sul fa con smorzatura sino al pp; in chiusa le battute disperate “Ahimè. Io l’ho perduta , io l’ho perduta”, con smorzatura scritta iniziale su “ahimè”, forte sul primo” Io “, tre ppp con messa di voce e smorzatura sull’ultimo “perduta” .Vi è maggiore concitazione da parte di Carlo nella scena così concepita rispetto a quella scritta per Parigi.
Duetto Elisabetta Carlo, versione 5 atti.
Allegro moderato assai Re bem magg che poi diventa un allegro giusto nella stessa tonalità. Recitativo tra i due che conversano: la scrittura è centrale, con frasi che tendono a salire sino al la nat solo in chiusa “…al vostro più lo giuro….”. Verdi prescrive già nel recitativo forcelle .
La chiusa è allegro moderato assai, in mi maggiore “Sparì l’orror della foresta…”, di scrittura meno centrale, densa di messe di voce e smorzature, segni di pp e FF.( come quello sul si bem acuto tenuto di “…il cor lo fece…” ), p e dolce, dolcissimo, con salite al si bem o al la acuto. La zona del passaggio acuto è battuta con frequenza dalla scrittura In questa parte del duetto Carlo canta sopra Elisabetta, per poi tornare di nuovo all’allegro come in precedenza e cantare all’unisono.
Duetto Carlo –Rodrigo
In do diesis min. Allegro giusto poi poco più mosso ( “Mio salvator mio fratel..”). Tessitura centrale che poi si impenna ( “Tristo me tu stesso tu stesso, mio Rodrigo t’allontani…” salto di ottava si bem centr-si bem alto ) e che poi scende in certe frasi come “Ti seguirò fratello “( mi bem in 1 rigo). Il “Dio che nell’alma infondere “ allegro moderato 4/4 in do magg. Qui il canto è eroico, con note accentate sulla zona do centrale-sol acuto. E’ prescritto un segno di corona sul la nat di “tu dei di libertà”, mentre la battuta che unisce la prima alla seconda strofa sull’ “Ah..” prevede ben due segni di corona , il primo sul do centrale ed il secondo sul fa con messa di voce e smorzatura, ossia lasciando ai due interpreti la libertà di tenere le note a piacere e forse anche di interpolare qualche piccola cadenza, stile Grand’Operà. Altro segno coronato in chiusa, sul la di “…DEI di libertà..”.
La tessitura di Carlos batte continuamente sul passaggio alto di registro, che deve essere perfettamente in ordine per consentire al tenore di avere la voce sonora, alta ed in grado di eseguire gli accenti che Verdi espressamente richiede.
Poi di nuovo alla fine del duetto, allorquando il coro dei Frati passa con il Re e la Regina, il canto di Carlos si fa disperato sulle frasi “Ei sua la fe. Io l’ho perduta….ei sua la fè! Ah Gran Dio….io t’ho perduta…”, dove sale sul FF prima al la diesis e quindi al si nat sul F dopo avere eseguito la forcella prevista sui fa in 5 rigo.
Duetto Elisabetta –Carlos, 2.
Inizio del duetto, con il recitativo, largo e poi subito allegro agitato.
Carlo inizia composto ma subito si agita ( “Quest’aura m’è fatale…”) e con veemenza, secondo prescrizione di libretto (” Tal nome no..”); quindi quando arrivano le frasi più intense e con disperazione , da cantare forte FF, la tessitura si fa scomoda, dal mi bem al la acuto, insistendo anche qui sul passaggio di registro ( “Il cielo avaro un giorno…”). Nel successivo andante Carlo ha di nuovo frasi scomode sul passaggio che prescrivono anche la messa di voce sulla zona re-la acuto ( “Ah perché mai parlar non sento…”) ed altre da eseguire di vero slancio sul FF ( “ Insan piansi pregai nel mio delirio…” ) in zona sol-si bem acuto. Il canto amoroso ha una scrittura appena più bassa, ma sempre espressamente legata e con forcelle.
