Delude in varia misura la prima opera verdiana proposta in questa stagione 2012-’13 quasi interamente dedicata a celebrare genitliaci bicentenari.
A prova della delusione e, prima ancora, del contenuto interesse dimostrato dal pubblico siano l’assenza di vestali e flamini solitamente a guardia del loggione e i parchi applausi al primo intervallo, già eseguiti primo e secondo atto del dramma, al rientro del direttore ed alla fine della rappresentazione. Poi i media, già dalla prima edizione mattutina, inneggiano agli otto minuti di applausi. Ricordo –ed è il primo che viene alla mente- i venti minuti di applausi, che ogni sera, puntuali salutavano il Werther di Alfredo Kraus quasi quarant’anni or sono. Brutto accidente il ricordo, pessimo quello conservato dalle registrazioni fonografiche in studio o live.
In una brevissina intervista pubblicata sulla pagina milanese del Corriere, Daniel Harding, nei giorni scorsi, evidenziava la difficoltà per il direttore di dirigere l’ultima fatica verdiana e, dall’altra, esaltava la grandezza di Toscanini. Il direttore inglese dava prova di avere scoperto l’acqua calda e richiamava la più diffusa vulgata. Avremmo immaginato, quindi, dopo queste dichiarazioni un Falstaff staccato a tempi veloci per non dire indiavolati. Daniel Harding, direttore di Cavalleria e Pagliacci aveva stupito per asciuttezza, levità e stringatezza, ben consona al bruciante Verismo, soprattutto di Leoncavallo e assai soccorrevole della mediocre qualità sonora della compagine orchestrale scaligera e della ben nota incapacità a “cantare e fraseggiare”. Nulla di tutto questo. Un Falstaff grigio, plumbeo per colore orchestrale, noioso per la realizzazione complessiva, inficiato da tempi lenti per nulla idonei alle qualità sempre modeste dell’orchestra milanese e all’altrettanto modesta compagnia di canto proposta oltre che assolutamente avulso dalla parte visiva. Limite quest’ultimo non da poco perché deve essere chiaro che Falstaff è commedia in musica, un genere che tanto si estenderà nel XX secolo, anche sulla base della lezione verdiana.
In questo Falstaff slentato (alla Giulini, mi chiedo?) abbiamo avuto un buon incipit del terzo atto (il monologo di Falstaff) sino all’ingresso della Quickly, abbigliata more Margaret Rutheford come Miss Marple, che avrebbe richiesto sul palcoscenico ben altro cantante ; una pregevole introduzione all’ultimo quadro del terzo atto, compreso l’accompagnamento al sonetto di Fenton (cantato come peggio non si poteva) ed alla canzone delle fate dove però gli strumentini erano acidi e secchi in una sede, musicale e drammaturgica, che ricusa tali caratteristiche.
Davvero poco perché il finale del primo quadro, dove le voci maschili e femminili non sono più voci, ma strumenti, negli interventi solistici prima e corali poi, del “ruzzola rosica” del finale ed il fugato che chiude l’opera, erano fiacchi e bolsi, accompagnati da una grigia orchestra.
Certo Harding, a differenza di tutti i direttori oggi in grande carriera “tiene” sempre buca e palcoscenico e, salvo al finale secondo quando Meg e Quickly attaccano “ Facciamo le viste d’attendere i panni” cui seguono gli altri tutto è filato liscio.
Ma per Falstaff, che è opera del direttore (nella communis opinio tout court e sino ad un certo punto per quelli del corriere della Grisi) accompagnare bene, tenere l’orchestra è troppo poco. Se poi aggiungiamo, venendo all’assai più deludente capitolo dell’esecuzione vocale, che Harding non ha emendato nessuno dei vezzi del protagonista il risultato è una risicata sufficienza. Chiaro che non tutte le colpe sono imputabili al direttore perché, pur con le sue peculiarità, anche in Falstaff ci vogliono cantanti e soprattutto interpreti. E l’interprete deve avere, prima di tutto, grande disposizione tecnica. In difetto tradisce musica ed autore.
A maggior ragione le caratteristiche ricordate sono irrinunciabili se la direzione opta per un’esecuzione con tempi rallentati, sonorità attenuate da colloquio, come accade negli incontri Quickly – Falstaff (soprattutto il primo) ed ancor più per quello Ford – Falstaff all’inizio del secondo atto. Per reggere il tempo staccato e secondare le intenzioni del direttore in questo passo ci sarebbero voluti la coppia Scotti/Tibbett del Met (1925) o i celebrati Rimini e Stabile magari in coppia con Biasini.
La coppia baritonale è stata pesantemente insufficiente. Ambrogio Maestri di Falstaff ha la sola complessione fisica. Nell’esecuzione vocale o accenna e parlotta (vedi i monologhi “l’onore ladri” o quello del terzo atto), non è in grado di cantare a fior di labbro e, quindi, è persa tutta l’espressione e l’ironia del personaggio sia quando filofeggia sul prolisso testo boitiano, sia quando si autoincensa con un “quand’ero paggio del duca” senza levità, senza ironia, senza canto. Un paio di acuti (alla chiusa del monologo) farebbero pensare ad un volume cospicuo, ma rimangono imprese velleitarie e poi il cattivo gusto di falsettini ovunque “l’estate di san Martino” , “vado a farmi bello”, quando
lo spartito nulla di ciò prescrive. Per capire cosa significa cantare ed interpretare Falstaff invito gli ascoltatori di buona volontà a sentire l’ingresso di Falstaff nella casa di Alice cantato da Mariano Stabile ed Arturo Toscanini, anno 1937 a Salisburgo. E’ uno di quei passi dove è difficile comprendere da chi partano le idee interpretative e chi le realizzi se il cantante o il direttore.
Quanto al rivale il cosiddetto “monologo delle corna” è urlato, anzi sarebbe urlato perché di materiale vocale poco o nulla e arrivati al sol acuto conclusivo sentiamo un suono stonato, fisso, indietro e di inesistente volume. Che poi, nei pacchiani panni del texano arricchito, il signor Capitanucci reciti bene è questione che non rileva. Almeno a nostro avviso.
