Ascolti comparati: De’ miei bollenti spiriti.

deluciaIn preparazione all’imminente Traviata, riflettiamo sulla parte di Alfredo Germont con un confronto tra tre grandi classici del canto tenorile di grazia appartenenti a tre generazioni diverse: Fernando de Lucia, Tito Schipa e Alfredo Kraus. Un confronto sereno, alla pari, tra vocalisti illustri, ad anticipare le noiose lamentele di chi ogni volta giudica questi ascolti comparati come strumentali solo a denigrare artatamente un cantante del presente con paragoni squilibrati e scegliendone appositamente le performance più infelici.

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Partiamo dal più antico, De Lucia, che inizia ad incidere dischi già in fase calante di carriera, a differenza degli altri due. Anche i riversamenti più recenti ed attendibili di questo controverso tenore sembrano confermare che quest’aria è stata incisa abbassando la tonalità di mezzo tono; considerando che  la nota più acuta prevista dal brano è appena il la bemolle, l’abbassamento trova spiegazione logica solo nella scelta assai discutibile di inserire un acuto nella cadenza finale (un la naturale, la nota più alta che De Lucia poteva raggiungere con sicurezza in piena voce all’epoca di queste registrazioni). A parte questo il documento è del massimo interesse per le doti espressive e la grande abilità tecnica nel cesellare le dinamiche ad ogni altezza. Caratteristica saliente di De Lucia è la libertà nel tempo, che non è mai metronomico ma sempre malleabile nell’uso continuo dei rallentando. Interessante come al pianoforte il Maestro Sabajno assecondi questa tendenza ad esempio rallentando gli accordi che collegano le prime frasi dell’aria. Il cantante alle prese con i copiosi segni dinamici dello spartito non si limita a rispettarli ma ne enfatizza l’esecuzione dilatando i tempi, come nel crescendo di “ella temprò col placido sorriso”,e nei due successivi di “dell’universo immemore”, culminanti con un sol naturale smorzato e assottigliato fino ad un’impalpabile mezza voce. Impressiona la ricchezza di armonici che la voce acquista accedendo alla zona acuta, che anche il rudimentale sistema di registrazione riesce a restituirci, oltre alla tavolozza coloristica (il timbro, piuttosto scuro, è distante dal canone di voce tenorile chiara e brillante) e all’escursione dinamica dal forte al piano. Da notare alcune difficoltà sulla vocale i, come ad 1:50 sul mi naturale di “io VIvo”.

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Schipa, qui nel pieno vigore vocale, rispetto a De Lucia è meno originale ma anche meno arbitrario, la voce più leggera ma facile e omogenea, l’emissione superba per fluidità e naturalezza non teme confronti neanche coi cantanti delle generazioni precedenti, felice e rara eccezione al generale andamento al ribasso del canto nel corso degli ultimi secoli e del Novecento in particolare.  L’aria è completa del recitativo, in cui ammiriamo l’inimitabile semplicità con cui questo genio del canto sapeva dire le parole,  pronunciandole nitidamente, in modo vero e naturale; emissione sempre misurata mai spinta o forzata, capacità di cantare sulla zona di passaggio (“e le pompose feste ove agli omaggi avvezza”, “qui presso a lei io rinascer mi sento”) con leggerezza e nonchalance, senza scalini e disuguaglianze: una voce sola che sale e scende come fosse la cosa più naturale del mondo. Già con il la bemolle dei “gaudi sUOI” abbiamo la dimostrazione di un acuto smorzato a regola d’arte, di come cioè il suono possa essere alleggerito senza che avvenga una brusca frattura con il falsetto. Nell’aria, da segnalare il numero virtuosistico quando si ripete la progressione all’acuto “dell’universo immemore io vivo quasi in ciel”,  dove in un solo fiato riesce a smorzare il la bemolle di “immemoRE” e a legarlo con un fil di voce a quello successivo di “io vivo”, per poi inserire come abbellimento un veloce mordente in cui tocca il si bemolle.

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Di Alfredo Kraus ho scelto il famoso live di Lisbona del ’58. Anche Kraus pronunciava molto bene ma confrontando il suo recitativo con quello di Schipa si capisce ancora meglio la grandezza del tenore leccese: Kraus infatti non ha la stessa morbidezza e leggerezza quando affronta passaggi un po’ scomodi che battono sulle note di passaggio. Sentire ad esempio come Schipa riesca ad alleggerire il suono dopo aver preso il sol naturale di “ove agli omaggi avvEzza”, mentre Kraus un po’ spinge e specialmente sulla vocale E si sente molto la manovra del passaggio, oppure “ED or contenta in queSTI ameni luoghi”, con quale leggerezza Schipa tocca quei fa, sembrano note facilissime, laddove Kraus invece tende a “premere” l’emissione.  Ammirevole comunque la salita al la bemolle di “scordo ne gaudi SUOI”, con la voce tutta davanti raccolta e squillantissima, e davvero splendido come venga alitato libero sul fiato il fa di “tutto il PAssato”. Nell’aria devo far notare come sulla vocale E a volte il suono tenda a nasalizzarsi o a schiacciarsi, ad esempio l’attacco un po’ nasale di “ella temprò”, oppure il fa naturale su “io voglio a TE fedel”, risolto con una manovra artificiosa (e brutta anche la e di “fedEL”). Sono piccolezze che ben pochi noterebbero, ma si intravedono già in questi artifici tecnici alcuni difetti dell’età più matura. A volte considerato un cantante freddo, qui si mostra invece anche un fraseggiatore espressivo nel modo in cui riporta le parole dette da Violetta “vivere io voglio a te fedel”. Naturalmente le progressioni all’acuto (la bemolli) sono facili, squillanti, sicurissime, bazzecole per un tenore contraltino estesissimo in zona acuta e sopracuta.  L’esecutore molto preciso rispetta fedelmente le dinamiche senza prendersi le libertà dei due più antichi colleghi, esibendo anche alcune smorzature ben riuscite come il la bemolle di “io vivo quasi in CIEL” nelle battute finali. Rispetto a Schipa o a De Lucia forse solo un pregevole professionista, rispetto all’oggi un artista ammaliante.

62 pensieri su “Ascolti comparati: De’ miei bollenti spiriti.

