Prosegue il viaggio tra le opere meno conosciute – rectius più sottovalutate – di Gioachino Rossini: quelle, cioè, che ancora non hanno beneficiato (o che ne hanno beneficiato solo in parte ed inadeguatamente) di una vera “riscoperta” o di una rilettura critica fondata su di un’analisi attendibile delle fonti, e che soprattutto non hanno avuto la ventura di imbattersi in un qualche interprete di levatura storica che – invaghitosi del titolo – non lo abbia poi “amorevolmente” diffuso e divulgato (come è accaduto, parzialmente, per la Horne con Tancredi). Ecco che dopo il sorprendente Ciro in Babilonia e lo splendido Aureliano in Palmira (che nulla ha da invidiare ai suoi più celebri e celebrati fratelli maggiori) è ora il turno di un gioiello della prima giovinezza: Demetrio e Polibio.
Demetrio e Polibio, dramma serio per musica in due atti di Vincenzina Viganò Mombelli, ebbe il suo debutto a Roma, al Teatro Valle, il 18 maggio del 1812, cogliendo un ragguardevole successo. Tuttavia l’opera – la prima del catalogo del pesarese – venne composta molto prima e precisamente nel lontano 1806 da un Rossini ancora quattordicenne. All’epoca frequentava il Liceo Musicale di Bologna per affinare le già compiute conoscenze musicali e tecniche – apprese dalle proficue lezioni del canonico Malerbi e di padre Tesei, nonché dall’analisi approfondita delle opere di Mozart e Haydn – ed era divenuto intimo (proprio in virtù delle sue straordinarie capacità) della famiglia Mombelli: famiglia, questa, di musicisti e cantanti, pure imparentata, per via muliebre, al celebre coreografo Salvatore Viganò (per cui Beethoven scrisse la partitura delle Creature di Prometeo). Le vicende relative alla composizione dell’opera – raccontate dallo stesso Rossini in modo assai gustoso e condito di quell’ironia (e auto-ironia) che non lo abbandonerà mai nel corso della vita – sono avvolte dalla leggenda e dall’aneddotica, alla quale si rimanda, anche per godere di una piacevole e divertita lettura. Basti dire che l’autore, stimolato dall’artistica amicizia (oltre che da interessi più venali e/o sentimentali…) decise di scrivere una vera e propria “opera familiare”. E fin dalla scelta del libretto (per la verità assai modesto), frutto delle velleità letterarie della Signora Viganò Mombelli. La scrittura musicale venne quindi, esattamente calibrata sulle caratteristiche vocali della famiglia Mombelli: il “capofamiglia” Domenico – compositore anch’esso e tenore assai apprezzato (dal 1783 al 1803 in competizione, al San Carlo di Napoli, con Giovanni David, dove fu protagonista in lavori di Sacchini, Sarti, Piccinni, Paisiello, Guglielmi e Cimarosa) – assunse il ruolo di Demetrio (che, visto l’interprete, va equiparato ai grandi ruoli-david del Rossini napoletano: quindi grande estensione, facilità nell’estremo acuto, e agilità travolgente). Le due figlie – assai elogiate da Stendhal che vi ritrovava il garbo, la dolcezza e la tecnica del tempo passato – Ester e Anna (rispettivamente soprano e contralto) vestirono i panni di Lisinga e Siveno. La prima delle due, poi, continuò con Rossini la sua fortunata carriera, e cantò ancora Cenerentola, Gazza Ladra, La Donna del Lago, Otello, Il Viaggio a Reims. Ma ce ne fu anche per il maggiordomo di casa Mombelli, Lodovico Olivieri, che impegnò la sua voce di basso nel ruolo di Polibio. La famiglia/compagnia di canto però – pur sicuramente lusingata sia dal genio, già allora evidente, del giovane, sia dalla composizione di un’intera opera ad essa dedicata – aspettò che la fama premiasse le indubbie capacità dell’autore (ancora una “promessa” priva di conferme, allora), e garantisse così i committenti dal “salto nel buio” che avrebbe potuto comportare la rappresentazione di un’opera sì di un genio, ma sempre di uno sconosciuto. Ecco il motivo per cui il lavoro vide la luce solo sei anni dopo la sua creazione. Il risultato però – pur nella bizzarria, squisitamente rossiniana direi, della vicenda – è