Problematica la prestazione di Daniela Barcellona e mi spiego. Sparite le Quickly con registri di petto fenomenalmente dispiegati nel “reverenza” (mica un mi bem2, ma un si sotto il rigo) e che per questa prodezza si facevano perdonare voci usurate di contralto o di mezzo soprano, la critica ha cominciato ad elogiare le protagoniste “fini dicitrici” onde salvare prestazioni ben poco rispettose dell’idea verdiana di utilizzare a fini grotteschi il registro di petto femminile. Solo che per essere una Quickly diseuse, ovvero
per avallare un falso rispetto alle previsioni verdiane bisogna disporre di un registro medio dal mi 4 al mi3 sonoro, rotondo ed ampio. Daniela Barcellona in questa zona esibisce da anni il paradigma del “buco o scalino”, per cui frasi come “siete un gran seduttore” suonano dette da una voce di soprano lirico per peso e colore e non già dal contralto previsto da Verdi. Insomma, tanto per essere i soliti laudatores temporis acti, pochissimi mezzosoprani potrebbero cantare la Quickly nella zona sopra indicata senza difficoltà e facendosi perdonare insufficienti affondi nel “reverenza”. Tanto perché piova sul bagnato quando la Barcellona canta al terzo atto la frase “Povera donna vana” e deve
esibire il registro medio grave l’effetto è grottesco e non nel senso previsto da Verdi. Tralasciamo la goffaggine mimica nel simulare una svampita signora stile Rosalind Russell, che indossa cappellini modello Biki della Gamboloita. Quanto alle altre comari il livello è il medesimo: praticamente afona Laura Polverelli, elegantissima e avvolta negli abiti più eleganti della serata; timbro sgradevole acuti al limite dell’urletto (il do del concertato e quello in scaletta di “allegre comari di Windsor”), fraseggio assolutamente inerte Carmen Giannattasio, con fisico più da “casalinghe disperate” di Catania che non da signora bene inglese. Un po’ meglio Irina Lungu, Nannetta, anche se la canzone delle fate richiederebbe un sostegno del suono ben differente in grado di dare astrattezza e lunarità all’unica aria in senso tradizionale ed una maggiore proiezione alla voce, atteso che Nannetta non è chiamata ad emettere sovracuti, ma canta spesso in tessiture molto alte. Unico mezzo per differenziarla dalla onnipresente madre.
Disastroso l’innamorato Francesco Demuro, alla seconda scena del primo atto trasformato in un cameriere, riesce, appena arriva un la acuto, ad emettere rochi falsetti e nella scena del sonetto le frasi come “una altro labbro” (salita al la), “cosi baciai la desiata bocca” (sol acuto) sino al si nat conclusivo sono urlate per la fatica di cantare i primi acuti da parte di chi ignori il meccanismo del passaggio di registro, e le precedenti sulla zona propria del passaggio sono maldestramente parlare, senza il legato e i sospiri che il giovane innamorato deve esibire. Piaccia o non piaccia, all’interno di una partitura dove vale il dire più che il cantare, Fenton e Nannetta cantano, celebrazione da parte di un vecchio signore della gioventù e dell’amore.
Dulcis in fundo, tralasciati i comprimari, che poi tali non sarebbero nel Falstaff, arriviamo all’aspetto più deludente, ovvero l’allestimento. Forse, a torto, credo che la trasposizione dall’epoca del libretto ad altra debba essere una scelta estrema e dettata da valide ragioni, ove per valide si intenda tali da non stravolgere la poetica e, magari le indicazioni registiche contenute nel libretto. Per la sua specifica vicenda compositiva, per la natura di commedia Falstaff prevede nelle didascalie note di regia complete spesso essenziali anche per l’esecuzione musicale, vedi l’andirivieni del quartetto femminile e di quello maschile al finale primo. La decisione di superarle deve approdare ad effetti visivi e musicali coerenti e che giustifichino la scelta. Il tutto latitava nell’allestimento non nuovo proposto ieri sera. Chiediamoci il senso di trasformare l’osteria della Giarrettiera in un club o nella sala da fumo di un albergo dove si aggira un’improbabile e svampita maliarda, che inciampa ed ammicca nulla aggiungendo alla comicità di Quickly, che è essenzialmente vocale, oppure di ambientare l’incontro Falstaff –Alice nella cucina di casa. Cucina che merita di essere chiosata, ricordando al regista ed allo scenografo che i frigoriferi da incasso a due ante sono entrati in produzione negli anni ’90 e non già negli anni ’50, e potremmo proseguire segnalando altri svarioni come il secondo quadro del primo atto dove i camerieri camminano sui tavoli, le persone si alzano liberamente da tavola (vigeva soprattutto nei ceto sociali elevati e nei loro parveneu imitatori un rigido galateo) e i cappotti delle signore vengono consegnati in sala da pranzo e non nell’apposito locale guardaroba. Allora certi svarioni possono anche capitare quando l’allestimento si avventuri nella notte dei tempi, ma esistono fior di pellicole cinematografiche anni ’50, che ben insegnerebbero al signor Carsen e collaboratori come allestire coerentemente e congruentemente lo spettacolo evitando grossolani errori. Ma il vero problema non solo gli svarioni in sé e per sé soli, ma il fatto che al di là della pretesa novità costituita dalla trasposizione temporale, non abbiamo nulla perché i gesti di Falstaff sono quelli di tutti i protagonisti, le movenze ammiccanti di Nannetta, le avences di Fenton, la gelosia immotivata di Ford, la petulanza del Dott. Cajus quelle sono , quelle restano e quelle non potrebbero che essere come Verdi e Boito le hanno pensate, versificate e musicate. Piaccia o no ai nuovi geni della regia ed ai loro poco colti mentori, che si lasciano affascinare da questa pseudo cultura.
Ho ascoltato questo Falstaff per radio. E devo dire che la maggiore delusione proviene proprio dal direttore. Premesso che non credo esistano “opere da direttori” e “opere da cantanti”, nel senso che entrambi gli elementi devono “funzionare” al meglio (sia che si tratti di Bellini sia che si tratti di Wagner) e che tutte le opere siano “da direttori e da cantanti”, a maggior ragione questo succede per Falstaff in cui tutto ciò che accade in orchestra si riporta IMMEDIATAMENTE a quel che accade sul palcoscenico e in cui le voci non sono affatto in secondo piano. Insomma Falstaff non è un poema sinfonico ed evidenziare gli aspetti prettamente sinfonici dell’opera (come se fosse un quid pluris rispetto al resto del catalogo verdiano) conduce inevitabilmente a notevoli fraintendimenti che generano – a conti fatti – un clamoroso fallimento. Infatti tutti i direttori che hanno evidenziato unicamente tale aspetto sono miseramente caduti: Karajan II (ma anche sul primo avrei da ridire), Solti, Bernstein e, soprattutto, Abbado (evidente modello di Harding). Verdi era e rimane un’operista…col Falstaff non ha voluto comporre una sinfonia con voci né aveva bisogno di mostrare le sue capacità nel comporre per orchestra: è un’opera. Punto. Evidenziare e sottolineare presunte finezze e squadernarle all’ascoltatore come virtuosismi orchestrali fini a sé stessi è operazione inutile e mero esercizio onanistico… Soprattutto se manca il rapporto con il palco: necessario più che mai in Falstaff. Anzi se c’è un’opera in cui l’ego del direttore deve proprio sparire per lasciar posto alla naturalezza della macchina teatrale verdiana è proprio Falstaff. E questo l’hanno compreso perfettamente Toscanini, De Sabata, Giulini (pur in una visione più crepuscolare e malinconica), Rossi e persino Muti. Harding invece vuole “strafare”, crede di dirigere Strauss e, soprattutto, crede che dirigere Falstaff come se fosse Strauss lo “nobiliti”…e quindi cura certi dettagli senza occuparsi della tenuta con il palco, lascia fare ai cantanti tutto l’armamentario di caccole che si sperava superato da 40 anni, si disinteressa di ciò che accade in scena, perde per strada le voci… Così tutto diventa grigio e artificiale. Perché manca vita teatrale: si assiste ad un direttore che “fa” il direttore…a spese di Verdi (che ha scritto un’opera, non una sinfonia). Insomma, Harding vuole far vedere che è bravo, ma così fa solo la figura del “secchione”.