  1. Sì, certo, bell’analisi; con due limiti però, a mio modo di vedere:
    i) ritenere che ciò che funziona in una voce sia dovuto sempre e comunque alla buona tecnica, e ciò che non va sia dovuto sempre e comunque alla cattiva tecnica. Il che credo proprio non sia: ci sono e ci saranno sempre suoni brutti e suoni belli indipendentemente dalla tecnica del canto; anche Schipa fa dei suoni brutti come noto, ma fu maestro di tecnica.
    ii) il fatto che Mancini (e pure io) straveda per De Lucia non può portarlo a dire che Kraus, al confronto, è un pregevole professionista: è una evidente malignità, che va stigmatizzata; e dato che non l’ha fatto ancora nessuno lo faccio io.
    Una malignità frutto di un fanatismo antistorico, cifra di questo ottimo blog, mi spiace: si può abbandonare la sterile categoria della decadenza? non esiste la decadenza, esiste il cambiamento; come oggi Raffaello non potrebbe avere successo di massa, cioè un successo socialmente vivo e vitale, così non potrebbe avere successo De Lucia. Mettiamoci il cuore in pace.
    Secondo me il punto è qui: De Lucia può benissimo vivere con noi, ma in una dimensione storica, estetica, culturale, come in parte è del resto questo blog. Se invece ci si mette a denigrare il presente perchè non si trova un De Lucia, allora si commette un errore di prospettiva, molto grave a mio modo di pensare.
    De Lucia deve vivere nei libri, nei dischi, nelle riflessioni, nell’analisi estetica, nella storia del canto; ma in teatro non c’è posto per lui, perchè morì nel 1925. Io vorrei De Lucia nel mio teatro privato, ma non sono la Patti e non ne ho uno; ma se domani venisse annunciato un Rigoletto con De Lucia, Battistini e Melba io sarei sinceramente imbarazzato, per loro e per il pubblico. E non so se mi sentirei di difenderli; perchè io vivo nel presente, e come ascoltatore di cimeli non perdo il senso storico, o almeno cerco di non perderlo.
    E quindi il ritorno a De Lucia non ci potrà essere, come forse vorrebbe Mancini; ci potranno essere maestri di canto, e a seguire cantanti, che tornino a pensare che cantar piano non significa cantare sottovoce. Benissimo. Quindi si potrà certamente studiare De Lucia e la sua arte, ma sono cose molto diverse.
    Troppo spesso per non dir sempre Mancini vuole proiettare il passato nel presente e giudicare il presente come se tra presente e passato ci fosse una frattura, ma non è così.
    E dare a Kraus del pregevole professionista, facendo intendere: l’arte è bel altro, quella di ieri!, scusami, è una sciocchezza; una clamorosa sciocchezza, che va respinta al mittente.
    Ciao

      • Sono sostanzialmente d’accordo nel giudizio su Kraus, grande tenore certo, ma di fronte a questi Dei, soccombe nel girone dei grandi professionisti e non si smuove da lì. Non ha né la stupefacente leggerezza di Schipa, né lo squillo di De Lucia , e soprattutto, appare meno singolare, meno affascinante, meno ammaliante, meno personale, nonostante la grande estensione e la facilità del canto.

    • Caro Grondona, se non sai ascoltare è chiaro che parli di fanatismo antistorico, non hai i termini del discorso. non esiste decadenza? accidenti, fatti un giro nelle incisioni antiche e meno recenti di Africaine, a paragonala a quella schifezza di Venezia e poi mi dici. se non ci senti, raccogli l’invito di MAncini, posto che il tuo discorso di storico non ha proprio un tubo. la storia mica si fa come fai tu.

  2. Miei cari, proprio non ci intendiamo: non amare il presente (del canto, della filosofia, della pittura, ecc. ecc.) non vuol dire (= non può voler dire!) che il presente è in decadenza, mi spiace; io non so che cosa sia la decadenza; usiamo un’altra parola, ma decadenza no, non ha nessun significato serio. Chi parla di decadenza desidererebbe un passato supposto migliore del presente: ma, questo, ognun lo sa, è una fola.

    • Lo dico finché mi pare che il presente del canto è in decadenza,perché possiedo criteri di analisi che lo dimostrano. Secondo il vostro intellettualismo da supermercato invece non esistono criteri universali e parlate quindi solo di aria fritta: pensiero debole ed insignificante, da incompetenti. Vai altrove e troverai siti a ciò destinati.

  3. Le analisi di Mancini vanno prese per quello che sono; descrizioni di pregi e difetti di cantanti. Semplicemente. Quando Mancini però esce da questo ambito e si diletta di concetti più complessi, come la nozione di decadenza o quella che concerne la possibilità di usare criteri universali, mostra limiti culturali evidenti. E affoga, dal momento che cerca di nuotare in un mare di cui non ha nessuna idea.
    Marco Ninci

    • marco ninci, oggi non è giornata per ascoltare le tue cretinate e le tue provocazioni deficienti. ripeto non è giornata. pubblico uno solo dei tuoi messaggi di insulti a mancini, e ti rispondo come meriti: sei solo un caprone borioso!
      ù

      • mancini, lui appartiene a quelli che vogliono avvicinare i giovani alla cultura sedendosi in platea senza ave ascoltato nulla, senza fare confronti, senza i pregiudizi derivati dalla conoscenza del passato…..occupandosi lui di filosofia greca antica! Omaggiamo la corenza dei padri.

      • Dato che dai queste risposte “del filippeschi”, tanto per non offenderti, ti informo che per molte orecchie merda (e non d’artista) risultano essere i nostri amatissimi Battistini, Plancon, de Retszke, e tanti tanti altri.
        Solo che per te tutto ciò è il prodotto di una degenerazione del canto (dell’arte, forse della stessa vita), e invece secondo me è un vitale, e come tale sempre apprezzabile, segno di mutamento. D’altronde si è conservatori, reazionari, progressivi in tutto l’ambito umano, e io sono legato a queste ottime categorie. Non credo che esista, ma una storia sociale del canto sarebbe istruttiva, no?
        Ma comunque: certo, poi ci ricasco e infatti ogni tanto replico, ma la vostra battaglia culturale (fatta così come la fate voi! intendiamoci bene! gli spazi per riflessioni culturali ci sono sempre, e sempre è utile riflettere ) è persa in partenza: ha delle brasi fragilissime ma voi evidentemente non lo capite; e va benissimo così.
        Saluti cari

  4. Concordo con Mancini. soprattutto sul fatto che senza una tecnica corretta sia impossibile non solo cantare ma anche esprimere e interpretare. E devo dire che essendo da quarant’anni anche un frenetico ascoltatore di voci del passato non posso che condividere la linea del CDG. Ma questa volta caro Mancini ridurre Kraus al confronto con De Lucia alla stregua di un pregevole professionista hai un pochino esagerato. Casomai e’ esattamente il contrario. E lo dimostra il fatto stesso che abbassare un’aria dalla tessitura insidiosa quanto si vuole ma non certo proibitiva come
    l’aria di Alfredo non e’ proprio esempio ne di tecnica completa ne di
    longevita’ vocale ( all’epoca se non erro De Lucia aveva 43 anni ).
    Senza contare che l’esecuzione proposta di Kraus ( seppur gia’ all’epoca tecnicamente ferratissimo) risale a due anni dal debutto e che in seguito fu cantata con ben altra padronanza in quanto a legato ,fraseggio ,gico della mezzevoci ecc ecc. In ogni caso complimenti per le sempre belle proposte. Ciao.

  5. Torno a scrivere un commento dopo molto tempo anche se in questi mesi ho sempre letto con interesse. Bellissimo dibattito. Concorso pienamente con la posizione di Maurogrondona. Ho sempre considerato l’opera come una forma di espressione artistica vitale e dunque dinamica, capace di evolversi, se non attraverso il lavoro di nuovi compositori, sicuramente attraverso il contributo degli esecutori (cantanti, direttori, orchestrali, registi). Certe forme di purismo, tutte schiacciate sul passate, francamente mi convincono poco e a volte conducono in un vicolo cieco. In questo caso Alfredo Kraus sembra essere il protagonista di un confronto già perso in partenza. In altri casi anche ho letto post in cui, brandendo gli spartiti come delle scimitarre, si è arrivati a conclusioni incredibili (ovviamente solo a mio parere).