Di nuovo il canto lirico e estatico delle frasi “Qual voce a me dal ciel”, che partono dalla zona bassa fa-mi in primo rigo per poi salire lentamente sino al la bem in “… come ti vidi un dì..” con messa di voce, e poi la naturale, poco dopo, in “…bell’adorata, bell’adorata..”; quindi la chiusa con l’allegro agitato in do minore di “Sotto il mio piè si dischiuda la terra…” che non varia di molto la tessitura di passaggio della prima parte del duetto, insistito sui “ Io t’amo. Io t’amo Elisabetta..” do-fa, do-sol, sol-la bem.Il duetto da solo potrebbe bastare a descrivere la vocalità di Carlo, con il suo alternarsi di stati d’animo ora lirici ora concitati.
Scena del Giardino: duetto Carlo- Eboli e terzetto con Posa.
Di nuovo Carlo canta un allegro agitato in re bem magg “Sei tu, sei tu bell’adorata”, che dovrebbe essere eseguito “sottovoce” e “sempre a mezza voce”, su una scrittura legata abbastanza centrale, che di nuovo si alza nelle frasi, sempre prescritte “ di slancio”, “L’universo obliam! te sola cara io bramo!….” che arrivano sino al si bem acuto. Sull’andante mosso che segue la scrittura è centrale o sale più dolcemente su frasi come “…Ah nol credete ad ora ad ora….”, sino al momento più acuto del si bem tenuto di “Qual mistero a me si rivelò..”.
Le frasi del terzetto prevedono che il tenore esegua i primi acuti con grandissima facilità e squillo, per svettare sulle due voci che fanno pedale. Le frasi “Stolto fui. Oh destin spietato….” lo portano ad eseguire sul F la bem tenuti, quindi il canto concitato a tre, introdotto dal tema in mi min “Trema per te falso figliuolo…” di Eboli, che sale in chiusa sulle frasi accentate “Ah questo suolo, ah questo suolo si schiuderà….” in zona scomoda re-mi-fa, sino al si nat tenuto in chiusa. La fine della scena, insieme a Posa, nella ripresa del tema del loro duetto, non muta la necessità di squillo e di accento epico.
Scena sulla piazza di Nostra Dona de Atocha
L’ensemble dopo l’entrata dei fiamminghi e l’intervento di Filippo II “ Su di lor stenda il Re la sua mano..” attacca proprio con una serie di mi bem ripetuti, ampie messe di voce su re bem e mi bem ( “….duol, pietà….” ) , per poi passare ai primi acuti sol-la bem e poi si bem di “Signor pietà…”, il tutto sul FF, per poi ridiscendere verso il centro nelle frasi di mezzo “ Signor trovi pietà il Fiammingo nel duol…”, quindi di nuovo risale con la messa di voce sul re bem-mi bem di “ ..l’estremo sospir…”, ed il la bem tenuto e scritto smorzato di …”ah pietà..”…etc…e via così sino alla fine, con un interminabile sequenza mi-fa-sol-la di “….signor pietà del Fiammingo…” .
E’ inutile descrivere le frasi concitate in cui Carlo minaccia Filippo davanti a tutti, con la famosa salita d’impeto al si naturale di ”…sarò tuo salvator…”, perché arcinoto, come pure quelle che seguono la morte di Rodrigo e rivolte da Carlo a Filippo. In questo momento dell’opera, più che altrove, la vocalità di Carlos riecheggia la grande scena del IV atto del Prophéte nel Duomo di Muenster, quando Jean de Leyda rinnega la madre.
Duetto Carlos-Elisabetta 3.
“E’ dessa.Un detto un sol “ in sol minore. Dopo le prime battute centrali arriva presto una frase ampia sul passaggio, che parte dal do e sale sino al si bem, da cantare “con entusiasmo” eseguendo una messa di voce scritta: “Io vo che a lui si innalzi sublime eccelso avel…”. Di nuovo Carlo deve poi alternare frasi da eseguire “in dolcissimo” sul passaggio (“Vago sogno…”) con altre centrali (“e nell’affanno un rogo…”) con presagi di morte e quindi la visione finale di vittoria (“..a lui ne andrò beato…..plauso o pianto ne avrò dal tuo memore cor…”) sempre sul passaggio superiore sino al la nat. Ancora sul passaggio le frasi esaltate del Marziale successivo….” …e se morrò per lei la mia morte fia bella…etcc”. Ritornano anche i portamenti di voce scritti, già presenti all’inizio dell’opera: è il gusto del Grand’Operà che impone al tenore di salire, in questo caso nel passaggio scomodissimo fa diesis- la nat, eseguendo l’ennesima ampia messa di voce e seguente smorzatura nella ridiscesa verso il centro.