straordinario. L’opera, infatti è di una maturità e compiutezza inusuali per un ragazzino di 14 anni. Essa rivela ad ogni pagina una freschezza compositiva, una musicalità ed una complessità assolutamente straordinari, imparagonabili con qualsiasi altro esordiente (ma non solo) contemporaneo. Quando l’opera venne rappresentata suscitò tali entusiasmi e tanti elogi, dal ritenere difficilmente credibile il fatto che essa non fosse opera di un musicista già compiuto e navigato. Stendhal, quando ascoltò il Demetrio e Polibio a Como nel 1813, l’anno dopo la sua prima rappresentazione, rimase rapito per la soavità, la grazia e la purezza delle melodie, e per la sapienza della composizione, tanto da scrivere – riferendosi al quartetto “Donami omai Siveno” – che “quand’anche Rossini non avesse scritto altro che questo solo quartetto, Mozart e Cimarosa riconoscerebbero in lui un loro pari”. Testimone di questa compiutezza e maturità è poi il fatto che lo stesso Rossini (che fu – è bene ribadirlo – il migliore e più severo giudice delle proprie composizioni) riutilizzò diversi brani del Demetrio e Polibio in opere successive. E precisamente: il duetto tra Polibio e Siveno che apre l’opera, ispirerà l’aria di Ciro “T’abbraccio ti stringo” nell’atto II del Ciro in Babilonia; il duettino tra Lisinga e Siveno dell’atto I, “Questo cor ti giura amore”, uno dei brani più notevoli dell’opera, che si segnale per la bellezza e la dolcezza melodica, oltre che per la sapiente costruzione dell’intreccio musicale sia nelle voci che nell’accompagnamento, verrà prima utilizzato (anche se in modo semplificato e banalizzato) nel Ciro in Babilonia, poi nella Pietra del Paragone dove fornirà lo spunto musicale per il coro che apre l’atto II, e infine troverà la migliore collocazione nel Signor Bruschino, dove diverrà il più celebre “Quant’è dolce a un’alma amante” tra Florville e Sofia; l’aria di Siveno nell’atto I diventerà il brindisi alternativo di Pippo nella Gazza Ladra, brano che Rossini scrisse appositamente per la Pisaroni in una successiva revisione dell’opera per il San Carlo di Napoli nel 1819 (e che può essere ascoltato nell’interpretazione della Horne, nel suo cd di arie alternative rossiniane).
Vista da vicino l’opera mostra, innanzitutto, la perfetta padronanza, da parte dell’autore, di ogni sfumatura del linguaggio musicale: sono evidenti le suggestioni e i rimandi a Mozart e ad Haydn (la Sinfonia iniziale, che coniuga trasparenze, ricchezza timbrica e velata malinconia, ne è esempio evidente e ben potrebbe recare la firma dei due suddetti), ma non nell’accezione di meri richiami (o peggio, imitazioni), che ben sarebbero potuti essere giustificabili e scontati in un ragazzino ancora inesperto che proprio da quei Grandi trova o ritrova la sua ispirazione, bensì come volontà di superamento di quei modelli, come ricerca di un nuovo linguaggio musicale che parta sicuramente dalla scuola viennese o napoletana, ma che, comprendendola, la superi, utilizzandone al meglio le conquiste, senza mai correre il rischio di sembrare imitarla in modo pedissequo. Ecco, il Demetrio e Polibio colpisce per l’autonomia della scrittura, per l’originalità, per la sapiente costruzione, per la ricchezza e la complessità dell’orchestrazione (assolutamente inusuale per la media dei compositori italiani dell’epoca e che farà guadagnare a Rossini il soprannome di tedeschino), per la bellezza e la raffinatezza delle melodie, per l’equilibrio formale. Insomma un’opera che non si limita a preludere ad un grande futuro (come l’Oberto per Verdi o Bianca e Fernando per Bellini o Le Villi per Puccini), ma che già di per sé assume un valore proprio ed un ruolo importante e fondamentale: c’è già tutto il Rossini maturo. In particolare i brani che più colpiscono l’ascoltatore (e lo stupiscono – poichè frutto della penna di un ragazzino) sono: la già citata Sinfonia; quel “Pien di contento il seno” che Rossini rielaborò per la Pisaroni 15 anni dopo; l’aria virtuosistica di