    • Pure io commento di rado, ma val la pena farlo. Non concordo con la Tua analisi, per una ragione banale: la musica è tarata su di uno strumento. Se devo leggere una poesia in francese non posso adoperare la pronunzia italiana, o i versi non rimeranno, semplicemente. Così la musica di Orff per pianoforte non puoi suonarla all’organo e tantomeno al clavicordo, a meno di voler dire che la Venere di Botticelli sia nuda per protesta contro il capitalismo (= attribuire al passato idee moderne, svilendolo). L’Opera vive di equilibrii precarii, è teatro cantato, forse una delle più colossali porcate della Storia e solo rarissimamente ua delle cose più sublimi. Esattamente come dire che puoi farti una torta con la crema pasticcera presa dal brick, il pan di Spagna preconfezionato, la panna spray fatta con una gustosa polverina, ed al posto della bacca di vaniglia una fialetta di essenza chimica sintetizzata a partire da non-so-cosa; ma se poi ti viene un attacco di mal di stomaco non metterti a rievocare i tempi in cui la nonna sbatteva le uova con la frusta ed usava il latte intero, potresti sembrare uno strambo passatista. La verità è che esistono cose fatte bene e cose fatte male: noi non ci siamo evoluti passando dalla frusta manuale a quella elettrica (legittimo), ma dal prodotto fresco al semilavorato. Qual orror!

  6. Dato che l’argomento è interessante anche per me, oltre che ricorrente in questo blog come altrove, provo a dire anche io la mia.
    Credo che ci siano pochi dubbi che, di fronte alla produzione artistica complessiva dell’uomo, non si possa che parlare di evoluzione. Da quando l’essere umano ha cominciato a liberarsi dalle esigenze materiali più pressanti, ha manifestato una costante necessità di qualcosa che, in un modo o nell’altro, lo elevasse o almeno lo separasse da quelle stesse necessità materiali.
    Tutto un altro discorso però se parliamo di una singola branca della produzione artistica. In quel caso mi pare che sia perfettamente legittimo parlare di decadenza, se non in certi casi persino di scomparsa.
    La produzione di spade è stata uno dei vertici della conoscenza umana per secoli; il bassorilievo, il mosaico, la produzione di icone sono passate da espressioni artistiche dominanti a curiosità da appassionati. La fotografia ha parzialmente cannibalizzato la pittura, cambiando radicalmente il ruolo sociale di quest’ultima.
    La musica lirica è stata svuotata della sua funzione di intrattenimento dal cinema, dalla televisione. Purtroppo la sua funzione artistica non prescinde dalla sua popolarità, come invece avviene per la pittura o la letteratura (potremmo chiudere la Divina Commedia in un cassetto per mille anni e ritrovarla uguale ma non possiamo chiudere i teatri per mille anni e tornare a eseguire Verdi o Mozart come se non fosse passato che un giorno). Possiamo concordare che la musica lirica (e con essa il canto) si siano evoluti fintantochè è esistita una spinta, un interesse di massa che si traduceva in un flusso continuo di novità (di stile, di intreccio, di tecnica) portato da nuovi compositori, nuovi interpreti e da tutti gli elementi sociali ed economici che entrano nel quadro. Non credo però che questa spinta esista ancora; i nuovi interpreti non si formano più sotto la dialettica tra le esigenze del compositore (chi è il Puccini del ventunesimo secolo? O il Wagner?), i gusti del pubblico, etc. Risentono invece del fatto di essere ormai produzione di nicchia nell’industria della musica, cantanti di secondo piano; probabilmente preoccupati di piacere ad un pubblico che della lirica conosce poco e che ha per quest’ultima un interesse superficiale.

    Passo ora a un secondo punto che vedo sollevato spesso.
    L’idea che lo stile che le vecchie registrazioni ci tramandano sia inadeguato ai nostri tempi moderni mi è sempre sembrata poco convincente, alla luce dei molti arbitri e del pessimo stile cui non di rado si assiste in teatro. Ammettiamo però che ciò sia vero almeno in linea di principio. Non vedo comunque come questo possa essere utilizzato per contestare in toto la qualità di quelle vecchie registrazioni. Lo stile e la tecnica non sono la stessa cosa: De Lucia ha uno stile antiquato? Si prende eccessive libertà? Se anche si decide che la risposta a entrambe le domande è si, questo non toglie nulla alla tecnica. Credo sia più facile per un cantante con una tecnica salda adattare il suo stile alle esigenze della parte piuttosto che, per un cantante con tecnica inadegauata, inventarsene una dal nulla. Gigli poteva evitare qualche singhiozzo in certe registrazioni ma quanti non singhiozzanti sono in grado di cantare come lui?

    Infine, quasi una battuta.
    Se domani annunciassero un Rigoletto De Lucia, Battistini, Melba, credo accorrerebbero a frotte da ogni angolo del mondo pronti a rovinarsi per un posto di solo ascolto; e non solo vecchi melomani.
    Ho il vezzo di portare a teatro amici e conoscenti, anche persone che non impazziscono per la lirica e che, per intenderci, hanno sentito più Bocelli che Schipa. Non avendo tempo di procurare una registrazione dell’Africana, ho indirizzato un amico su questo sito. Sono stato onestamente sorpreso di sentire che, a dispetto dello stile, della qualità della registrazione e di tutte quelle cose che dovrebbero lasciare perplesso un ascoltatore non abituato, ha trovato straordinario Battistini (al contrario di quanto sentito a teatro).

    • Concordo su molte cose. Piccolo appunto (tecnicissimo, è legittimo non sapere certe cose perché NESSUNO le insegna): De Lucia (la Patti, Moreschi, l’Albani, De Reszke, Tamagno, …) eseguiva ogni cosa secondo i dettami di una scuola che era stata tramandata gelosamente di generazione in generazione (Rossini stravedeva per la Patti, la Patti per la Tetrazzini e della Tetrazzini si diceva che ricordasse per perfezione tecnica i suoni dei castrati… È tutto dire!). Oggi nessuno canta come costoro. Se sfoglia un qualsiasi trattato di canto ottocentesco, partendo da Garcia e finendo con Fauré (ce n’è a decine e decine), vedrà ad esempio come tutti fondino la tecnica tenorile sugli acuti unicamente sul falsetto, termine che oggi qualcuno vorrebbe spacciare con altro significato per giustificare schifezze immonde. Lamperti padre pubblicò il suo trattato con una prefazione dell’allora direttore del conservatorio di Milano in cui si deridevano i tenori “infelici” che volevano “straziarsi la gola” sui La acuti! Verdi concordava con questi assunti. Dove sono oggi i falsettoni di De Lucia, di Constantino (falsetti puri! Horror! Ma era correttissimo), etc., etc., etc.? Da nessuna parte! Non è un dato stilistico, ma tecnico purtroppo: gridano! E non si riesce a farli smettere! Sottolineo, qualora non lo sapesse (e non vedo come possa saperlo date le mie sporadiche apparizioni) che il mio avviso è stato ampiamente criticato da diversi frequentatori abituali del corriere, ai quali le grida, talora pure ben fatte, per carità, di molti tenori moderni, paiono retaggi d’antica scuola.

