Il convento di San Giusto: il convento del grand-opéra. Seconda puntata: Delia Rigal/Jussi Bjoerling vs. Eleanor Steber/Richard Tucker

DonCarloBjorlingRigalLa lunga gestione di Rudolf Bing al Metropolitan iniziò con una produzione di Don Carlo, titolo assente da quasi trent’anni dal palcoscenico newyorkese. Per l’occasione Bing radunò un cast che schierava, accanto al divo Jussi Bjorling e a cantanti in rapida e sicura ascesa quali Robert Merrill e Jerome Hines, i debuttanti Fedora Barbieri e Cesare Siepi. E qui la chiosa si impone, perché i due italiani erano debuttanti nel teatro e non certo in senso assoluto, avendo già alle spalle dieci anni di carriera nei teatri italiani, Scala in primis. All’epoca valeva ancora il motto riportato da Maria Callas, e che oggi appare assai appannato, in forza del quale nei grandi teatri, Scala o Met o qualsiasi altro palcoscenico di paragonabile rilevanza, era necessario giungere “già fatti” e non “da fare”. Segnaliamo peraltro come la parte della Voce celeste fosse sostenuta da un’altra debuttante, già corista dell’Opera di San Francisco, Lucine Amara, destinata a una lunga e fruttuosa carriera da solista, non solo al Met. A riprova del fatto che, per sostenere una carriera della durata di svariati decenni, non è sufficiente essere “lanciati”, magari con un consistente battage pubblicitario, da un grande teatro.

La parte di Elisabetta era sostenuta da un’altra debuttante nella sala del vecchio Met, l’argentina Delia Rigal, che dal 1942, poco più che ventenne, aveva sostenuto ruoli di primo piano al Colón di Buenos Aires, cantando soprattutto Traviata ma anche Simon Boccanegra (alternandosi alla diva del Met Zinka Milanov), Aida, Ballo in maschera, Forza del destino, Manon Lescaut, Oberon, Armide, L’amore dei tre Re. Insomma quel che si dice un repertorio di tutto rispetto, e la scelta di proporla come Elisabetta di Valois non dovette sembrare peregrina agli amministratori della sala newyorkese. Più perlessa la critica, che non mancò di notare, oltre al contegno scenico sempre appropriato e alla naturale bellezza della voce della signora, una certa difficoltà ad assicurare ampiezza e precisione di intonazione in fascia centrale e una diffusa fatica in acuto, osservando altresì come solo all’ultimo atto la cantante riuscisse a rendere pienamente giustizia al personaggio dell’infelice regina di Spagna. C’è anche da dire che all’epoca era ancora vivo e presente, tanto al pubblico quanto alla critica, il ricordo di cantanti quali Rosa Ponselle e Zinka Milanov nei ruoli del tardo Verdi. Riascoltata oggi, avendo nelle orecchie le prove delle più recenti e quotate Elisabette, Delia Rigal risulta non solo una cantante di solido e comprovato mestiere, ma un’artista. È vero che la voce di soprano lirico fatica soprattutto in prima ottava, dove compaiono suoni un poco tubati, e che la dinamica non è sempre varia e sfumata come si converrebbe alla malinconica sovrana in meditazione sulla tomba del suocero, ma la capacità di cantare piano e onorando le indicazioni “molto dolce” ed “espressivo” frasi che dal grave salgono ai primi acuti, come “Se ancor si piange in ciel”, rivela una preparazione tecnica oggi quasi impensabile, prima ancora che inudibile. Idem dicasi dall’attacco, con regolamentare smorzatura, sul fa4 di “Francia”. Insomma, pur delineando una regina maggiormente a proprio agio nello slancio eroico del duetto con Carlo e che sovrasta senza difficoltà solisti, orchestra e coro nel si naturale (tenuto, come da tradizione, a dismisura) che chiude l’opera, la Rigal dimostra un controllo dei “ferri del mestiere” che all’epoca era condizione necessaria ma non sufficiente per esibirsi in un teatro anche solo di media importanza, e che oggi farebbe di questa cantante un vero e proprio asso nella manica per qualunque teatro interessato a proporre i titoli del grande repertorio, verdiano e non solo. La proposta dell’atto di San Giusto è anche un tardivo omaggio alla memoria dell’artista, scomparsa, ultranovantenne, nel maggio di quest’anno.

Accanto alla Rigal abbiamo il Carlo di Jussi Bjorling, voce splendida, interprete capace di trovare accenti più consoni all’innamorato figliastro che non al principe ribelle alla gerarchia regale ed ecclesiastica. Gli nuoce il paragone diretto con l’altro Carlo oggetto di questa conventuale puntata, mentre Delia Rigal, seppur meno elettrizzante della “rivale” Elisabetta, si difende con valore e risulta meritevole, se non di un ripensamento critico, almeno di un secondo e ben meditato ascolto.