Poco da dire sui cantanti: deludenti e triviali oltre che per nulla aiutati da un direttore che non si è neppure preoccupato di farli andare a tempo.
Nulla posso dire della messinscena – non l’ho vista – salvo osservare che il Falstaff di Verdi-Boito NON sono le Comari di Windsor di Shakespeare…così che la versione “old british” della vicenda appare espediente oltre che scontato, pure poco efficace.
Ps: mi dicono che nel “tutti gabbati” le luci della sala si accendono e i cantanti indicano il pubblico…roba da provincia becera o da recita parrocchiale. Se questo è un genio….
Io di Falstaff ne ho ascoltati come minimo una ventina in teatro, ma una simile noia, slentatezza, mancanza di ritmo e di capacità di narrazione credo di non averla mai sentita. E ce ne vuole per rendere Falstaff noioso!
Mi chiedo una cosa: Harding non ha provato con il cast o ha veramente lavorato per ottenere… questo??????????
Pare che abbia chiamato Abbado (che ha inciso e diretto uno dei peggiori Falstaff dell’intera discografia…). Quindi sì..credo che il risultato sia voluto: a me non è parso slentato, ma inutilmente calligrafico, privo di teatralità e con svariati impacci con il palco.
a leggere le interviste dopo opera,era quello che voleva Harding.
è tanti ne tessano le lodi.
Evitendemente di Falstaff hanno capito poco niente.
certo che porre come esempio il Fenton di Kraus è, per dirla alla Boito, gaglioffa! E quando mai lo riascolteremo così?
Concordo con la delusione di una direzione bolsa, isterica a tratti, per nulla attenta al palcoscenico.
Lo spettacolo, lo dico sottovoce e frigorifico ad incasso permettendo 😉 mi ha divertito assai.
Saluti
potevo anche mettere schipa, valletti e la musica non cambiava. la parte di fenton è pensata per essere sospirata e cantata a fior di labbro
Donzelli, c’è, tanta perfida e amara verità nelle sue scelte e parole.
Il Falstaff del ’37 è merce qualitativamente davvero rara, meno male che si puo’ ascoltare.
Quanto a Fenton, Il guaio è che non si vedono in circolazione cantanti degni di questa parte, è un problema di padronanaza tecnica del mezzo, più che di voce, anche se concordo che usare Kraus come punto di riferimento è un vero cazzotto sul muso di Demuro (in questo caso) o di Florez (sempre con Maestri ma con Muti sul podio) che, date le dimensioni, rischia di rimetterci il naso, eh eh !
il problema è che la perfidia ‘ nello stato delle cose che sentiamo….
A costo di sembrare monomaniaco io ve la posto lo stesso
http://www.youtube.com/watch?v=N82XuIgjGPc
difficile immaginare un Fenton più amoroso di così…
hehehe. E fai bene! Come si dice? Chi può può, e chi non può ……non può!!!!…….
Ero in sala. Sottoscrivo ogni riga della recensione, sarei solo un po’ più severo con Harding ( davvero incapace di tenere insieme buca e palcoscenico) e un po’ più tollerante con Carsen (nonostate alcune cadute di gusto, mi ha divertito).
Da aggiungere alla classifica “Operapacc” il forfait totale della Frittoli nel ruolo di Alice…
Mi è molto simpatica la linea editoriale del Corriere della Grisi (anche se talvolta la trovo un pochino prevaricante o esagerata, forse), rispetto l’opinione dei suoi collaboratori e mi piace la difesa del canto italiana all’antica (l’unico possibile per il grande repertorio, d’altronde). Dunque, anzi tutto: bravi!
Credo però che sapere di canto, avere un buon orecchio e i migliori riferimenti al passato e alla discografia magari non basta per fare delle critiche serie. Ci vuole forse anche una conoscenza musicale e tecnica iù approffondita della musica in generale e delle partitura di cui si parla in particolare.
Faccio solo pochi esempi concreti, sperando di non offendere chicchessia:
– Si parla (qui e altrove) con grande disinvoltura e pochi dettagli di tempi “troppo lenti” o “troppo rapidi”, evidentemente in rapporto ai particolari gusti del critico, i cui riferimenti sono incisioni e recite udite in passato. Si dimentica che Verdi (come Beethoven o Puccini) ha metronomizzato tutti i suoi tempi, quindi il “troppo lento” o “troppo rapido” andrebbe rapportato a questa informazione concreta fornita dal compositore in partitura e non al tempo-standard con cui questo o quel melomane fischietta da sempre il Brindisi della Traviata “perchè l’ho sentito sempre così”.
– Non è affatto detto che non si possa o non si debba utilizzare il falsetto semplicemente perchè il compositore non lo ha previsto esplicitamente (così come non prevede quasi mai cantare certe note in registro di petto, misto o di testa). Un cantante maschile alle prese con una nota acuta da cantare pianissimo può, secondo il contesto, utilizzare il falsetto, il falsetto rinforzato o appoggiato (falsettone) o qualunque altra forma di emissione che ritenga opportuna al contesto, purchè coerente con questo contesto e purchè gli venga bene. In alcuni casi (non dico sia questo il caso, non ero in sala) un suono acuto maschile in pianissimo fatto bene è pure difficile da definire, non si sa bene se sia falsetto, falsettone o cosa. In ogni caso, Verdi prevede apertis verbis il falsetto, sia nella parte di Falstaff che in quella di Ford, anche se non nelle due frasi citate. (Ignoro comunque che cosa abbiano fatto i due baritoni e come, ripeto: non ero in sala).
– Si fa un gran parlare (non solo qui) del “contralto” che dovrebbe cantare il ruolo di Quickly. A voler essere pignoli (e il Corriere vuole esserlo), Verdi nella partitura ha scritto “Mrs. Quickly – Mezzosoprano”. È vero che il ruolo viene bene ad un contralto autentico (come succede con Ulrica) ed è anche vero che nei concertati la Quickly canta sempre – per quanto riguarda la tessitura – molto in basso e al di sotto dell’altro mezzosoprano, Meg; ma se è per questo Nannetta (in genere affidata a soprani più leggeri) nei concertati canta al di sotto di Alice (affidata a soprano più lirici) e non per questo si dice o si chiede che Nannetta sia “soprano secondo” o “Falcon”. (Storia simile in Mozart, in cui – a guardare i concertati – teoricamente Figaro, Leporello e Guglielmo sono bassi autentici, e il Conte, Giovanni e Alfonso puntano di più sul baritonale… anche se poi si guardano le arie e l’equazione quasi si rivolta; idem Susanna, Zerlina, Despina).