        • Infatti ho ragione: “La parte di Arnoldo, scritta per Nourrit, tenore di grazia per eccellenza, […] è parte di tenore così detto di mezzo carattere: in essa le note elevate vennero da Nourrit eseguite con voce di falsetto secondo l’intenzione del compositore. […] Arnoldo, Raul, Eleazaro sono dunque parti di tenore di grazia, delle quali, secondo le intenzioni dei rispettivi compositori, le note elevate sopra il sol deggiono essere emesse con voce di falsetto. Stabiliamo questo fatto che crediamo incontestabile” (Panofka, 1871). I documenti mi danno assolutamente ragione, poi si può pure amare l’Arturo di Pavarotti, ma non è filologia 😉

  7. Per Mancini: “En meme temps que le gout de la vocalise se perdait en Italie, on commençait à ridiculiser (toujours au point de vue de la logique) la voix de fausset, à l’aide de laquelle les ténors augmentaient de plusieurs notes l’étendue de leur clavier vocal; on arriva peu à peu en supprimer l’emploi, et les compositeurs n’écrivirent plus que pour le registre de poitrine. Ce changement radical dans le mode d’interpretation des roles de ténors a rendu inutile, pour ce genre de voix, le travail d’union des deux registres de fausset et de poitrine, un des moyens connus le plus efficaces pour arriver à l’assouplissement complet de la voix. Cette réforme ne devait pas avoir en Italie d’aussi graves conséquences qu’en France” (J. B. Faure, 1830-1914, il primo Rodrigo nel Don Carlos di Verdi – 1867)

    • Faure dice semplicemente che con l’affermarsi del nuovo stile di canto stentoreo, viene meno il metodo di educazione del passaggio di registro che consisteva nell’esercitare le voci di petto e di falsetto in purezza, come anticamente si faceva. Ora invece si affronta il passaggio direttamente in voce, di forza. Questo dice Faure.

      • Concetto di falsetto estraneo al senso comune, al significato plurisecolare della parola “falsettista”, ed inventato da pochi maestri di canto moderni scaltrissimi nel millantare di star insegnando una tecnica antica. In realtà propinano una tecnica verista qualunque, salvo poi sostenere che i trattati vadano reinterpretati e siamo tutti ignoranti. Tenetevi lo strillo 😉

        • Fin dal più antico dei manuali di canto viene deprecato il difetto della doppia voce, per cui da sempre i cantanti studiano, magari con metodi diversi, per avere uno strumento omogeneo. Tu proponi un canto in cui la voce è ora di petto, ora in falsettino, una cosa che non sta né in cielo né in terra.

          • Si vede che non conosce la trattatistica, in cui talora si elencano puntigliose differenze tra tenori di voce unitaria di petto, tenori di voce mista e tenori che usavano abbondante voce di testa (di questi alcuni autori, come Concone e Cordero ricordano l’antico nome di contralti). L’ “Ecco ridente in cielo” cantato da Constantino non lo conosce?

  8. . Non confondiamo il falsetto ( che poi in realtà falsetto non era ma falsettone) dei tenori antichi ( ma neppure tanto, basta ascoltare quello di Gigli ) con i suoni ( questi si falsettanti ) dei tenori attuali che sono sbiancati , smunti , afonoidi e spoggiati.Se poi vogliamo far credere che il falsetto di Nourrit o di David o di Rubini avesse la stessa qualità e sonorità di quello di Kaufmann o di Alagna o di Florez ….

    • Caro Farinelli, la invito ad ascoltare l’incisione di “Ecco ridente in cielo” fatta da Florencio Constantino. Dovrà ricredersi almeno in parte. Il falsetto è sempre stato falsetto, da che mondo è mondo. Quanto al falsettone, è un tipo di emissione mista (peraltro tutt’altro che assolutizzata in antico: l’espressione è anzi latitante nella trattatistica) che davvero non si sente più ed è un peccato. Concordo sulle scarse doti dei tenori da lei elencati, ma sono tutti di tecnica diversa, con buona pace di Mancini che dice (cito Zucker) che esista un solo Dio, una sola musica ed una sola tecnica: la sua.

        • Li ascolterò con grande interesse. L’uso del falsetto puro, nei momenti opportuni, e’ una legittima risorsa coloristica, espressiva, lo usavano anche Caruso, Slezak, jadlowker. I vocalisti davvero perfetti, come Schipa, sanno usare il falsetto senza che l’ascoltatore se ne accorga. Ma questo non dimostra certo che i cantanti un tempo non sapessero emettere gli acuti in voce. E poi, perché questo discorso dovrebbe essere circoscritto solo ai tenori?

        • Sono riuscito a trovare di questo Forgeur un’incisione dell’aria della Figlia del Reggimento “Per viver vicino a Maria”. A me sembra semplicemente una voce senile che arriva in voce al lab a prezzo di vistose oscillazioni di suono, se balla già su un fa naturale è naturale che risolva un si naturale in puro falsetto, non ci arriverebbe in voce. Del tutto comprensibile comunque che un tenore non arrivi al si, anche se a seguito dell’alzamento delle voci oggi siamo portati a considerare il si naturale una nota qualsiasi…. Eh, la decadenza…

    • Appunto, argomento a posteriori per giustificare una cosa che non ha senso se riferita alle più risalenti composizioni: Rubini non si sentiva, tutti stavano a ripetere che la sua voce era “piccola”, ma vendeva eccome. Certo, se poi vuole eseguire Rossini con un’orchestra di 300 elementi… Aggiungo: Faure fa un discorso valido per tutte le voci, precisa che i bassi profondi hanno un falsetto migliore dei tenori (!!!!!!! ma come, Mancini, non parlava di un altro “registro”?) ma che non vale la pena farglielo sviluppare perché inutile al loro repertorio. Faure medesimo era baritono (lo trovate settantenne su youtube) e precisa che nell’ancien répertoire era indispensabile saperlo usare. Quanto alla prima obiezione di Mancini, essa è assieme fondata ed infondata: 1) Constantino sa emettere gli acuti in voce ma deliberatamente non lo fa cantando Rossini: sa che sarebbe un’esecuzione impropria, ed adopera una tecnica più risalente; 2) appunto pwerché un Panofka deve sottolineare che doveva esser certo che ai tempi di Rossini gli acuti erano tutti falsetto, c’è da dubitare che avessero altro modo per emetterli. Quindi è vero che il tenore medio che registra nel primo ‘900 sa fare tutte e due cose, ma non è vero risalendo indietro nel tempo. Quanto a Forgeur, fa esattamente quel che tutti i trattati, italiani, francesi e spagnoli dell’epoca impongono: va in falsetto tra il Fa ed il Sol. Niente esoterismi! Sul tema esiste un’abbondante saggistica peraltro, Zucker ha affrontato il problema già negli anni ’80 (Origins of modern tenor singing) ma purtroppo tutti in Italia studiano sul Juvarra…

    • Credo sia una solenne stupidaggine invece. Che avesse voce piccola può anche essere, che non si sentisse sicuramente no. La filologia che ha da proporre il nostro udatorbas è quella di cantare in modo che il pubblico non senta?

      • Ma se vi ho citato anche la fonte, cioè il volumetto “The origins of modern tenor singing”! Io lo posseggo per averlo acquistato negli USA, qui posso allegarvi un frammento in cui si accenna direttamente al problema (all’interno dell’operetta, oltre alle doverose citazioni, si trova pure un’analisi delle tessiture medie cantate da Rubini): http://www.stefanzucker.com/origins-modern-tenor-singing In ogni caso conosciamo esattamente gli organici orchestrali dell’epoca, devo dire che alcuni direttori stanno capendo che Rossini non si suona con 80 orchestrali. Se avete dubbi in merito, leggetevi l’introduzione dell’autore al trattato di Francesco Lamperti, in cui si condanna la pesantezza delle orchestre del tempo, che non fungevano più da mero sostegno al canto. Io giustifico tutte le mie affermazioni, poi sulle interpretazioni possiamo dissentire, purché il dissenso sia altrettanto motivato: dai documenti non si scappa.