SteberCi troviamo a San Giusto, o meglio, ai “cloisters” fuori New York, con le superstars del Met, Eleanor Steber e Richard Tucker. Una delle mie esecuzioni preferite in cui due grandi artisti danno vita ad un’esecuzione in cui si accordano unità di intenti interpretativi e modi di cantare.
L’affinità vocale tra i due è grandissima, entrambe le voci dotate di perfetta omogeneità tra i registri, sonorità e proiezione della voce dai gravi sino agli acuti, uso del fiato magistrale, capacità di flettere la voce su ogni nota, dizione molto nitida ( talora con certi “raddoppi” delle consonanti tipici dei cantanti di lingua anglosassone), incisività di accento. Entrambi dotati di mordente, il suono sempre a fuoco anche nei piani, non osarono mai addentrarsi fino in fondo nel repertorio pesante, di cui praticarono alcuni ruoli ,senza mai lasciarsi risucchiare là ove noi , oggi, spediamo qualunque voce minimamente corposa. Analoghi per i modi tecnici, analoghi come interpreti, ma sdilinquiti o abusati, mai esteriori, esecutori sempre fedeli allo spartito.
Di questo finale d’atto, aria di Valois e duetto Valois-Don Carlo, ci hanno lasciato una straordinaria esecuzione, tutta di punta e mordente, fatta di accenti aulici, come si addice ad una storia da “grandi di Spagna” che ancora nel rivedersi parlano di politica, di ideali e di eroismo, ma anche di lirismo e dolcezza quando i sentimenti amorosi sono apertamente espressi. Il loro cantare “da Met”, ossia da grandi sale americane, dove avere proiezione della voce era ( e sarebbe anche oggi ) prima necessità per il cantante, l’espressione suonata e scandita al tempo stesso, ci consente di ascoltare un canto più variegato di quello cui noi oggi siamo abituati in forza di una generica “liricizzazione” di questo repertorio, avvenuta grazie a voci famose ma che possedevano solo alcune delle caratteristiche necessarie per affrontarlo.
Eleanor Steber canta la sua grande scena senza mai venire meno allo spartito, amministrando il canto con assoluta facilità. Non perde una forcella, anzi si compiace di eseguirne altre oltre a quelle indicate da Verdi, come quella su “Francia”, oppure quella ampissima “ i fior cantino il nostro amor “, eseguendole con una facilità ed una naturalezza strabilianti. I gravi sono sempre alti, sonori, privi di fatica. La chiusa dell’aria è introdotta da una grande accelerazione su “Addio addio, bei sogni d’or, illusion perduta..“ che esprime la concitazione che porta al finale: dopo la discesa al “ la pace dell’avel”, libera la voce sui la acuti finali tenuti, note piene, proiettate e fermissime, un ascolto appagante, che termina nelle ultime battute, un po’ esagitate e recitate, da live in teatro.
Richard Tucker è un Don Carlo dall’accento nobile ed eroico, in virtù del focus sempre perfetto del suono: la messa di voce che esegue su “io vo che a lui s’innalzi sublime eccelso avel” e che porta al si bem acuto è un po’ la sigla dell’intera esecuzione del duetto. Esegue con facilità il dolcissimo di “ Vago sogno m’arrise”, senza sdilinquirsi in eccessivi lirismi. La scena, infatti, entra subito nel marziale “Si l’eroismo è questo” attaccato da Elisabetta: la Steber accenta con grande vigore, perché il tema del duetto non è ancora l’amore bensì la politica. E subito Tucker replica con grande squillo “m’ha vinto in si gran dì l’onore..”, l’assonanza degli intenti espressivi tra i due cantanti è completa. Solo a “Ma lassù ci vedrem..” la scena politica assume i tratti di duetto d’amore ed il canto dei due protagonisti cambia: lei attacca in piano, con grandissima dolcezza, quindi Tucker replica in modo estatico. Il virtuosismo vocale coincide con l’espressione toccante in momenti come la messa di voce sul si nat di “il sospirato ben” del soprano. Un ‘esecuzione completa, direi da antologia, che ben rappresenta lo stile ed il canto della migliore tradizione americana.

Giulia Grisi (Steber/Tucker) e Antonio Tamburini (Rigal/Bjorling)

 

TuckerDonCarlo01Gli ascolti

Verdi – Don Carlo

Atto V

Tu che le vanità…E’ dessa! Un detto, un sol…Sì, per sempre!

Delia Rigal, Jussi Bjorling, Cesare Siepi, Jerome Hines e Luben Vichey – dir. Fritz Stiedry (1950)

Eleanor Steber, Richard Tucker, Jerome Hines, Nicola Moscona e Louis Sgarro – dir. Kurt Adler (1955)

4 pensieri su “Il convento di San Giusto: il convento del grand-opéra. Seconda puntata: Delia Rigal/Jussi Bjoerling vs. Eleanor Steber/Richard Tucker

  1. Evviva si son uditi i famosi acuti cavallini, di cui sarà regina incontrastata la Mara Zampieri. Questo Don Carlo ha una direzione stranamente lenta, che però fa emergere ancor più la liricità e melanconia dei due personaggi.
    La Rigal ha uno strumento potente e duttile ma privo di fascino nonostante sia attentissima alle prescrizioni di Verdi, mentre risulta inattiva alla costante dizione sul mezzoforte di Bjorling, cui seguiranno esempi di cattivo canto sopratutto in Carreras. Il finale è moscio non per Siepi ma per la marmellata orchestrale di Stiedry

  2. Ma dopo tanto tempo ho riascoltato
    quell’ultimo atto con Tucker e Steber,
    che non sono infallibili, a livello di metodo.
    Ma che meraviglia di teatro verdiano pero’,
    Mai che barino una volta, mai.
    Danno tutto quello che hanno, e senza
    mai dimenticare fonazione, sostegno,
    accento…beh, mi sono ancora emozionato,
    non sono infallibili, sono stupendi.

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