– Non ho sentito il signor Demuro, ma una cosa è certa: non si può cantare un ruolo primario (anche se non lunghissimo, come il Fenton) se non si conosce minimamente il meccanismo del passaggio di registro. O lo si conosce o non si arriva alle note, neanche urlando belluinamente, a fine recita si è spacciati. Il Demuro avrà anche cantato maluccio o molto male, e quindi farà anche il suo passaggio di registro in modo maldestro, ma di sicuro in qualche modo lo fa e ciò gli permette di terminare le recite, queste e tante altre. (Tra l’altro, era proprio l’ossannato Kraus, nella sua ignoranza di tante questioni vocali, colui che affermava che non esisteva il passaggio di registro all’acuto, dal punto di vista tecnico!)
Dulcis in fundo: non condanniamo a priori quasi tutti gli interpreti odierni per osannare a priori quasi tutti gli interpreti del tempo passato. Toscanini, sommo direttore, ha inciso una Traviata con tagli imbarazzanti (con una scala di raccordo fra due scene scritta da altri!) e piglio militaresco, e una Bohème senza lirismo i cui tempi velocissimi (eccezion fatta per la “Vecchia zimarra”, che solo Toscanini ha reso nel suo giusto tempo) e l’ignoranza delle dinamiche Puccini non avrebbe mai approvato. Kraus, sommo cantante, non era libero da suoni stretti, metallici, pungenti, taglienti, talora fissi, duri, spinti, non belli, e in alcune opere come Rigoletto o Racconti di Hoffmann faceva acqua nel registro grave al punto di cantare certe note all’ottava acuta (per non parlare del suo insegnamento, che ha distrutto decine di voci e generato parecchi cantanti pessimi come Simón Orfila).
Complimenti comunque, Grisi, Donzelli e compagnia. Le mie sono solo puntalizzazioni da vecchio incorreggibile.
Kraus diceva che non esiste un passaggio di registro perché la voce è solo una, e deve sempre restare una. Il passaggio per lui era una cosa inventata, un metodo di lavoro, per risolvere la salita agli acuti e cercare l’egualazione del timbro in tutta l’estensione della voce. Per lui la ressonanza doveva sempre rimanere la stessa, sempre proietata in alto. Lui comparava la salita verso l’acuto con un stantuffo; più acuto, maggiore compressione. Ma la posizione doveva rimanere la stessa.
Anche il tenore Viñas non pensava che esistesse propiamente il passaggio. Lui simplemente suggeriva ombreggiare progressivamente il suono, che è infatti quello che dice il Blake:
http://www.youtube.com/watch?v=0XcWCUNaX04
Dicevano che il passaggio non esiste como una entità reale (non negavano la problematica) non per ignoranza o stravaganza , ma per la sua propia esperienza del canto, canto che non esistirebbe senza una tecnica giusta (questo mi sembra troppo evidente…). E non vado oltre… Se gli alivi cantano male, è perché lui non sapeva spiegarsi o perché essi non capivano o perché hanno tutto dimenticato. È evidente per esempio che Orfila non fa nulla da quello que Kraus abbia potuto insegnare.
Per cuanto riguarda al falsetto, mi sembra che, se si usa, debe essere per scelta e con una intenzione concreta, non per incapacità da salire agli acuti in modo canonico. Dico questo perché oggi sentiamo molti cantanti, quasi tutti, che lo usano (se non urlano e mettono tutto indietro) perché non sanno/possono fare altrimenti.
Caro Ivanoff, premettendo che anche a me piace Kraus (ci mancherebbe altro!), devo dire che il mio pensiero sul grande cantante e sulla giusta emissione differisce un po’ dal suo.
Anzi tutto, poniamo chiari limiti al Kraus cantante, che è sempre stato un empirico a tutto tondo, uno che così cantava perchè così gli avevano detto i suoi tre maestri, senza porsi altre questioni. Il grande Alfredo non aveva mai letto nè i grandi trattati del belcanto (Tosi, Mancini, Lablache, García, Marchesi, Delle Sedie, Lamperti…) nè le testimonianze letterarie e tecniche dei grandi vocalisti del passato (Lehmann, Caruso, Tetrazzini, Pertile, Lauri-Volpi…), nè aveva studiato la moderna trattatistica vocale, soprattutto americana (Vennard, Miller, Hines…).
Questo, ahimè, era ben evidente, visto che quando parlava di canto il risultato era spesso imbarazzante. Quando insegnava, poi, semplicemente prendeva i poveri allievi e faceva loro schiacciare, schiarire e spingere – tra l’altro sempre attengiando la bocca in modo oscenamente rigido, il che è agli antipodi della tecnica del belcanto – fino a che lo studente rimaneva muto dallo sforzo o semplicemente finchè cantava tutto rigorosamente “impiccato”, duro e brutto (e allora Kraus manifestava il suo assenso). Non dimenticherò mai la masterclass in cui il bravo tenore italiano Orfeo Zanetti, allora giovane di bellissime speranze, esordì cantando un’aria in modo splendido, con voce rotonda, morbida, calda e duttile, senza alcun problema tecnico, per poi vedersi la voce ridotta ad un urlo rauco da Kraus, che quindi lo complimentava: “Ecco, così”.
Kraus ignorava, lui sì, la tecnica classica del belcanto per il passaggio della voce in acuto e per un canto rilassato, con la voce morbida, rotonda, dalla pastosità normale (non ispessita, ma neanche ridotta al lumicino come voleva lui) e dal timbro naturalmente rotondo (non scuro a tutti costi, ma neanche bianco come voleva lui). Cioè, addio chiaroscuro nel canto: tutto chiaro, tutto brillante, tutto squillante, tutto una lama, anche se una squisita musicalità e certi aerei pianissimi supplivano in qualche modo vista la mancanza di questo gioco di colori che ci dovrebbe essere sempre.
Ciò che Kraus faceva sembrava piuttosto l’estremo opposto della scuola dell’affondo dei Del Monaco. Se i Del Monaco divevano “la voce il più larga possibile, tutta dentro, tutta sotto, tutta indietro”, Kraus diceva “la voce il meno larga possibile, tutta fuori, tutta su, tutta fuori”. Purtroppo, e anche se tanti ci dicono altrimenti, quest’ultimo approccio semplicistico fatto di estremi è tanto lontano dal belcanto originario quanto il metodo dell’affondo. (Il che non toglie il loro valore a Kraus e anche a Del Monaco, sia ben chiaro. Non a caso non avevano quasi nessuna opera in comune questi due tenori).
Il fatto poi che Kraus fosse un grande musicista, un grande artista, un grande interprete, un grande stilista, con una salute di ferro, una grande disciplina di studio, una buona voce e un’emissione con cui otteneva certi risultati, è fuori di dubbio. Ma non direi proprio che quanto faceva e predicava Kraus fosse l’ortodossia del belcanto italiano. (E in effetti sul Corriere si cita spesso Bergonzi come grande belcantista… beh, bisogna decidersi, cari amici, perchè il sommo Carlo dal punto di vista tecnico-vocale era proprio agli antipodi di Kraus, in primis proprio nel passaggio agli acuti).