        • Ma, persino alla fine del XVIII si lamentano di un aumento esagerato dell’importanza dell’orchestra, sia dla punto di vista della crescita del numero degli strumenti che da quella del suo “ruolo” nell’azione teatrale. In primo luogo il problema era di livello estetico: non si voleva amettere che all’opera uno strumento abbia il diritto di competere con le capacità espressive della voce umana. Ma questo non vuol dire che le voci non si sentissero più, perché piccole e perché venivano coperte dalle orchestre cresciute. Figurati, se un’grande orchestra dei nostri giorni non riesce a coprire (anzi, che viene coperto da) un leggero come Gruberova…
          Tanti viaggatori fino a Berlioz parlano delle voci chiare, brillanti e penetranti delle voci italiane. Non è necessario che siano tutte state delle Nilsson. Sicuramente non erano delle Nilsson, ma rimane la descrizione delle voci brillanti e penetranti. E non credo che il concetto di brillantezza della voce abbia molto cambiato. Il volume è un’altra cosa.
          Poi, tutta la trattatistica da Mancini – via Garcia – fino ai Lamperti parla proprio di questa limpidezza e brillantezza penetrante del suono come ideale.

        • orchestra oiu piccole ma che si trovavano in posizione piu sollevata rispetto all’attuale nella buca, il ke consentiva loro maggior volume. Ci sono anche i racconti sul carlo di napoli, lo stesso di oggi, teatro descritto come luogo di continuo chiasso e ciarlio mentre i cantanti si esibivano…..non sarei così unilaterale e dogmatico nello sposare la foletta della voce piccola, che cmq non significa poco sonora, come sono le voci di oggi…..grande e piccolo sono aggettivi che stanno sempre in relazione ad altro. Esistono anche descrizioni della voce di rubini che dicono altro….

    • Mi riferivo principalmente al suo trattato di maggior diffusione, mi hanno indicato anche altre opere che non conosco direttamente. Posso dire sul trattato che, oltre ad un miscuglio tra foniatria e dato empirico (con costante e talora palese svalutazione della tradizione), avverto null’altro che confusione. Per fortuna era scritto per dare “regole comprensibili” agli allievi!

  9. Neanche io avevo mai sentito questa storia sul volume di Rubini, mentre invece la conoscevo relativa a David figlio (come Stendhal riferisce). Sulla lettura di Rubini da parte di Zucker, io ci andrei piano: lui e quella sciroccata della madre dicevano di cantare alla Rubini e gli esiti sono penosi http://www.youtube.com/watch?v=IuicGPGLi7g .

    Visto che l’argomento mi interessa quanto mai, io sono STRA-convinto di quel che dice udatorbas MA anche della uniformità di risonanza (avanti) tra tutti i diversi registi (come il buon Mancini del Corriere ci ricorda). Come il buon Garcia dice, sono anche convintissimo che i tenori unissero il falsetto (registro medio assoluto) alla voce di petto (registro grave assoluto), e come specifica il Garcia, si ottenva un ottimo risultato unendolo dal passaggio al do#4.
    Che ci fossero le due voci comprovate si deduce anche dal fatto che proprio il Garcia facesse fare esercizi agli allievi soprani e tenori con re3 – re#3 – mi – fa3 – fa#3 facendoli una volta in falsetto ed una volta di petto proprio per allenarsi – secondo me – ad unirli ed usare espressivamente più una componente rispetto all’altra (in base all’affetto da dare).
    Questa mia interpretazione viene sempre più confermata da tante cose che leggo, tra cui questa pagina didattica del 1799 che mi sembra molto interessante: http://laselvadiorfeo.files.wordpress.com/2013/12/immagine.jpg
    peraltro, si parla espressamente di unione tra petto e falsetto appunto!

    PS. colgo anche l’occazione per consigliare a Mancini la lettura del trattato della Maria Celoni, menzionata dal Garcia, e disponibile ora su imslp 😀 http://javanese.imslp.info/files/imglnks/usimg/1/10/IMSLP285107-PMLP462780-Pellegrini.pdf

    • Ma che meraviglia quell’esercizio! Proverò a farlo anch’io 😀 da dove è tratta quella pagina? Molto molto interessante, e conferma tutte le mie convinzioni. Grazie per la segnalazione della Celoni. Concordo che Zucker non sia una fonte attendibile al 100%, come non lo sono del resto neppure Faure o Lablache (quest’ultimo sosteneva che il basso non passa di registro), grandi cantanti ma non necessariamente profondi conoscitori della voce nelle sue meccaniche.

    • Gentile Orpheus, mi fa piacere che qualcuno concordi con me 😀 Zucker è un fine studioso della vocalità, io lo cito in qualità di musicologo, la documentazione che adduce è inoppugnabile. Quanto alla sua esperienza canora, ha cantato anche per la RAI ed in diretta, con la madre (Adelson e Salvini), molti anni fa; resta un personaggio controverso vocalmente parlando, senza dubbio, ma deve contare che se tra De Lucia e Florez c’è un abisso, tra Rubini e Bergonzi a livello tecnico probabilmente c’è un universo intero. Sarebbe ridicolo negare che i cantanti di fine ‘700 non fossero gli stessi di fine ‘600: che poi il pianto, ad esempio, sia caratteristica italiana fin dal Rinascimento come l’uso intensivo della U lo era per gli spagnoli (hispani ululant et itali plorant, per tacere il resto del distico) è cosa certa, ma la tecnica, Lei mi insegna, è fatta da centomila cose, non può esser risolta in pochi ingredienti, non è neanche una “ricetta” vera e propria, ma un misto complesso tra esigenze estetiche e necessità fisiologiche. Vi fa cenno anche il Suo intervento. Gli esercizi che cita si trovano in tutti i trattati, quello di Garcia non è neanche il migliore, solo il più noto, data la straordinaria longevità dell’autore, e purtroppo resta “reinterpretato” in ogni modo per fartli dire altro. Un esempio: il famoso colpo di glottide, prescritto da tutti i maestri ottocenteschi e da Garcia a tratti estremizzato, è oggetto di normalizzazione in Juvarra, che tenta di darne altra lettura con scarsi risultati, ma lei lo trova pari pari nelle registrazioni di Moreschi, tanto per dire. Insomma: il problema è che nessun maestro di canto è disposto ad ammettere che la sua non è la “scuola italiana antica”, come pomposamente recitano troppe locandine di masterclass e corsi di stregoneria a pagamento (esentasse, ovvio), ma una tra le tante tecniche inventate nel secondo ottocento per inseguire organici orchestrali elefantiaci, compositori più o meno deliranti e pubblico sempre più amante dell’urlo. Confronti le registrazioni di Garulli, Aramburo, De Lucia, De Negri, tutta gente nata tra gli anni ’30 e ’50 dell’800: cantano in maniera molto diversa, pur condividendo almeno in parte lo stesso repertorio. Non c’è nulla di male nell’aver studiato certe cose, il problema è il negare l’evidenza: Bellini prevedeva tutt’altro per le proprie opere. Su youtube può ascoltare Lauri-Volpi ruspondere scandalizzato a Celletti che “un generale romano (Pollione) non può cantare in falsetto!”… Senta la risposta di Celletti, che nonostante la stima incredibile di fatto lo liquida come ignorante in tema, e lo era, purtroppo: la sua generazione era già in parte viziata da un gusto che non tollerava certi discorsi, viveva quella “ridicola avversione al falsetto” (cito a memoria) stigmatizzata da Faure. Mi fa molto piacere sapere che altri compiono le stesse ricerche mie, io studio da sei anni secondo questa via, ma posso permettermelo perché non canto di mestiere.

