La storia che vi sto per narrare ha inizio un anno fa.
Quando in biglietteria per acquistare i biglietti della “Turandot”, opera scelta per inaugurare operisticamente e con fasto il nuovo Teatro dell’Opera fiorentino “terminato” (nelle intenzioni, ma non nei fatti) e consegnato alla città, mi presentarono per la scelta dei posti la piantina cartacea del Teatro Comunale al posto di quella del Teatro nuovo, in quel momento, compresi che c’era qualcosa che non andava…
In effetti è stato un anno molto duro e difficile per questa povera “Turandot”: era chiaro fin dall’inizio che il nuovo Teatro non avrebbe potuto ospitare la quarta ripresa della celeberrima e premiata produzione firmata dal grande regista cinese Zhang Yimou, a causa di un palcoscenico pronto per 1/3 e ancora da collocare nel giusto spazio: allora le maestranze del Teatro hanno ben pensato di sfruttare il Comunale, ovvero, quel palcoscenico dove quella “Turandot” era nata, con conseguente girandola dei cambi di biglietti, di abbonamenti, di posti e di date che tanto ha “appassionato” il pubblico.
Sembrava tutto sistemato, ma “colpo di scena”: entrano in gioco l’amianto, la sua bonifica che ancora oggi langue (e “Walkure” incombe) ed i restauri della calotta già precedentemente danneggiata che rendono inagibile il Comunale.
Panico e tensione tra il pubblico pagante e le maestranze: si farà, non si farà, chi lo sa.
Certo è che per entrare a Teatro a Firenze devi essere o un architetto o un tecnico dei lavori!
Si fa, si fa, ma al Teatro nuovo e senza allestimento: in forma di concerto.
Sconcerto del pubblico a questa notizia ed a quella del conseguente cambio di biglietti a prezzo anche maggiorato! Paghi di più per vedere un concerto in un Teatro da finire dopo un precedente cambio: favoloso! Al massimo chiedi il rimborso!
Quando la “cultura” paga!
Poiché la cosa stava assumendo connotati grotteschi, il Teatro assicura che la forma impiegata sarà semiscenica, perché si fa di necessità virtù e così facendo si ammortizzano i costi dei biglietti.
Il pubblico accorre generoso e compie il miracolo: sold out per tutte le recite.
E’ pazzesco il fatto che gli unici due “tutto esaurito” della stagione fiorentina siano stati una “Bolena” senza orchestra (ma col pianoforte e l’amianto) ed una “Turandot” senza allestimento (ma col Teatro incompiuto): molto pittoresco!
Arriviamo al giorno della recita: teatro stracolmo; biglietteria impazzita; fila ciclopica per cambiare i biglietti; file ciclopiche per entrare nella sala, poiché i biglietti vanno controllati uno per uno dalle maschere prima dell’ingresso; gente impaziente che si infervora e ringhia; ascensori stracolmi; scale che non si trovavano, poiché l’interno del Teatro è stato concepito come un labirinto o una scatola cinese onde mandare in confusione il pubblico, altrimenti sarebbe troppo facile ed ergonomico, ma molto “archistar”; e dopo venti minuti di ritardo, per dare a tutti la possibilità di orientarsi, sedersi e chiedersi “ma che ho fatto di male?”, finalmente inizia il rito!
Almeno l’acustica è maestosa, avvolgente, straordinaria!
Ammetto di aver ascoltato la ripresa live della “Turandot” andata in scena a Monaco lo scorso anno (conclusa con la morte di Liù), per prepararmi all’ascolto ed all’interpretazione del Maestro Mehta: ammetto che l’impressione che ne avevo tratto era di semplice e lenta routine.
Mi sbagliavo. Già nella “Sinfonia n. 2 La Resurrezione” di Mahler, Mehta mi aveva stupito positivamente. C’era, per certi versi “poco Mahler” nel suo gesto e nel suono dell’orchestra, ma moltissimi rimandi alla musica del ‘900: da Debussy a Mussorgsky, da Strauss a Tchaikovsky, fino a Puccini. Un Mahler antologico, un Mahler nervoso, un Mahler che nelle intenzioni di Mehta vorticava nei richiami, tra stili e nelle espressioni musicali europee degli inizi del secolo scorso. Un Mehta interessante, che non ti aspetti.
Coadiuvato da un’orchestra finalmente in forma e concentratissima (solo qualche sbilanciamento nei soliti ottoni, ma nulla per cui scandalizzarsi), il Maestro Mehta dirige, a memoria, una “Turandot” opulenta e intimista.
Gli accordi iniziali, marziali, netti, ma non grevi, non danno l’avvio ad una favola, ma ad una storia di sangue, una storia terribile e ammaliante, in cui la musica, soprattutto nel caso del coro, alterna la sete di violenza (il cupissimo “Gira la cote”, il saluto all’Imperatore) a tersi momenti in cui il sangue viene lavato dall’intensità della poesia (l’apparizione della Luna, quella profumatissima e romanticissima di Turandot); se l’accompagnamento delle maschere è in questa concezione più asciutto e sinfonico, Mehta decide di isolare Liù in tempi più indugianti, ma languidissimi, così il suo sacrificio si prefigura come l’autentico climax all’interno del climax Alfano-Toscanini librandosi dalla tensione accumulata sia nell’accompagnamento agli enigmi, sia nel notturno che apre straordinariamente il III atto. Archi, arpe e fiati ai loro massimi.
Peccato il dolorosissimo taglio del sublime momento “Del primo pianto” (“Come nella Turandot con la Cigna” cit. amico Davide) che ci priva della maturazione psicologica di Turandot… ma davanti ad una protagonista del genere è comprensibile.
Un’acustica così intensa agevola moltissimo le voci, anche le più piccole, ma facendone sentire nitidamente i pregi che i difetti.