Non porterei in ballo Blake qui. Neanche lui è molto ortodosso vocalmente, sebbene sia anche lui un grande cantante, splendido nel Rossini serio. Spesso e volentieri si parla della sua “voce brutta”, quando la verità è che è il suo tipo di emissione a renderla brutta. E anche se le somiglianze con Kraus sono multiple, Blake ombreggia progressivamente il suono nel salire, mentre Kraus non lo faceva proprio, anzi faceva il contrario e lo sconsigliava a chiunque volesse starlo a sentire.
Ecco perchè l’unico – dico unico – cantante che abbia studiato con Kraus e sia riuscito più o meno a cavare un ragno dal buco è José Bros, una specie di “Krausetto” che sa cantare con gusto e piacevolmente. Tutti gli altri, e sono stati tanti, o rovinati per sempre (e quindi il pubblico non li conosce) oppure pessimi cantanti.
Ora non mi venga a dire “gli allievi non lo hanno capito”. Se di cento allievi dieci non capiscono, è loro colpa, ma se di cento allievi 99 non capiscono, la colpa è del maestro. Basta poi sentire attentamente il povero Orfila (una specie di tenore comprimario che canta da basso) per capire che fa esattamente quello che il suo maestro gli diceva di fare… mandare il suono in punta, duro e chiaro fino allo spasimo, direttamente “in su e in avanti”, tramite il naso (il che è solo una caricatura di alcuni elementi giusti del belcanto ortodosso). Il risultato è penosissimo, anche se la sua agenzia lo piazza alla Scala e la Covent Garden senza problemi e i pubblici di mezzo mondo gradiscono. Questo povero ragazzo, se rilassasse la gola e cantasse soltanto in modo un poco più umano e naturale sarebbe tanto meno terribile da sentire. (Chiarisco che sia lui che altri hanno studiato a Madrid alla scuola Reina Sofía per tutti gli anni del corso con il maestro Kraus, che poi li ha promossi a pieni voti).
Il discorso, insomma, è più complesso e più specifico, e mi sembra che spesso e volentieri si confondono risultati interessanti e lodevoli con la vera tecnica del belcanto all’italiana. Sono due cose diverse. Kraus mi sembra interessante e lodevole, ma non rappresenta questa tecnica, al meno non in tutti i suoi aspetti.
beh forse ha ragione Marco Ninci,se gli allievi non capiscono,la maggior colpa è del maestro…
Kraus era uno con “una buona voce e un’emissione con cui otteneva certi risultati”. Ah sì? E beccàtevi Kauffman allora. “Il sommo Carlo dal punto di vista tecnico-vocale era proprio agli antipodi di Kraus, in primis proprio nel passaggio agli acuti” sì, infatti dal ’70 in poi ogni acuto di Bergonzi era calante e opaco (già i la naturali eh, niente di estremo), Kraus invece a settant’anni cantava la cabaletta di Tonio, poi è morto. La cantava un po’ nel naso? Sì, un po’.
Kraus ignorava la tecnica del belcanto perchè non aveva letto “nè i grandi trattati del belcanto (Tosi, Mancini, Lablache, García, Marchesi, Delle Sedie, Lamperti…) nè le testimonianze letterarie e tecniche dei grandi vocalisti del passato (Lehmann, Caruso, Tetrazzini, Pertile, Lauri-Volpi…), nè aveva studiato la moderna trattatistica vocale, soprattutto americana (Vennard, Miller, Hines…)”. Bene, credete che Schipa avesse letto tutta questa roba? Gigli? La Sutherland era una grande belcantista proprio perchè aveva letto le memorie della Tetrazzini, lo sanno tutti.
Kraus non era un bravo insegnante, su questo non ci sono dubbi; di grandi cantanti-grandi insegnanti ce ne sono stati pochissimi però, anzi non me ne viene nemmeno uno. Anzi uno sì: Cotogni.
Su Cotogni mi correggo: ipotizzo che fosse un bravo insegnante visto il valore degli allievi. Lauri-Volpi, che lo adorava come persona e come artista, diceva che il suo metodo di insegnamento era piuttosto debole perchè basato solo sull’imitazione.
gentile signor “Panizza”
per quanto riguarda il canto mi pare che altri Le abbiano già risposto e poco o nulla aggiungerò di mio
a) in genere i cantanti famosi non sono buoni maestri di canto. Oggi come ieri. Mi pare ci sia una lettera di Donizetti che elogia la cucina di David figlio, riprovando nel contempo il maestro di canto. I grandi maestri dell’800 spesso erano stati cantanti mediocri come la Marchesi o Enrico delle Sedie.
b) non concordo che Kraus e Bergonzi siano così differenti. Prendo ovviamente il Bergonzi ante 1975 quando i portamenti per salire agli acuti non erano divenuti la regola in uno con una notevole “chiusura” del suono ed il Kraus sino a quel periodo, dopo comincerannoi suoni nasali. basta ascoltarli nelle stesse pagine come l’Alfredo di Traviata o l’Edgardo di Lucia
c) vado invece alla critica circa la preparazione musicale, che nei post successivi ha abbandonato. Mi spiace ma le indicazioni di tempo e di metronomo non sono legge assoluta ed inviolabile. In difetto non servirebbe nulla per fare il direttore d’orchestra limitandosi a battere il tempo senza scelta dello stesso perchè scelto da altri ed allora tutti, ma proprio tutti saremmo direttori d’orchestra. Ed invece non è così. Non occorre molto per verificare con riferimento a questo Falstaff che il tempo scelto e staccato da Harding è sempre più lento di quello di un Toscanini, ma anche di un de Sabata (che in Falstaff è più lento di Toscanini in certi luoghi topici), ma sopratutto che l’orchestra scaligera manca della brillantezza e del fulmineo fulgore di quelle dei maestri sopra citati. E ciò ad onta di una presa di suono datata, anche se il solo primo atto del 1936 è di ottima qualità.
d) quanto a Toscanini non ho scritto che fosse perfetto ed incriticabile. Ma quando arriva Falstaff le scelte di Toscanini hanno la marcia in più. Inoltre valutare Toscanini dalle sole registrazioni americane della BBC sarebbe come valutare Karajan dalle ultime produzioni discografiche il cui unico scopo era implementare l’asse ereditario di moglie e figliole!
e) immagino che la scelta del nick name Panizza sia per motivi patriottici !
Gentile Donzelli:
Anzi tutto, non capisco le virgolette che Lei colloca sul mio nickname e l’ironico suo commento a fine post. Anche lei evidentemente non si chiama Donzelli ma nè questo nè il suo eventuale patriottismo sono quanto ci interessa.