      • Udatorbas, ti ripeto, il canto è uno… la voce funziona in un modo… anche ammettendo che non sapessero rinforzare il settore acuto, in ogni caso sapevano unirlo magistralmente col petto, tant’è che Chopin ascoltando Rubini disse che cantava tutto con una sola voce, non si avvertivano passaggi… Rubini più che un tenore, di fatto era un contralto naturale, capace di fondere il registro di petto con quello di testa come avrebbero fatto i castrati. E poi, appunto, come la metti con le voci femminili? Mi pare che tu stia limitando la questione ai soli uomini, non capisco il perché.

  10. @udatorbas: innanzitutto dammi del tu; il Lei riservalo per chi ha voglia di sentirsi importante o superiore. Io ti do del tu, ma siccome studi da più tempo di me, puoi richiedermi di darti del Lei 😀

    In ogni caso, gli scritti di Zucker sono sì interessanti ma sono assolutamente inficiati dalla sua pratica: se non avesse cantato e solo scritto, sarebbe stato molto attendibile; sentendolo cantare, l’ho ormai mollato e non sto più seguendo le sue vicende.
    C’è una tale discrepanza tra il piano teorico e pratico che non saprei proprio se le sue teorie sono spesso azzeccate per fortuna o semplicemente non è lui che scrive.

    Faccio due premesse di metodo: 1) i vari esempi che ti porto sono strettamente legati alla musica di cui mi occupo ricercandola e canticchiandola nel mio tempo libero, ossia musica del Seicento e Settecento, in quanto secondo me è proprio ricercando in queste due epoche che si può capire bene cosa succede di storico nella voce di tenore, ben prima delle urla di Duprez 😉
    2) sono fermamente convinto che in una ipotetica ricostruzione delle teorie del canto storico ci saranno punti su cui non avremo mai chiarimento per il semplice motivo che non potremo mai sentire effettivamente certe cose; ma sono altrettanto convinto che i dubbi che si hanno sono ristretti e circoscritti, così da poter avvallare dei dubbi su certe cose ma altrettanto avere un quadro di ricostruzione abbastanza chiaro per poter comprendere questa materia in generale. Quindi niente dietrologie e finti metodi farlocchi che, come scrivi, vengono sponsorizzati: la tecnica rimane molto salda su pochi precetti e sempre validi, quindi in una idea globale e quasi universale di canto che propone il Mancini del Corriere.
    Diversamente da Mancini tuttavia, io non credo che il canto classico sia UNO, sia per motivi storici sia per motivi estetici dipendenti da ogni “epoca”: posso quindi concordare che i principi di base siano unici (voce sostenuta, suono proiettato, omogeneità di emissione etc.), ma di nuovo, chi può esserne certo in mancanza di certi dati certi? Fino alla Celoni e Mengozzi quasi non si parla di respirazione e meccanica respiratoria, pur tuttavia essendone le fondamenta; quindi chissà quanti altri argomenti sono stati taciuti e dati per scontato (sono sicuramente meno di quanti si pensa, ma uno tra tanti proprio il problema dei registri, su cui si possono fare tante ricostruzioni e tutte valide se ben fondate).

    Sul tratto storico che tu scrivi che i cantanti del Settecento non erano altro che i cantanti del Seicento: mi trovi abbastanza d’accordo, con la differenza che nel Settecento si tira su e giù la voce e quindi è chiaro che a partire dal Settecento i cantanti sono una evoluzione di quelli del Settecento: principi uguali (se fai peraltro un parallelo teorico, ancora si imparava la musica e si solfeggiava con la mano guidoniana, le chiavi erano ancora del tipo C sol fa ut – cito il Tosi – e le scale moderne maggiori e minori appaiono insieme ai vecchi modi dei teorici verso gli anni ’70 del Seicento – trattati di Bononcini e Carissimi – in cui ancora si lotta tra i teorici con le loro scale “pitagorico-platoniche” ed i pratici con le scale di chi veramente suona e deve “armonizzare” gli strumenti tra loro) ma portati ai grandi estremi, anche per merito dei castrati che “tutto (quasi) potevano”.
    Per farti una comparazione molto semplice, il baritenore monteverdiano, non supera quasi mai il sol3, e tale si mantiene lungo tutto il Seicento (Cesti, Cavalli, Carissimi e persino le parti entravesti che sono assolutamente baritonali); nel Settecento, trovi arie di Hasse e Leo scritte per tenore che salgono persino al Do4, con fraseggi estenuanti sul fa3-la3.
    A furia di leggere queste arie (opere di Jommelli, Vinci, Leo, Hasse, Porpora), in cui effettivamente noti che ci sono due distintissime scritture per i baritenori e per i tenori che oggi chiameremo contraltini, mi sto sempre più convincendo di un fatto noto a tutti ma che spesso in queste analisi e chiacchiere sfugge: i ruoli del tempo venivano scritti e cuciti sopra certe particolarità vocali dei singoli cantanti, e un tenore del 1750 non cantava roba del 1700 o meglio ancora del 1680: cantava quello che il compositori del tempo gli proponevano! In Handel si notano bene le parti per John Beard che salgono spesso al la3 e non scendono oltre il mi2, mentre le parti per Annibale Pio Fabri, vero e proprio baritenore STAR del tempo, hai una scrittura solita di do2-sol3 (scende spesso anche al sib1) sia che canti per Handel sia che canti per Vinci.
    Tacendo sui normali e consuetudinari trasporti (Farinelli si abbassava le arie anche di terze minori quando se ne stava dal Re di Spagna), il famigerato “repertorio” di inizi secolo ‘900 è la mutazione di questo cucire le parti su misura: un soprano koloratur aveva tale repertorio, un drammatico ne aveva un altro, principio che purtroppo è saltato con l’avvento della Callas. Quindi oggi, perse le parti cucite sopra e perso il repertorio, è ovvio che abbiamo voci scassate!!!
    Su Lauri Volpi, lui ovviamente pensava con la sua taratura romantica e secondo me, si denuncia uno dei più grandi problemi del Novecento: dopo il ritiro di Velluti nel 1830 quale ultimo castrato sulla scena, dopo l’invenzione del Do di petto, dopo metà secolo (seconda metà dell’Ottocento) di trattati, i cantanti formatisi nella prima metà del ‘900 ancora cantavano in una maniera comune anche se spesso parlavano lingue diverse; dopo, a parte il contatto di queste lingue che spesso non si capivano, c’è stata sempre e solo confusione, ed un arroccarsi sulla propria verità senza parlarsi.
    Donzelli era un baritenore dal sol3 saliva in falsetto, ma secondo me inteso come scrivevo sopra, cioè in una unione di registro di petto e falsetto! Ed oggi c’è ancora tanta confusione sia perché i figli del Novecento ignorante e sordo ci sono ancora, sia perché si è investita la foniatria di un’arua didattica che non ha: un foniatra sa dirti che hai noduli, ma oltre a farti guarire, non ti sa dire come cantare! E Juvarra, visto che lo citavate, è sì un onesto studioso che studia e propone rilettura, ma secondo me dovrebbe limitarsi solo a quello anche perché è in carriera da circa 20 anni e studenti duoi sui palhci io non ne conosco (non so voi).
    In merito al colpo di glottide di Garcia, secondo me c’è una leggenda demonizzante sul povero autore, che ha sempre distinto il colpo di glottide leggero dal colpo di petto (quello sì dannosissimo).