Lisinga dell’atto II “Superbo, ah! Tu vedrai” con quei suoi richiami mozartiani nelle particolarissime e impervie agilità (che ricordano da vicino certe superbe arie da concerto o il “Marten aller Arten” scritto da Mozart per Madame Cavalieri); il Finale I con la sua ricchezza di obbligati strumentali e la perfetta costruzione vocale; la difficile aria di Demetrio dell’atto II “Lungi dal figlio amato” (che ancora rimanda al Mozart delle arie di Don Ottavio o di Ferrando); e poi naturalmente il celebre quartetto “Donami omai, Siveno” che tanto incantò i contemporanei e che fece scrivere a Stendhal che quelle melodie “erano i primi fiori della fantasia di Rossini: e possedevano tutta la freschezza del mattino della vita”. Ma in realtà ogni numero, ogni brano rivela un’incredibile bellezza. Spiace ancora di più, quindi, dover constatare il totale oblio calato su quest’opera, tanto che neppure i luoghi deputati alla riscoperta e alla diffusione del catalogo del nostro massimo compositore, hanno finora reso onore al Demetrio e Polibio: né il ROF, infatti, lo ha mai rappresentato (sorte analoga all’Aureliano in Palmira, al Ciro in Babilonia, al Sigismondo, all’Eduardo e Cristina), né la Fondazione Rossini ha ancora approntato l’edizione critica. La lacuna è parzialmente colmata dall’unica edizione discografica attualmente disponibile, che risale a 16 anni fa e che deriva dalla registrazione di alcune recite durante il Festival della Valle D’Itria a Martina Franca. L’incisione, in verità, è ben fatta, ben cantata e (abbastanza) ben suonata, tuttavia è indubbio che l’opera – come tutte quelle di Rossini, anche le più misconosciute, scritte appositamente per le ugole dei più grandi cantanti dell’epoca – avrebbe meritato ben di più (penso alle voci della grande stagione della Rossini-renaissance negli anni ’80) soprattutto in relazione all’estrema qualità di quella musica (laddove opere di valore incommensurabilmente minore hanno trovato una maggiore diffusione grazie all’eccezionalità dell’interprete). Qui il cast presenta Dalmacio Gonzales nel complesso ruolo di Demetrio, Giorgio Surjan in quello di Polibio, Christine Weidinger come Lisinga e una giovane Sara Mingardo nel ruolo di Siveno. Alla bacchetta il volenteroso Massimiliano Carraro, che conduce la non certo impeccabile Orchestra Sinfonica di Graz. Il risultato, come dicevo, è complessivamente assai buono, fatte salve alcune evidenti difficoltà in acuto di un Gonzales affaticato e l’orchestra non troppo raffinata (che la direzione appesantisce eccessivamente in taluni accompagnamenti). Ma non ci si può troppo lamentare: questo è quello che offre il mercato e non credo che, almeno a breve, saranno fornite alternative (in una realtà in cui bastano le dita di una mano per computare le edizioni ufficiali di Semiramide, pare del tutto improbabile che al Demetrio e Polibio si voglia concedere più di una incisione). Tuttavia non è nemmeno il caso di disperare: la nostra è epoca di “riscoperte” (vere o presunte), di “capolavori” ritrovati, mancati, dimenticati (ma a volte, più semplicemente, maltrattati), di mode effimere o durature, di ampia “generosità” critica (che dispensa a profusione titoli di genialità ed eccezionalità, forse per annacquare le differenze e livellare tutto ad uniforme melassa, dove – si sa – la mediocrità, artistica ed esecutiva, “sguazza” meglio). In questo confuso panorama, dove pare sia divenuto difficilissimo distinguere “il grano dal loglio”, forse potrà accadere che – anche per errore – a qualche istituzione teatrale o a qualche casa discografica meritevole (penso ad Opera Rara che ci sta “infliggendo” Pacini a volontà – il maestro delle cabalette – e temo il giorno in cui a qualcuno verrà il capriccio di spacciarci il Ponchielli minore per straordinario, oppure si picchi di riesumare I Goti) venga in mente quello straordinario Demetrio e Polibio che tanto incantò Stendhal e che segna la nascita artistica del nostro più insigne compositore.