Jennifer Wilson tornava a Firenze per interpretare la protagonista, uno dei suoi più frequentati cavalli di battaglia, dopo l’ottima impressione suscitata con la sua interpretazione di Brunnhilde nel bellissimo “Ring” Mehta-Fura dels Baus: purtroppo in scena si è presentata la sua ombra.
La voce è opaca, ingolata, povera negli armonici, inconsistente nei gravi e ovattata al centro; gli acuti, solo pochi anni fa sonori, stridono, crescenti o calanti nell’ intonazione e, superata la “Scena degli Enigmi”, segni di stanchezza, di secchezza nel timbro iniziano a serpeggiare e la cantante viene sovente coperta dall’orchestra anche nel duetto finale in cui non rinuncia alla stecca nella frase “Ah! Calaf, davanti al popolo con me!”. C’è come il sospetto che voglia imitare la Sutherland, ma ovviamente nei difetti; in più la dizione acciottolata ed una totale incapacità di fraseggiare danno il colpo di grazia al percorso psicologico di Turandot ed alla credibilità della Wilson.
Degno compagno di questa Turandot è Jorge de Leòn: già fallimentare Radames in Scala (personaggio che ovviamente riprenderà), come Calaf si presenta con la voce sforzata, gonfia e grossa, sporca negli attacchi, difettosa nell’intonazione e con una emissione fibrosa e paralizzata nel forte e fortissimo di esasperante monotonia. Grazie al cielo ci risparmia il Do su “Ardente d’amor” preferendo la variante centrale. In questo caso i riferimenti sono i difetti di Corelli e Martinucci.
Indisposta la titolare Ekaterina Scherbachenko, già di per se nulla di trascendentale, ad interpretare la piccola Liù è stata promossa al primo cast il soprano Serena Daolio prevista in alcune recite: buone le intenzioni di fraseggio, e buoni i Si bemolle in pianissimo, ma il resto della voce si presenta disomogenea e spigolosa ed il timbro ben poco delicato nella sua gessosità.
Buono il Timur di Giacomo Prestia che fa sentire un centro ancora pieno, un fraseggio vario, ma acuti opachi; Ping, Pong, Pang si limitano a ciangottare e parlottare tra loro con incongruenti effetti macchiettistici, affossando i rispettivi personaggi; in maniera orchesca e cavernosa viene risolto il Mandarino cantato da Konstantin Gorny.
Oltre a Mehta, con la sua orchestra, il vero protagonista dell’allestimento è stato sicuramente l’eccellente e senza sbavature coro preparato dal, purtroppo, dimissionario Piero Monti.
Un coro dall’intonazione cristallina, dalla dizione chiara, dal fraseggio dinamico e poderoso che la magnifica acustica del teatro espande perfettamente e con facilità.
Un coro quello di “Turandot” che alterna momenti violentissimi, persino disperati a dolcezze e morbidezze soffuse, crepuscolari, tutti aspetti esaltati da questa prestazione salutata dal giusto riconoscimento del pubblico.
Tutto sommato gradevole e intelligente l’impianto semiscenico realizzato da Marina Bianchi: la quale pone un coro giustamente onnipresente dietro un telo sul quale proiezioni coloratissime lasciano spazio al video dell’allestimento nella Città Proibita di Pechino (Casolla-Larin-Frittoli) ed i cantanti, nelle vesti originali ideate da Wang Yin, si muovono su una pedana che funge da proscenio e sulla cornice che circonda l’orchestra per creare un buon gioco dinamico.
Il pubblico ha tributato otto minuti di applausi sbilanciandosi negli entusiasmi nei confronti di Mehta e del coro.
Mary, posso dire che, oltre alla parte tecnica sviluppata sempre eccellentente, adoro le tue recensioni per la parte introduttiva? 😀 sei fantastica! Quanto all’opera di firenze, la città nella situazione paradossale di avere due teatri di cui uno è troppp vecchio per essere usato e l’altro troppo nuovo, credo che sia uno degli esempi delle cose fatte qui da noi: l’idea c’è sempre, ed è anche molto buona…viviamo di sogni 😉
Grazie, troppo gentile.
Un piccolo, dovreoso post scriptum: sono contento che metha abbia fatto bene, perchè secondo me la turandot gli viene molto bene…quando decide di fare di fare il bravo direttore, poi, lo fa sul serio e ci riesce benissimo
mi sa che c’ero anch’io a quella recita e a quella coda per cambiare i biglietti. Sull’acustica t leggo ottimista…mah speriamo io c andrei cauto
anche la visibilità nel terzo settore é così cosi…
E’ la terza volta che vado al Teatro nuovo (due volte in platea, una nel III settore) e l’acustica la trovo splendida, anche troppo sfarzosa in certi momenti.
La visibilità nelle gallerie è per ora ridotta a causa del mancato arretramento e completamento del palcoscenico… si parla della fine dei lavori rimandata al 2014… sarà… vedremo…
In effetti è stata la prima volta che ho dovuto acquistare i biglietti tre volte per vedere una semi-opera….
Meno male che alle casse si sono ben guardati dal chiedere l’integrazione del prezzo del biglietto… 😀
Al di là della riuscita dello spettacolo (stranamente concordo in pieno con Marianne) devo dire che tanto mi ha ben impressionato l’acustica del teatro, quanto invece mi ha lasciato perplesso la sua fisionomia, a metà tra un ospedale e un centro commerciale, dall'”allegro” color grigio topo predominante. Ma si sa, Dio ci scampi dagli architetti (e dagli ingegneri, aggiungerei…)
ma poi come faranno a fare le polveri su quel piano inclinato…mia mamma e il mio amico paoletto sarebbero in depressione
Sarà un teatro autopulente come i forni a microonde 😀