    Mi scuso se non seguo molto un filo logico ma sono talmente tanti argomenti e complessi che è difficile scrivere a riguardo con una linea unitaria XD

    • Carissimo, sono un ignorante e qualche ora settimanale di studii canori, anche se per sei anni, non mi rende migliore di nessuno, l’onore del Tu è tutto mio. RisponderTi mi riesce molto difficile perché non posso non assecondare la mole di questioni che poni, e di cui sono piacevolissimamente sorpreso. Sostanzialmente concordiamo: la fusione dei registri era ed è indispensabile, ma non c’entra niente col “passaggio” dei cantanti moderni. Le mie tesi valgono per TUTTE le voci, lo ribadisco: uomini, donne, castrati, alti, bassi, 😉 tutte, e dico tutte le voci. In questa trattatistica troviamo distinzioni incredibili tra “contralti che cantano tutto di petto” e “contralti che cantano come i soprani” (cioè attuando varii salti di registro), con esercizii appositi. Insomma, abbiamo praticamente tutto il materiale necessario, il problema è uno solo: nessun cantante di carriera è bastevolmente pazzo da mettersi a seguire quell’itinerario. Zucker lo ha fatto, a mezzo della madre che aveva studiato con un erede della tradizione rubiniana, certamente può non piacere, ma a quanti piace il canto di Moreschi o dell’Albani? In Italia abbiamo almeno due cantanti che possono legittimamente vantare un’ascendenza illustre, Nella Anfuso (che fu allieva della pupilla di Cotogni, e suo sostegno fino alla morte, tale Guglielmina Rosati-Ricci a suo tempo famosa per esser considerata un’insegnante di voce e tecnica strampalate) e Michael Aspinall, che per molti è semplicemente pazzo (ed insegna arcane tecniche di respirazione costale che trovi in tutti i trattati pre-novecenteschi, sovente con terribili anatemi contro le respirazioni unicamente o principalmente addominali). In entrambi i casi gli insulti sono gratuiti: fatti un giro in rete e leggi che si dice dell’Anfuso. Ed è comprensibile: ti invito ad ascoltare il canto dei lamentatori di Montedoro, paesino siciliano in cui si pratica il falsobordone a memoria, ed a descrivermi le tue sensazioni di fronte al loro canto di tecnica “popolare”, con sonorità tanto diverse dalle nostre; qualcuno mi ha detto che sembravano una massa di bisonti in calore! Insomma, io non dico che lo Zucker di turno canti veramente come cantava Rubini, posso limitarmi da un lato a dire che il suo agire è giustificato da documenti sapientemente collezionati, dall’altro a premettere che non mi pongo limiti di sorta: non posso dire “è impossibile che fosse cosí” perché ora come ora, col gusto moderno di ascoltatore del XXI secolo, non mi piace. Io parlo di filologia, non di intrattenimento, ed anche la Anfuso, Zucker e molti altri (tra i direttori: Vartolo) non hanno fatto che ricerca filologica, è ovvio che se vogliamo un canto a noi esteticamente appagante ci rivolgiamo ad altri settori dell’industria musicale. Ho citato Vartolo, probabilmente conoscerai l’Ottone cantato da Matteuzzi in falsetto e falsettone, meraviglioso nonostante una fusione del tutto approssimativa, ma era un esperimento messo su da un cantante prossimo al ritiro (che peraltro pare ne sia stato entusiasta); non lo puoi di certo confrontare col Matteuzzi che anni prima millantava i Sol sovracuti “di petto”. Ancora, concordo assolutamente sul problema del repertorio tarato ad hoc su singoli interpreti, ed aggiungo (da buon falsettista): molte parti scritte per castrato furono composte in realtà per bambini neanche quindicenni, che venivano letteralmente bruciati sulle scene già a partire dai 10-12 anni in ruoli tanto maschili quanto femminili; e lo stesso Tosi conferma che i soprani divenivano contralti facilissimamente per logorìo. Pretendere di eseguirle ora a quelle altezze è francamente eccessivo (lo stesso vale per certi ruoli da basso profondo). Il nostro Mancini continua a raccontare questa storia sul Rubini contraltino, ed anche qui spendo due parole: io sono un contraltino, certificato peraltro da illustri maestri (io mi definivo tenore leggero, ma tant’è), tutti stanno ad elencarmi le presumibili differenze tra la mia corda e le altre, io so solo che ho abbandonato il repertorio tenorile perché i miei acuti sono al più una sorta di incomprensibile registro misto (a me percettivamente pare voce piena, ma da fuori effettivamente ricorda una specie di falsetto molto rinforzato: altro non è che il famoso falsettone di cui tanto si parla ma che quasi nessuno fa, perché quasi nessuno sa di averlo) e sotto il Fa grave inizio ad avere problemi, arrivo a malapena al Re. Posso “attaccare” il falsetto al resto dell’emissione, lo faccio da sempre, ma lo può fare chiunque, e lo faceva chiunque ai tempi di Rubini, anche Donzelli. Probabilmente nella mia voce è più credibile, non saprei, ho amici sopranisti che stanno a farmi i complimenti, ma non posso affermare di avere una voce fisiologicamente diversa da quella di qualunque tenore: Cordero stesso ammette che il “contralto” uomo (così lo chiama) sia nient’altro che un tipo di tenore, peraltro di esiguo repertorio (secondo lui unicamente sacro, ed aveva un minimo di ragione). Sicuramente ho molti più problemi di tanti amici tenori, che arrivano sparando i loro acuti “di petto”, sono stato bollato come senza voce (lo fu anche Rubini, il che mi consola), qualcuno mi ha candidamente detto che sembro un cappone, etc., etc.. Una cosa è certa: dopo sei anni ed ottimi maestri ho capito che non posso cantare senza queste tecniche “antiche”, e se il primo a spingermi verso questo mondo fu un convinto affondista non posso che credere d’aver preso la strada giusta. Resta impervia: nonostante continui esercizi di fusione, solo adesso comincio a vedere importanti risultati, ed a ricevere positivi riscontri personali, purtroppo la fusione di cui parlo va fatta vocale per vocale, suono per suono, non ci sono magie, non puoi “imparare a fare il passaggio” (= l’urlo) e poi applicare quel criterio a tutte le vocali, la A in falsetto non è la U, certe volte essendo falsettista devo fare il Sol centrale (in note reali) “di petto” (come in effetti consente ed impone questo antico universo, secondo gli esercizi universalmente usati), cosa che se non altro mi fornisce singolari quanto immeritati attestati di stima dai pochi membri del settore con cui condivida i miei disastri vocali, ma non si tratta di tecniche da asporto, tutt’altro. Vuoi una prova delle terribili descrizioni antiche dello studio sulla fusione? Io ne sono testimone: è terribile davvero. E capisco anche perché sia stato abbandonato, a livello pratico. Se ti diverte il tema, contattami ancora senza indugio anche in privato 😉

      • Ti rispondo in poche battute, così se vuoi mi puoi contro-rispondere privatamente: l’argomento mi interessa molto e vorrei approfondirlo con una voce “capace” come la tua 😀 ti lascio la mia mail
        sardusorpheus(at)gmail(punto)com!