Chiarito questo, le rispondo:
a) Mi sembra che ci siano sempre stati buoni e cattivi cantanti, buoni e cattivi maestri. Forse lei ha ragione, ma teorizzare che un bravo cantante tende ad essere un cattivo insegnante oltre a servire a poco non sembra molto logico.
b) Ahimè, qui sbaglia in pieno. La tecnica di Bergonzi e quella di Kraus sono agli antipodi, assolutamente. Non solo il loro canto (notevole in tutti e due i casi, sia ben chiaro) ne è la prova: loro stessi lo dicevano chiaro e tondo, in interviste radio, televisive e stampate. Sia l’estetica del suono (raccolto, rotondo, cupo, coperto, morbido in Bergonzi; tutto il contrario in Kraus) che il meccanismo per salire agli acuti (giro della voce con sbadiglio e arrotondamento di suono con modificazione di vocali verso quelle più scure in Bergonzi, l’esatto contrario in Kraus) parlano chiaro.
c) Mai detto che il metronomo è assoluto e inviolabile. Semmai è al meno così importante quanto l’altezza e la durata delle note, l’articolazione prescritta, il carattere indicato a parole dal compositore, eccetera.
d) Qui siamo d’accordo su tutti e due i punti.
nessuna ironia sul panizza direttore che mi ha rivelato Simone. E non è poco. Una sola replica. La tecnica di canto è una sola quindi delle due x il caso di specie o kraus o bergonzi non sapeva cantare. A lei la scelta. Io continuo a pensarla alla mia. Saluti ed alla prossima
Non è la tecnica ad essere una, è il CANTO ad essere UNO. Di tecniche ce ne sono diverse, è il fine della tecnica che è o dovrebbe essere uno.
Le ringrazio la garbata risposta.
Per quanto riguarda Kraus e Bergonzi, ahimè, non sono io a sostenere quello che dico nel mio post (e a dover scegliere tra l’uno e l’altro, come lei mi suggerisce): sono proprio Carlo e Alfredo a pensarla a questo modo. Lo hanno detto loro chiaro e tondo, non sono io che teorizzo.
Le posso far avere interviste stampate e registrazioni di lezioni in cui in separata sede uno dice, dimostra e chiede una cosa (tecnicamente parlando), e l’altro il suo esatto contrario, dicendo anche “non si può andare in acuto con la voce rotonda e scura come tenta di fare Bergonzi: la voce non si deve coprire, passare o girare andando in acuto, non si deve sbadigliare”).
Comunque mi sembra che l’evidenza dell’ascolto parli da sola. Si riascolti con attenzione una stessa aria cantata da questi due grandi tenori e poi mi sappia dire. Più opposti di così non si può… l’interessante, naturalmente, è che tutti e due pervengono a risultati interessantissimi.
Per il resto, naturalmente il Mancini ha ragione: di tecniche ce ne stanno parecchie (basta saper ascoltare e leggere) e molte “funzionano”. Qui al Corriere però difendiamo come ottimale quella classica del belcanto italiano. Resta appurare se questa “nostra” tecnica sia quella di Kraus, quella di Bergonzi, o quella di altri (naturalmente non quella dell’affondo delmonachiano, storicamente posteriore; eppure “funziona” anche quella!).
Io ho naturalmente la mia opinione in merito, ma ci vorrebbe un lungo articolo (o un breve libro) per parlarne seriamente.
Il “belcanto” non è una tecnica… semmai è uno stile, e comunque il canto è uno e non può che essere uno. Io non difendo nessuna tecnica, difendo solo l’unico vero canto.
Ascoltare alla radio quello che ci veniva indicato come il Falstaff di Verdi, mi fa solo capire che tra noi ascoltatori e i dirigenti del teatro della Scala oramai esiste un fossato incolmabile. Assistei in passato alla famosa Anna Bolena, che vide dimissioni nel teatro solo perchè alcuni giornali mettevano in “dubbio” le capacità organizzative degli stessi, oggi di fronte non ad un caso ma alla sistematica contestazioni che questo teatro procura non solo a noi ascoltatori ma all’intero panorama operistico mondiale. Solamente che quelli che criticano hanno più scheletri nell’armadio del famoso medico Lombroso.
Si cerca di turare falle sempre più estese nelle produzioni, tanto che oramai si cerca di esaltare almeno “un componente” del cast.
Peccato che nel caso del Falstaff il direttore non viene risparmiato e il Corsera (bontà sua) definisce “la direzione scolastica”
che in gergo vuol dire ha cannato!
Poi si critica la scelta di Quickly in quanto cantante non abituata al repertorio serio, che in gergo vuol dire ha cannato.
Negli anni attuali, con le finezze verbali di critici ammaestrati, con le enormi capacità economiche e le pochezze di cui dispongono e che sono inversamente proporzionali a ciò che realizzano, neppure un mezzobusto del teatro sente la necessità morale di dimettersi, il che la dice lunga sulle qualità intellettuali di chi governa il teatro.
Spero che almeno questa volta non cerchino di dire che è il cane che abbaia alla luna.
Cito: “Basta poi sentire attentamente il povero Orfila (una specie di tenore comprimario che canta da basso) per capire che fa esattamente quello che il suo maestro gli diceva di fare… mandare il suono in punta, duro e chiaro fino allo spasimo, direttamente “in su e in avanti”, tramite il naso (il che è solo una caricatura di alcuni elementi giusti del belcanto ortodosso).”
Mi chiedo como si può essere un “tenore coprimario che canta da basso” e nello stesso tempo cantare “chiaro”, “in su e in avanti”? Invece a me Orfila pare ingolato, gonfio e scurito. Lo conferma che i teatro non ha nessuna proiezione e per farsi udire spinge come un pazzo, incapace della più piccola nuance. E oggi questi defetti sono ancora ben più evidenti.
http://youtu.be/dI_ucjKTamQ
Kraus non mi pare affatto ingolato, gonfio e scurito. Notebole anche il testo catalano chiarissimo, comprensibile al primo ascolto (lui che non parlava catalano – mentre con Orfila che lo parla non si capisce una parola).
http://youtu.be/Rg7IBSEoBB8
Caro Ivanoff, padronissimo di pensarla così, però devo dirle che lei non risponde alle mie principali argomentazioni (non che sia obbligato a farlo, ci mancherebbe).
Che Orfila sia un tenore era un po’ una battuta, o se vuole un’esagerazione colorita. Volevo intendere ciò che secondo me è molto ovvio: che si definisce basso (o basso-baritono) e canta il grande repertorio di basso classico e belcantista, essendo al massimo un baritono chiaro con una brutta e piccola voce da comprimario, che per altro non sa usare.
Personalmente non mi sembra proprio che gonfi o scurisca. Naturalmente spinge il fiato e schiaccia la voce. Queste ultime due cose, ahimè, le faceva anche il grande Kraus, anche se con risultati artistici finali incomparabilmente migliori.
Il video di Orfila da lei postato è comunque terrificante. Pessimo lui, raccogliticcia e allo sbaraglio l’orchestra, direttore evidentemente non-professionista. E nel vederlo, purtroppo, le devo dare torto: Orfila non va in gola, va chiaramente nel naso, fin dal primissimo suono, con l’ingenuo tentativo di fare “salire” la voce in un modo “diretto” che riusciva solo a Kraus e che Kraus “insegnava”. Sia il suono che la configurazione facciale non lasciano dubbi.
In ogni caso, potenza arcana delle agenzie, continueremo a sorbircelo in un ampio repertorio e su tutti i principali palcoscenici del mondo: http://www.operabase.com/listart.cgi?lang=it&name=orfila&acts=+Programma+.