Demetrio e Polibio, dramma serio per musica in due atti di Vincenzina Viganò Mombelli, ebbe il suo debutto a Roma, al Teatro Valle, il 18 maggio del 1812, cogliendo un ragguardevole successo. Tuttavia l’opera – la prima del catalogo del pesarese – venne composta molto prima e precisamente nel lontano 1806 da un Rossini ancora quattordicenne. All’epoca frequentava il Liceo Musicale di Bologna per affinare le già compiute conoscenze musicali e tecniche – apprese dalle proficue lezioni del canonico Malerbi e di padre Tesei, nonché dall’analisi approfondita delle opere di Mozart e Haydn – ed era divenuto intimo (proprio in virtù delle sue straordinarie capacità) della famiglia Mombelli: famiglia, questa, di musicisti e cantanti, pure imparentata, per via muliebre, al celebre coreografo Salvatore Viganò (per cui Beethoven scrisse la partitura delle Creature di Prometeo). Le vicende relative alla composizione dell’opera – raccontate dallo stesso Rossini in modo assai gustoso e condito di quell’ironia (e auto-ironia) che non lo abbandonerà mai nel corso della vita – sono avvolte dalla leggenda e dall’aneddotica, alla quale si rimanda, anche per godere di una piacevole e divertita lettura. Basti dire che l’autore, stimolato dall’artistica amicizia (oltre che da interessi più venali e/o sentimentali…) decise di scrivere una vera e propria “opera familiare”. E fin dalla scelta del libretto (per la verità assai modesto), frutto delle velleità letterarie della Signora Viganò Mombelli. La scrittura musicale venne quindi, esattamente calibrata sulle caratteristiche vocali della famiglia Mombelli: il “capofamiglia” Domenico – compositore anch’esso e tenore assai apprezzato (dal 1783 al 1803 in competizione, al San Carlo di Napoli, con Giovanni David, dove fu protagonista in lavori di Sacchini, Sarti, Piccinni, Paisiello, Guglielmi e Cimarosa) – assunse il ruolo di Demetrio (che, visto l’interprete, va equiparato ai grandi ruoli-david del Rossini napoletano: quindi grande estensione, facilità nell’estremo acuto, e agilità travolgente). Le due figlie – assai elogiate da Stendhal che vi ritrovava il garbo, la dolcezza e la tecnica del tempo passato – Ester e Anna (rispettivamente soprano e contralto) vestirono i panni di Lisinga e Siveno. La prima delle due, poi, continuò con Rossini la sua fortunata carriera, e cantò ancora Cenerentola, Gazza Ladra, La Donna del Lago, Otello, Il Viaggio a Reims. Ma ce ne fu anche per il maggiordomo di casa Mombelli, Lodovico Olivieri, che impegnò la sua voce di basso nel ruolo di Polibio. La famiglia/compagnia di canto però – pur sicuramente lusingata sia dal genio, già allora evidente, del giovane, sia dalla composizione di un’intera opera ad essa dedicata – aspettò che la fama premiasse le indubbie capacità dell’autore (ancora una “promessa” priva di conferme, allora), e garantisse così i committenti dal “salto nel buio” che avrebbe potuto comportare la rappresentazione di un’opera sì di un genio, ma sempre di uno sconosciuto. Ecco il motivo per cui il lavoro vide la luce solo sei anni dopo la sua creazione. Il risultato però – pur nella bizzarria, squisitamente rossiniana direi, della vicenda – è straordinario. L’opera, infatti è di una maturità e compiutezza inusuali per un ragazzino di 14 anni. Essa rivela ad ogni pagina una freschezza compositiva, una musicalità ed una complessità assolutamente straordinari, imparagonabili con qualsiasi altro esordiente (ma non solo) contemporaneo. Quando l’opera venne rappresentata suscitò tali entusiasmi e tanti elogi, dal ritenere difficilmente credibile il fatto che essa non fosse opera di un musicista già compiuto e navigato. Stendhal, quando ascoltò il Demetrio e Polibio a Como nel 1813, l’anno dopo la sua prima rappresentazione, rimase rapito per la soavità, la grazia e la purezza delle melodie, e per la sapienza della composizione, tanto da scrivere – riferendosi al