        Tu dici che riesci a fare questo mescolamento di registri come potrebbe farlo un qualsiasi tenore: verissimo, ma tu probabilmente trovi più facile farlo di un qualsiasi altro tenore 😉 io personalmente riesco a salire fino al la3 con questo “mix” di petto e falsetto, ma poi lì riesco a salire in falsetto e basta, per poi passare di testa sul do#4, un’area cmq che non esercito e vedo se ho ancora ogni tanto perché cmq non mi serve (se hai modo di scrivermi, potremo scambiarci esperienze acustiche simili!).
        Riguardo la Anfuso, avrà pur fatto ricerca, sarà pur stata allieva di un’allieva di Cotogni, sarà pur stata l’apripista della Castrato Reinassance MA stilisticamente la sua coloratura picchettata, anche quando palese che sia legata un minimo, è inascoltabile; vorrei slanciarmi nel dire anche a delle orecchie passate, perché il Tosi deprecava il ga-ga-ga nella coloratura, figuriamoci il co-co-co della Anfuso XD
        Cmq, quando vuoi, possiamo riprendere la discussione in privato 😀 Saluti cari!

        • Caro sardusorpheus, ti ho risposto privatamente 😉 Lascio a Mancini il privilegium senectutis, egli crede di sapere molte cose, ma ne ignora altrettante: dovrebbe leggere, ad esempio, il manuale di Peter Giles A Basic Countertenor Method, che esiste da oltre 30 anni, per sapere che i falsettisti d’unico registro nell’ottava centrale sono pochi, quasi tutti soprani, e considerati spesso poco appetibili – almeno in certi settori. Evidentemente sconosce Lesne, Galeano, Whitworth… È chiaro che costoro non esistono, ed a questo punto neanche io, che cambio sul Fa#! Spero che sardusorpheus possa percepire da questi discorsi i livelli di chiusura del melomane medio al mondo dei musici voce acuta, i falsettisti, che siamo stati i fondatori della polifonia rinascimentale italiana (gli spagnoletti di Palestrina) ed i primissimi interpreti delle nuove monodie degli albori della modernità.

          • Senti un po’, non mi piace essere preso in giro, in questo caso che mi si spacci come petto ciò che i falsettisti emettono tra il do3 ed il fa3. E’ inutile che mi citi studi e trattati, o che mi fai nomi di cantanti, se quello secondo te è petto ti consiglio di lasciare da parte le letture e di di dedicarti meglio all’ascolto e alla pratica. Straparli se sostieni che quello sia petto. Nessun controtenore artificiale può fare il cambio petto/falsetto sul fa3 o fa#, molti il petto non lo usano per niente, chi lo usa passa parecchio più in basso, sempre sotto il do3. Se arrivassero di petto fino al fa3 canterebbero con la propria vera voce, non farebbero i contraltisti ma i tenori, a meno che non siano effettivamente contraltisti naturali (ne avevi nominato uno in una discussione che abbiamo avuto tempo fa, e non lo trovai male, adesso mi sfugge il nome). Se vuoi ribattere fallo con ascolti che dimostrino il contrario, ma non li troverai. Non c’è nessuna chiusura mentale, solo realismo. Un controtenore artificiale ha una normale laringe maschile, per cantare su tessiture femminili utilizza un artificio che inevitabilmente impedisce di fondere i due registri sulla nota canonica. Ed infatti è proprio nelle zona medio-grave della voce, laddove una laringe femminile potrebbe disporre del proprio naturale registro di petto, che i moderni controtenori risultano più difficilmente udibili.

      • Non esiste nessun falsettista artificiale che arrivi di petto fino al sol (in ogni caso a te, che tu sia tenore o contraltista, sconsiglio di superare il fa). Tutti scendono di falsetto, lo ingolano, lo intubano, per dare un effetto “simil-petto”, ma non possono fare il cambio petto/falsetto sul fa che è la nota canonica di passaggio, perché su quella nota non avverrebbe una fusione omogenea, essendo la loro una vocalità del tutto artificiale. Se emettono qualche nota di autentico petto, ossia la loro voce naturale, questo avviene solo quando la nota è talmente bassa che non potrebbero fare altrimenti, quindi ben sotto il do3. Chiaramente diversi sono i rari casi di contraltisti naturali, come Russell Oberlin ad esempio.

  11. Un controtenore con due registri distinti ma molto efficaci fu Jeffrey Gall che io ascoltai dal vivo due o tre volte e alla Piccola Scala in Ariodante (Polinesso). Sarebbe interessante verificare (é tanto che non riascolto quelle registrazioni e quindi rischierei di essere molto impreciso) “se” e fino a quale nota cantava di petto nell’ottava bassa e centrale.-

    • A costo di suoni orrendamenti ingolati, questo Gall effettivamente nella zona sotto al fa si sforza di produrre un petto molto artefatto, quasi ad imitare i peggiori difetti di una Horne. Bah, a ‘sto punto non dico più niente… Il risultato comunque non è certo una fusione credibile dei registri, è abbastanza inascoltabile.

      • L’imitazione di certi “vezzi” della Horne (a cui perdono tutto tanto da ritenerla pure un’ottima Carmen) é infatti evidentissima…ma a me premeva fornire un riscontro di quello che poteva essere un esempio concreto su alcune questioni discusse da te e Udatorbas

    • Esistono da sempre, i contralti della Sistina sono così da quasi un millennio in qua (peraltro spesso con il singolare nome di “contralti naturali”), a differenza dei falsetti soprani che tradizionalmente non usano molto petto (il Mancini, che fu abile soprano e creazione di Moreschi, ad esempio, non ne faceva uso). D’altro canto è ovvio che debba essere così: Polinesso è un esempio veramente perfetto, provi chiunque a cantare “Se l’inganno sortisce felice” senza il petto! Non metto in dubbio che qualcuno lo possa aver fatto, ma note come il Re o il Mi centrali in falsetto rischiano di essere non tanto “poco incisive” (eufemismo) quanto orripilantemente fiatate e smorte, salvo rari casi (mi vengono in mente Belfiori Doro e David Daniels, due grandi interpreti non a caso criticatissimi per questa tendenza, Belfiori lo fu soprattutto per la resa di certo repertorio seicentesco). Se Mancini ascoltasse l’Ottone cantato da Matteuzzi se ne farebbe una ragione, potrebbe confrontarlo con quello magistrale di Cencic e sentire come una voce particolarmente dotata possa barcamenarsi con lo studio tra il Sol grave ed il Re acuto senza far percepire alcuno stacco. Che poi ogni registro resti in sé riconoscibile, è cosa ovvia ed assolutamente tradizionale: si vedano le ricerche di Uberti in merito, e chiunque se ne potrà sincerare. Fussi ha anzi notato, con analisi universalmente note, come la voce degli evirati (ne trovò uno anziano, non mi si chieda dove) fosse costituita da “imbarazzanti” scaloni, con innumerevoli sbalzi cromatici: il che non giustifica certe discese baritonali proprie di Fagioli, ad esempio, che io non amo (ma usa spesso il petto nell’ottava centrale, soprattutto con intento drammatico), ma aiuta a capire certi manierismi nelle voci di Moreschi e della Patti (di quest’ultima si veda soprattutto il “Batti batti” magistralmente inciso con colorature che sanno di jodel, chiaro riferimento ad un diverso concetto di omogenizzazione dei registri). Insomma, il panorama tecnico del mondo controtenorile è vario, complesso e (per quel che conta il mio parere) assolutamente interessante, tenendo conto anche del fatto che il tenore medio strilla, il baritono ingola ed il soprano ha tanta aria fra le corde che sembra doversi spaccare da un momento all’altro, e ciò nonostante la qualità stia ultimamente decrescendo per la diffusione di troppe mode anche fuori dal tradizionale àmbito dell’early music.

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