(No s’ofengui, estimat amic rus!)
Per me il maestro di canto dopo un anno e mezzo due di lezioni serve a ben poco. Ritengo infatti che voce modesta o importante che sia (per richiamare la rubrica specialità della casa) il cantante deve avere doti naturali straordinarie che una volta preso coscienza della respirazione diaframmatica, della necessità di controllare la lingua e di dare ampiezza laterale e verticale alla propria emissione, dell’esistenza dei passaggi di registro gli dovrebbero consentire di procedere da solo a forgiare una propria vocalità plasmandola alla stregua di un clown che voglia apparire con una maschera ed un vestito differente rispetto ai clown che l’hanno preceduto. Il maestro di canto dopo quel relativamente brebe periodo, potrà dirti se i tuoi registri non sono saldati, se la tua voce é indietro, se la lingua ti soffoca, se forzi ecc. ecc. insomma farti presente quello che il cantante non può sentire da solo, ma sui relativi rimedi potrà dire ben poco.-
Alberto senti, dai… giù la maschera: tu lo fai apposta a dire ‘ste minchiate sconcertanti, su confessa! 😀
Perché mi rifiuto di pensare che tu possa davvero ritenere che basti sapere la respirazione diaframmatica e puff!! Magicamente voilà estensione, volume e ampiezza! Ma dai, per favore…
Non siamo mica tutti voci naturali, sai?
E poi, la storia del clown… che c’azzecca? E il controllo della lingua? Ma va la va… va… va… va, vecchio John!
La Callas faceva arrivare la De Hidalgo a Milano per vedere le parti anche negli anni ’50 😉
Ho detto tutto quanto c’era da dire!
ah dici che le cose non vanno cosi? vabbe’ mi ascoltero’ la seconda parte d questi masnadieri veneziani…rustioni molto bene agresta in crescita…tenore e baritono immigliorabili da qualsiasi maestro ma sufficienti 😉
Mai provato a cantare, eh? Neanche in un coro parrocchiale… 😉
Un fondo di verità in quello che dice “albertoemme” sullo studio del canto, però, c’è… ho detto “un fondo”, badate bene!
Molti dei più famosi cantanti della storia si trovavano già tra le mani buona parte del loro ben di Dio vocale (sia per quato riguarda voce che emissione) anche prima di prendere la prima lezione di canto.
Questo non è togliere importanza allo studio indefesso (che tra l’altro non finisce mai). Ognuno trova la propria strada… o no…
Guarda Ettore: nessuno nasce “imparato”, nemmeno i cantanti di maggior talento i quali stessi ti direbbero, se potessero parlare, che dire che bastino un anno e mezzo/due per divenire cantanti è una fola che può dire soltanto chi non sa nulla di tecnica vocale, cosa di cui Alberto ha peraltro dato più volte prova ;).
Poi son d’accordo se mi si dice che c’è chi arriva prima e chi arriva dopo. E chi non arriva punto.
Vorrei però fosse chiaro che nello studio del canto ci sono molte circostanze che possono influire anche sull’allievo più dotato. Non è solo tecnica: è anche testa, pancia e tante altre cose.
Tamberlick é sempre un po’ aggressivo, ma sono problemi suoi (forse si prende un po’ sul serio). Panizza aveva colto il senso del mio intervento che ovviamente aveva un contenuto iperbolico che lui ha giustamente puntualizzato. Non c’era perciò bisogno di aggiungere altro tanto che Tamberlick ha finito per dire cose tanto ovvie quanto banali. Ieri ascoltavo dal vivo Maria Agresta é lei é il chiaro esempio di una che è molto consigliata sulle questioni tecniche visto che dalla sua grande performance (e relativo tour de force) torinese ha cantato in circa due anni Norma Boheme Gemma di Vergy Trovatore Elvira Traviata Giovanna d’Arco e Simone. Anche ieri ha fornito una prova in crescendo grazie a tutti gli scrupoli e lo studio indefesso. Tuttavia penso che anche per lei lo studio indefesso non la metta al riparo dai rischi del voler cantare tanto e tutto. In sintesi lei dimostra di avere una tecnica assai scaltra ma solo con le doti naturali potrà reggere il ventennio medio che è il parametro temporale di una carriera come si deve…
O forse finora è riuscita a reggere una simile alternanza perché l’hanno sostenuta le doti naturali. Quando quelle inizieranno a venire meno (e con questi ritmi direi che parliamo di metà del 2014 massimo, diciamo nel giro di un triennio abbondante dal “lancio” torinese), vedremo quale e quanta sia davvero la saldezza tecnica della Agresta.
Tamburini penso che già adesso la solidità tecnica dell’Agresta è fuori discussione,comunque certo deve andare in progressione,e con i tempi giusti con i ruoli,ma ha un controllo del fiato,è un appoggio che la mette rispetto a tante blasonate,al riparo anche cantando ruoli pesantini,d’altronte lei stessa in un intervista ha dichiarato che certi ruoli,ancora non congeniali non li ha accettati,questa cantante ha grandi potenzialità,e in certi ruoli in futuro quando sarà ancora più matura,non farà rimpiangere la Callas,ne riparleremo tra un lustro…
non si canta cosi solo perchè la natura è stata benevole..
Ma come!? Aggressivo io? Ma se ho messo pure le faccine! 😀
Credimi, non c’è la minima aggressività nei tuoi confronti. Soltanto mi piace canzonarti un po’ quando te ne esci con le tue favole. A tal punto meglio dire cose “tanto ovvie quanto banali” che candidamente ingenue 😉
Comunque che Ettore abbia colto il senso dell’iperbole (invisibile) oppure corretto il tiro della tua sparata (a me pare la seconda), lui si è limitato a fare una constatazione, che peraltro mi piacerebbe appurare. Non ha presunto che i cantanti debbano avere doti straordinarie (cit.) tanto che basti loro un addestramento forfettario. Considerando il fatto che di frequente a tanta natura corrisponde anche tanto sudore.
Quanto all’Agresta, beh io le auguro che non sia come dice Antonio. Preferisco una buona cantante ad un rottame in più.
veramente il senso del mio intervento sulla questione tecnica/doti naturali era un altro e cioé che la tecnica non ti garantisce comunque un precoce declino come la sua mancanza non ti impedisce una carriera lunga, si pensi a Jose Cura che canta male dal 1999 2000 (più o meno) ma che tuttavia da quegli anni é restato sostanzialmente a quel livello. Gli esempi in un senso o nell’altro sono molti
caro mio, ma il fatto che certi cani cantino….si fa per dire!….per anni, è legato alla benevolenza del pubblico, alla forza degli agenti, alla scarsità di voci etc…se fare dei versi, ululare, ruttare è cantare vedi un po’tu
..azz…Giulia Grisi, lei è di un tenero che spaventa ma, almeno così la penso, ha ragione da vendere.