quartetto “Donami omai Siveno” – che “quand’anche Rossini non avesse scritto altro che questo solo quartetto, Mozart e Cimarosa riconoscerebbero in lui un loro pari”. Testimone di questa compiutezza e maturità è poi il fatto che lo stesso Rossini (che fu – è bene ribadirlo – il migliore e più severo giudice delle proprie composizioni) riutilizzò diversi brani del Demetrio e Polibio in opere successive. E precisamente: il duetto tra Polibio e Siveno che apre l’opera, ispirerà l’aria di Ciro “T’abbraccio ti stringo” nell’atto II del Ciro in Babilonia; il duettino tra Lisinga e Siveno dell’atto I, “Questo cor ti giura amore”, uno dei brani più notevoli dell’opera, che si segnale per la bellezza e la dolcezza melodica, oltre che per la sapiente costruzione dell’intreccio musicale sia nelle voci che nell’accompagnamento, verrà prima utilizzato (anche se in modo semplificato e banalizzato) nel Ciro in Babilonia, poi nella Pietra del Paragone dove fornirà lo spunto musicale per il coro che apre l’atto II, e infine troverà la migliore collocazione nel Signor Bruschino, dove diverrà il più celebre “Quant’è dolce a un’alma amante” tra Florville e Sofia; l’aria di Siveno nell’atto I diventerà il brindisi alternativo di Pippo nella Gazza Ladra, brano che Rossini scrisse appositamente per la Pisaroni in una successiva revisione dell’opera per il San Carlo di Napoli nel 1819 (e che può essere ascoltato nell’interpretazione della Horne, nel suo cd di arie alternative rossiniane).
Vista da vicino l’opera mostra, innanzitutto, la perfetta padronanza, da parte dell’autore, di ogni sfumatura del linguaggio musicale: sono evidenti le suggestioni e i rimandi a Mozart e ad Haydn (la Sinfonia iniziale, che coniuga trasparenze, ricchezza timbrica e velata malinconia, ne è esempio evidente e ben potrebbe recare la firma dei due suddetti), ma non nell’accezione di meri richiami (o peggio, imitazioni), che ben sarebbero potuti essere giustificabili e scontati in un ragazzino ancora inesperto che proprio da quei Grandi trova o ritrova la sua ispirazione, bensì come volontà di superamento di quei modelli, come ricerca di un nuovo linguaggio musicale che parta sicuramente dalla scuola viennese o napoletana, ma che, comprendendola, la superi, utilizzandone al meglio le conquiste, senza mai correre il rischio di sembrare imitarla in modo pedissequo. Ecco, il Demetrio e Polibio colpisce per l’autonomia della scrittura, per l’originalità, per la sapiente costruzione, per la ricchezza e la complessità dell’orchestrazione (assolutamente inusuale per la media dei compositori italiani dell’epoca e che farà guadagnare a Rossini il soprannome di tedeschino), per la bellezza e la raffinatezza delle melodie, per l’equilibrio formale. Insomma un’opera che non si limita a preludere ad un grande futuro (come l’Oberto per Verdi o Bianca e Fernando per Bellini o Le Villi per Puccini), ma che già di per sé assume un valore proprio ed un ruolo importante e fondamentale: c’è già tutto il Rossini maturo. In particolare i brani che più colpiscono l’ascoltatore (e lo stupiscono – poichè frutto della penna di un ragazzino) sono: la già citata Sinfonia; quel “Pien di contento il seno” che Rossini rielaborò per la Pisaroni 15 anni dopo; l’aria virtuosistica di Lisinga dell’atto II “Superbo, ah! Tu vedrai” con quei suoi richiami mozartiani nelle particolarissime e impervie agilità (che ricordano da vicino certe superbe arie da concerto o il “Marten aller Arten” scritto da Mozart per Madame Cavalieri); il Finale I con la sua ricchezza di obbligati strumentali e la perfetta costruzione vocale; la difficile aria di Demetrio dell’atto II “Lungi dal figlio amato” (che ancora rimanda al Mozart delle arie di Don Ottavio o di Ferrando); e poi naturalmente il celebre quartetto “Donami omai, Siveno” che tanto incantò i contemporanei e che fece scrivere a Stendhal che quelle melodie “erano i primi fiori