La sezione finale del duetto, lirica e quasi estatica, che immagina una felicità ultraterrena per i due protagonisti, “Ma lassù ci vedremo” in si magg., è uno dei punti più adatti ed amati dai tenori lirici. ” Tutti i nomi scordiam degli affetti profondi…” sta quasi interamente nella zona re –la della voce, che deve essere sonora perché contemporaneamente il soprano esegue una lunghissima messa di voce sino al FF.
Gli ascolti
Verdi – Don Carlo
Atto I
Fontainebleau…Io la vidi – Mirto Picchi (1950), Giuseppe Giacomini (1979), Placido Domingo (1983), Dano Raffanti (1990)
Io l’ho perduta!…Io la vidi e il suo sorriso – Bernardo de Muro, Jussi Bjorling (1950), Mirto Picchi (1951), Franco Corelli (1961), Richard Tucker (1964), Bruno Prevedi (1969)
Il duolo della terra…La sua voce!…E’ lui! desso! l’Infante! – Todor Mazaroff, Piero Pierotic & Carl Bisutti (1937)
Dio che nell’alma infondere – Enrico Caruso & Antonio Scotti (1912), Giovanni Martinelli & Giuseppe de Luca, Todor Mazaroff & Piero Pierotic (1937)
Io vengo a domandar grazia – Jussi Bjorling & Delia Rigal (1950), Mirto Picchi & Maria Pedrini (1950), Eugenio Fernandi & Sena Jurinac (1961)
Atto III
A mezzanotte…Sei tu, sei tu, bella adorata – Todor Mazaroff & Piroska Tutsek (1937), Franz Völker & Viorica Ursuleac (1933), Bruno Prevedi, Shirley Verrett & Vicente Sardinero (1971), Franco Corelli, Grace Bumbry & Sherrill Milnes (1972)
Ed io che tremava al suo cospetto – Viorica Ursuleac, Franz Völker & Emil Schipper (1933)
Sire, egli è tempo ch’io viva – Richard Tucker & Nicolai Ghiaurov (1964), Franco Corelli & Nicolai Ghiaurov (1966), Pedro Lavirgen & Nicolai Ghiaurov (1970), Giuseppe Giacomini & Nicolai Ghiaurov (1979), Corneliu Murgu & Ruggero Raimondi (1983)
Atto V
E’ dessa…Ma lassù ci vedremo – Giuseppe Giacomini & Renata Scotto (1979), Corneliu Murgu & Eva Marton (1983)
Vago sogno m’arrise! ei sparve – Franz Völker & Hilde Konetzni (1936)
Scusate se faccio sempre la figura dell´incontentabile,ma secondo me Flaviano Labó andava incluso.
Ciao
Intendo naturalmente incluso tra gli ascolti.Ah,secondo voi chi sarebbe oggi un interprete attendibile?
Si. La verità è che nell’elenco mi è scappato. Ma hai ragionissima.
Oggi? Attendibile che vuol dire? Al pari dei nominati prima?
………vidi Alagna al debutto e non è che mi abbia impressionato,tanto che non me lo ricordo.
Vargas? Aveva voce bella, ma non è tenore da Verdi………
Tu chi vorresti?
Mah…davvero non saprei.L´ultimo che ho ascoltato dal vivo é stato Vargas a Vienna,quattro anni fa,nella versione originale.Ho il video di Villazon ad Amsterdam,ma niente di che…sinceramente,non vedo interpreti attendibili in giro.
Complimenti e grazie per le esaurientissime note. Indispensabili per chi voglia andare al di là del puro ascolto passivo e… regressivo.