Premesso che condivido quel che dicono Tamberlinck e Tamburini su Maria Agresta – peraltro forse oggi la miglior verdiana (e di scuola italiana) in circolazione, che spero anch’io si conservi a lungo – su Cura concordo pienamente, oltretutto le carenze di studio si vedono tutte : passaggi di registro beeh, preparazione all’ acuto..ma quando, sparate a voce piena – il suo Manrico è per me inascoltabile -, purtroppo tra faccia tosta sua e scarso orecchio in ascolto, sta in piedi, e probabilmente ci starà ancora per un bel po’.
Come chiosa ci sta solo un bel ahimè.
caro akonkagua, mi sto rammolendo dici? …eh! Cmq, di maria gresta potremo parlare piu tardi, dato che ne faremo un post per quei masnadieri. Cura, a mio modo di vedere pessimo ab origo, è figlio soprattutto di una mala estetica vocale ancor prima che di mala tecnica. Quella vociaccia orrenda e il syo cantare coi portamenti è la degenerazione di un gusto delmonacocorellesco diffuso nei melomani ed abusato da pessimi maestri di canto che diffondono la vulgata più svenduta del melocchismo didattico. A presto
Alberto, ad essere sincero non mi pare che dal tuo intervento si evincesse questo. Ma forse sono io che non sono capace di cogliere il senso di quel che dicono gli altri…
Quanto al punto, una buona tecnica magari non proteggerà tutti allo stesso modo dal declino naturale di una voce, ma di sicuro evita che lo strumento si sfaccia anzitempo.
Chiedo però, per cortesia, di non chiamare in causa qui José Cura. Il Cura avrà anche tanti meriti (musicali, attoriali, interpretativi, eccetera) ma a cantare purtroppo non ha mai minimamente imparato. Il che è un grande peccato, perchè ha una personalità di spicco, un buon materiale vocale e tanta forza fisica.
Panizza, concordo pienamente sul cantare di Cura (vedi sopra il mio altro post), forse, dal punto di vista dello studio, dopo quell’ Otello del ’97 a Torino che, poveri noi, è stato osannato, si è montato la testa e, oltre a essere arrivato lì – secondo me – troppo presto e troppo grezzo, ha “smesso” di studiare, replicando quel “canto” anche in seguito, in altre parti, e buttando via quel po’ che aveva.
Spiacente ma la penso così e non cambio idea.
Quanto al phisique du role, che peraltro non sempre è conditio sine qua non, se uno/una è bravo/a solo perchè ha begli occhi e altre attrattive fisiche, beh, lunga vita ai brutti ma bravi (e preparati) !
Siamo assolutamente d’accordo. Se quell’Otello torinese (interessante ma comunque prematuro e insufficiente) fosse stato il primo passo di un carriera attenta fatta di studio e perfezionamento, la storia sarebbe stata un’altra.
Cura, con un buon bagaglio tecnico-vocale e più umiltà, sarebbe entrato forse nella storia dell’opera come un interprete notevolissimo a tutto tondo.
Così come è, entrerà soltanto nella storia del marketing.
Caro Panizzo, ti invito a sentire cosa dicono la Pobbe, la Simionato e la Barberi sulla voce di petto http://www.youtube.com/watch?v=QQnHDLLWrLs (lo Zucker riporta poi che pure la Cerquetti e la Adami Corradetti pensassero lo stesso)
Si capisce benissimo che non hanno la minima idea di cosa stanno parlando (come dice la Gavazzi “Sono delle ignoranti”). Quindi, stabilito che un cantante deve sapere usare sia il color chiaro che il color scuro, come dice San Manuel Garcia padre e figlio, Kraus è spesso confusionario nelle descrizioni, come d’altronde tantissimi, che mischiano dati propriocettivi nel cantare a dati meccanico-tecnici, tirando fuori delle ricette strampalate che non funzionano per tutti!
Il canto è come un abito confezionato in saratoria: c’è un modello o precetti base e poi ogni cantante li apprende, sviluppa e fa suoi.
Come dice la San Joan Sutherland da Sidney, la tecnica del canto è “respirare, supportare/appoggiare, proiettare”
Caro Papy:
Quanto dici mi sembra puro Vangelo!
Farei però una differenza: le sette grandi (chi più, chi meno) cantatrici da Lei citate cantavano in modo ortodosso (chi più chi meno) e all’italiana, soprattutto per quanto riguarda l’estetica del suono e la salita agli acuti.
Lo stesso di può dire di Bergonzi, Cappuccilli, Siepi e una (fortunatamente) lunga lista, con il loro bravo chiaro-scuro, la loro rotondità vocale, il loro passaggio di registro con progressivo iscurimento nell’emissione e via discorrendo.
Invece, e anche se è stato un grande cantante, lo stesso NON si può dire di Kraus e del suo metodo.
Con tutto questo voglio indicare che non è sufficiente far notare che spesso i grandi cantanti mancano di cultura tecnico-vocale specifica e quando parlano o insegnano dicono cretinate. Alcuni di questi parlatori a vanvera poi cantano e non lo fanno tutti allo stesso modo. Non sarebbe male fare delle distinzioni, invece di dire “tutti grandi del belcanto, tutti cattivi insegnanti”.
Caro Panizza,
in generale concordo con le tue tesi, soprattutto i distinguo fra la tecnica delle signore e dei tre grandi italiani, e quella dello spagnolo.
Mi piace Kraus, ma il suo modo di cantare segue regole di fonazione e di emissione tutte sue, per non parlare dell’ uso del naso, che a me personalmente da molto fastidio in alcuni tenori di oggi ( es. Florez).
La tecnica di Siepi poi conduce sempre a un suono pienamente pulito e degno di fare da riferimento : il suo Don Giovanni ogni volta che lo sento mi incanta.
Per il resto, valgono i gusti.
In effetti, assolutamente d’accordo su tutto! (Siepi è veramente un esempio limpidissimo).
Noi non diciamo che tutti i grandi cantanti sono pessimi insegnanti: diciamo che statisticamente la stragrande maggioranza dei cantanti che hanno avuto una fulgida carriera su tutti i palcoscenici si sono dimostrati pessimi insegnanti.
E, aggiungo io, il dato si consolida via via che si risale a tempi più recenti…
Amen!
mamma mia che delusione harding (vero grisii? t ho notata in teatro) salverei terzo quadro e meta’ dell ultimo. I tempi non m sono sembrati piu lenti d quelli prescitti ma che difficolta’ a respirare, narrare e poi assoluta mancanza d fantasia. Il meglio dal punto d vista musicale e’ stato maestri che sentito nel 2001 e’ ancora un buon falstaff dalla pancia in su. Peiccato i falsetti ma dosicianni di repertoroo pesante hanno lasciato il segno. Regia efficace e con belle trovate (il pranzo alla mensa del club, il cavallo che mangia in scena la sfilata sul tavolo e tutti che corrono a mettere le gambe sotto la tavola sugli accordi finali e’ stato buon teatro
mi hai notata?….
strano Alberto, Donna Giulia Grisi mica è una persona in carne e ossa,come hai fatto a notarla? 😀
quello privo d carne ed ossa e’ mancini non la grisi ah ah