della fantasia di Rossini: e possedevano tutta la freschezza del mattino della vita”. Ma in realtà ogni numero, ogni brano rivela un’incredibile bellezza. Spiace ancora di più, quindi, dover constatare il totale oblio calato su quest’opera, tanto che neppure i luoghi deputati alla riscoperta e alla diffusione del catalogo del nostro massimo compositore, hanno finora reso onore al Demetrio e Polibio: né il ROF, infatti, lo ha mai rappresentato (sorte analoga all’Aureliano in Palmira, al Ciro in Babilonia, al Sigismondo, all’Eduardo e Cristina), né la Fondazione Rossini ha ancora approntato l’edizione critica. La lacuna è parzialmente colmata dall’unica edizione discografica attualmente disponibile, che risale a 16 anni fa e che deriva dalla registrazione di alcune recite durante il Festival della Valle D’Itria a Martina Franca. L’incisione, in verità, è ben fatta, ben cantata e (abbastanza) ben suonata, tuttavia è indubbio che l’opera – come tutte quelle di Rossini, anche le più misconosciute, scritte appositamente per le ugole dei più grandi cantanti dell’epoca – avrebbe meritato ben di più (penso alle voci della grande stagione della Rossini-renaissance negli anni ’80) soprattutto in relazione all’estrema qualità di quella musica (laddove opere di valore incommensurabilmente minore hanno trovato una maggiore diffusione grazie all’eccezionalità dell’interprete). Qui il cast presenta Dalmacio Gonzales nel complesso ruolo di Demetrio, Giorgio Surjan in quello di Polibio, Christine Weidinger come Lisinga e una giovane Sara Mingardo nel ruolo di Siveno. Alla bacchetta il volenteroso Massimiliano Carraro, che conduce la non certo impeccabile Orchestra Sinfonica di Graz. Il risultato, come dicevo, è complessivamente assai buono, fatte salve alcune evidenti difficoltà in acuto di un Gonzales affaticato e l’orchestra non troppo raffinata (che la direzione appesantisce eccessivamente in taluni accompagnamenti). Ma non ci si può troppo lamentare: questo è quello che offre il mercato e non credo che, almeno a breve, saranno fornite alternative (in una realtà in cui bastano le dita di una mano per computare le edizioni ufficiali di Semiramide, pare del tutto improbabile che al Demetrio e Polibio si voglia concedere più di una incisione). Tuttavia non è nemmeno il caso di disperare: la nostra è epoca di “riscoperte” (vere o presunte), di “capolavori” ritrovati, mancati, dimenticati (ma a volte, più semplicemente, maltrattati), di mode effimere o durature, di ampia “generosità” critica (che dispensa a profusione titoli di genialità ed eccezionalità, forse per annacquare le differenze e livellare tutto ad uniforme melassa, dove – si sa – la mediocrità, artistica ed esecutiva, “sguazza” meglio). In questo confuso panorama, dove pare sia divenuto difficilissimo distinguere “il grano dal loglio”, forse potrà accadere che – anche per errore – a qualche istituzione teatrale o a qualche casa discografica meritevole (penso ad Opera Rara che ci sta “infliggendo” Pacini a volontà – il maestro delle cabalette – e temo il giorno in cui a qualcuno verrà il capriccio di spacciarci il Ponchielli minore per straordinario, oppure si picchi di riesumare I Goti) venga in mente quello straordinario Demetrio e Polibio che tanto incantò Stendhal e che segna la nascita artistica del nostro più insigne compositore.
Ottimo articolo, davvero.
Non per volervi inorridire, però… io I Goti li ascolterei volentieri. Le vicende di questo incredibile caso nella storia dell’opera sono ben noti, come lo sono i casi davvero tragici – a momenti impressionanti – dell’autore Gobatti.
Ma erano veramente, I goti, quella mostruoisità che si disse? Erano veramente pazzi, coloro che l’applaudirono fanaticamente alle prime recite?
Auspicherei che qualcuno (di voi?) si prendesse la priga un giorno di dare una scorsa alla partitura, e ce ne dicesse qualcosa di più… E se vi fossero delle sorprese?