Come è possibile cara Giulia che Alagna non ti abbia impressionato. Per quanto mi riguarda ho ascoltato Alagna nel Don Carlos (in versione originale) al teatro dello Châtelet, e posso dirti che mi ha molto impressionato. Ma quello che mi ha impressionato è stata la maniera invereconda con la quale apriva in continuazione i suoni rendendoli fibrosi e stimbrati, poichè il ruolo batte molto sul passaggio il risultato fù uno stupro per le mie orecchie. Il fraseggio poi era generico e trasandato, l’emissione non aveva niente di veramente impostato, era molto sguaiato anche nei centri, niente di aulico e niente di nobile, un canto sbraccato, insomma da pescivendolo, i falsettini non si cantavano. Ma quel Don Carlos fù tutto brutto vocalmente.
………era , infatti, un modo per dire che era…tremendo!
Per altro quel Don Carlos con Alagna, nonostante la tendenziosa e fuorviante dicitura "versione originale", è in realtà un guazzabuglio di tutte le versioni esistenti, confezionato dal mero arbitrio di Pappano e non corrispondente ad alcuna logica: un lavoro di "taglia & cuci" anche all'interno degli stessi brani…segno della totale disinvoltura (per non dir di peggio) del direttore targato EMI nel trattare la materia verdiana…
Riflettevo se non sia stato un peccato che Carlo Bergonzi si sia limitato a un Don Carlo solo discografico. Sono convinto che nel 1965, con un registro acuto ancora saldo e una capicità di sfumare ancora intatta, avrebbe potuto essere un infante di assoluto rilievo anche sulle tavole di un palcoscenico.
Voi che ne pensate?
CAro Lele,
“don Carlo Bergonzi” vanta, che io sappia, una performance in teatro, nel 1955, Trapani, Villa MArgherita, in compagnia di Adriana Guerrini, Myriam Pirazzini, Ettore Bastianini,Giorgio Tozzi, diretti da F.Del Cupolo.
Anche non la pensiamo come te.
MI piacerebbe chiedere a Bergonzi come mai questa assenza vistosa per chi cantava comunque l’Aida.
Forse erano Tucker Corelli Picchi i Carlos ufficiali???
saluti
Di questo Don Carlo bergonziano del 1955, confesso che nulla sapevo. Dubito peraltro che fosse per un motivo di concorrenza, che Bergonzi non affrontasse negli anni successivi l’Infante; penso piuttosto che fino ai ’60 inoltrati il ruolo non attirasse più di tanto i tenori di cartello, tanto è vero che – almeno in Italia – in quel periodo la parte fu appannaggio (con tutto il rispetto per artisti intelligenti come Picchi) di tenori di seconda schiera. Poi, quando le produzioni aumentarono di numero nel decennio successivo, non è forse infondata l’ipotesi che i Corelli e i Tucker egemonizzassero in qualche modo il ruolo.
E’ chiaro che bisognerebbe sentire l’interessato, ma opinerei che il motivo di quest’esperienza mai ripetuta vada cercata in un limitato interesse di Bergonzi per la parte. E’ un peccato, perchè un tenore che io sentii ancora nel 1987 a Macerata cantare un don Alvaro quasi perfetto, avrebbe potuto per un buon ventennio incarnare un infante di assoluto rilievo.
Saluti a tutti
Scusate, ma la Rigal è veramente terribile… Un tubo di plastica… Grande Bjorling (evidentemente era una di quelle sere in cui aveva lasciato la bottiglia a casa!!!).
Ma poi chi era sta Rigal? Balla ovunque nel centro… Un orrore!!!
Il si acuto di Murgu nella scena della minaccia è calante… E Raimondi è un po’ verista ed esagitato (l’Insensato… Chieder tanto ardisci… è più parlato che cantato, oltre al fatto che la tessitura – essendo troppo bassa per Raimondi – è affrontata con aperture di suono secondo il mio parere eccessive… Si conti che è un re grave, nota che anche un basso-baritono dovrebbe prendere senza eccessivi problemi). Si noti che il Ghiaurov del 64 è sensazionale… La voce è enorme, bellissima, ampia, regale… Il suo Insensato è dominato con facilità estrema… E la protervia, poi… Davvero regale!!!