Cordialità,
Gabriele Brunini
Caro Gabriele, per prima cosa ti voglio ringraziare del cortese apprezzamento. Poi voglio dirti che non inorridisco affatto al tuo desiderio. Anche a me piacerebbe ascoltare questo “famigerato” lavoro che suscitò tanti entusiasmi all’epoca. Verdi lo definì “il più mostruoso aborto musicale che sia stato mai composto”. Forse non sbagliava (abbiamo già ascoltato numerosi esempi di opere minori ialiane del tardo ottocento – Ponchielli su tutti – e francamente il livello è proprio basso), forse, seppur con un certo eccesso, aveva ragione lui. Questo però non mi leva la curiosità di ascoltarla. Erano allora pazzi gli spettatori che gridarono al miracolo a Bologna nel 1873? Non necessariamente. “I Goti” vennero rappresentati in un momento particolare: appena 2 anni prima aveva trionfato Lohengrin, di quel “Riccardo” Wagner che componeva la “musica dell’avvenire”, il fenomeno effimero della Scapigliatura raggiungeva allora il suo acme, l’ansia di “progresso” scatenava entusiasmi e invitava a chiudere i conti con la tradizione, con tutte le tradizioni, “senza fare prigionieri”. Ovvio che in una tale situazione, facile agli entusiasmi più esasperati come all’ira più immotivata, fossero le parole d’ordine, i simboli, le ideologie a scaldare gli animi, più che il ragionamento. E così “I Goti” divennero un simbolo, a lungo aspettato, preteso, ricercato, di quella “musica dell’avvenire” che aveva in Wagner il suo profeta e che, in Italia, mancava ancora di Apostoli. Il successo travolgente dell’opera si consumò in questo clima, anzi fu proprio questo clima culturale a favorirlo e a prepararlo. Chi applaudiva era convinto di celebrare l’avvento del “futuro” che trionfava sulla vecchia e decrepita tradizione italiana. E il futuro andava costruito sulle macerie del passato: si esaltava Gobatti per colpire Verdi, così come in letteratura è successo con Manzoni (il “manzonismo degli stenterelli” come scriveva Carducci, sul quale trionfava la letteratura scapigliata o giù di lì…). Poi, si sa, le tempeste finiscono, le rivoluzioni fanno un sacco di promesse che non riescono a mantenere, la calma ritorna in fretta e gli animi si placano, lasciando che il cervello torni a dirigere gli impulsi. “I Goti” finirono nell’oblio e “la musica dell’avvenire” fece a meno di Gobatti (le sue opere successive furono fiaschi senza appello). In compenso Verdi proseguì imperturbabile la sua carriera componendo i suoi lavori più estremi e “rivoluzionari” (per davvero e non per pretese ideologiche). Così pure Manzoni continuò ad essere protagonista della formazione letteraria di ogni italiano (nelle scuole d’ogni ordine e grado) mentre delle bizzarre composizioni dei fratelli Boito o di Praga restava qualche cenno (a mo’ di curiosità) ai margini del programma, lasciato al tempo e alla voglia dell’insegnante. Ed è giusto così credo.
Tutto questo però, non vuol dire che “I Goti” non possano più essere ascoltati. Mi piacerebbe, lo confesso. Il mio discorso (e il mio accenno polemico) era inteso in accezione differente. Viviamo in un epoca in cui spesso non si dà il giusto valore alle cose: tutto diventa capolavoro (dipende naturalmente da chi è l’autore della riscoperta) e così si perde equilibrio. Ovvio che “I Goti”, come “I Lituani” o “I Promessi Sposi” di Ponchielli, o “L’Ebreo” di Apolloni, ma anche Pacini, Mercadante etc… siano opere interessanti dal punto di vista storico e culturale. Ma sicuramente non sono capolavori. Eppure spesso oggi si tende ad esagerare nell’attribuire titoli di genialità ed eccellenza: tutti capolavori nessun capolavoro. E in questa melassa il mediocre ci sguazza (mediocrità artistica e, soprsttutto, mediocrità esecutiva). In una sorta di livellamento “egualitario” e “politicamente corretto”. Ti invito a leggere il primo capitolo del “Bach” di Buscaroli che proprio di questo si occupa, del fatto che “dare del genio al genio” è considerato illegittimo e che, quindi, se Bach è un genio lo deve essere anche Graun, poichè nessuno può essere superiore ad un altro, ma solo diverso. E così accade con certe rivalutazioni tarde. Io credo che, invece, differenze ve ne siano, superiorità ve ne siano, che un conto è Gobatti e un altro è Verdi. Solo mi auspico che, in un tempo in cui un Pacini qualsiasi, ad esempio, viene celebrato come se fosse un genio (e ricordo che veniva soprannominato ironicamente “il maestro delle cabalette”) degno di stare al fianco di Verdi o Donizetti, ci sia la voglia e l’onestà intellettuale di considerare chi genio lo è davvero (come Rossini) e di valorizzarne l’intero catalogo, riscoprendo e riproponendo titoli e lavori forse più meritevoli di “Alessandro nelle Indie”, ma considerati già in partenza di Serie B o C per assurdi pregiudizi.
Un saluto
Grazie di avermi dedicato una nota così articolata, interessante (e condivisibile).
Insomma, chissà che prima o poi una “Opera rara” non metta mano a questi benedetti Goti e ci aiuti a toglierci la curiosità… Mi spiace, ai tempi del fulgore del Festival della Valle d’Itria, di non averne proposto il recupero a Celletti.. chissà, forse gli sarebbe entrata una pulce nell’orecchio…
Grazie ancora e complimenti vivissimi!
Gabriele Brunini
Già…Opera Rara a volte è “l’ultima speranza” per ascoltare certi titoli. Di solito le sue produzioni sono molto curate (anche se ultimamente certe scelte di cantanti sono alquanto opinabili…e i risultati discutibilissimi). Comunque “I Goti” potrebbero essere un titolo su cui puntare, magari insieme al “Nerone” di Boito o a qualche lavoro di Bottesini, penso a “Ero e Leandro” su di un bel libretto di Boito stesso… Chissà, per ora si stanno occupando di Pacini e proseguono nella doverosa proposizione del Donizetti minore (e molti sono i titoli che attendono un’edizione completa e attendibile: da Les Martyrs a Torquato Tasso, da Poliuto a Caterina Cornaro, da Belisario a Marin Faliero, da Il Paria al Furioso nell’Isola di San Domingo). Grande merito comunque, va tributato a quella casa discografica.
Su Festival di Martina Franca hai ragione: peccato non aver pensato a “I Goti”. Certo è, però, che oggi quel festival è terribilmente scaduto. Anche Wildbad si dedica ad opere rare (oltre a Rossini), quest’anno – ad esempio – propone un “Don Giovanni” di Pacini (e nel passato Carafa, Mosca, Mayr). Chissà che da qualche parte questi Goti prima o poi salteranno fuori?!?
Ho ripreso questo post per studiarmelo per bene in vista del Demetrio e Polibio che sta andando in scena in questi giorni al Teatrino di Corte del San Carlo. L’opera è di una bellezza sfolgorante e coinvolgente: di grande personalità e con passaggi originali che presagiscono tutta la grandezza del genio quattordicenne che l’ha composta (oltre ai brani più conosciuti, basterebbe quel gioiello di commovente bellezza che è “Mi scende sull’alma” a giustificare l’ammirazione più sfrenata!). Lo spettacolo è quello del Rof, con una regia caruccia, alla fine garbata seppur anch’essa dedita alla solita tiritera del “teatro nel teatro”, però, ripeto, non molesta anche se, alla fine il tutto appare un po’ stupidotto. Buono il cast, ma l’elemento di interesse non poteva che essere la Lisinga di Jessica Pratt. Io avrò pure un debole per questa artista seria e preparatissima, ma le ovazioni che hanno seguito le sue arie indicano che non sono stata l’unica ad apprezzare una prova semplicemente perfetta. La parte e la partitura le calzano a pennello, non c’è niente da fare, è questo il suo repertorio di elezione, tutto sembra facile come prendere un bicchier d’acqua, anche i virtuosismi più spinti: impressionante! Ma anche nelle parti più liriche e introspettive è stata molto espressiva. Mai un cedimento, mai uno sbandamento, mai uno sforzo e soprattutto mai una presa di fiato abusiva, le agilità padroneggiate con una tale sicurezza: una prova davvero entusiasmante.
abbiamo la recensione in fase di uscita. Vuoi copiare questo tuo post e attendere qualche ora? Avrai la sede dedicata alla produz napoletana
Che bello!