E’ il prototipo del seduttore, senza scrupoli e, soprattutto, senza sentimenti, se non falsi, simulati e strumentali al proprio scopo. Seduttore per il gusto della seduzione, per placare la fame predatoria.
Nonostante l’unico momento di vero sentimento, rappresentato dalla sezione centrale dell’aria del secondo atto, queste sono le note caratteristiche del Duca di Mantova, che lo staccano da tutti gli amorosi verdiani. Gli altri amano e soffrono e, magari, muoiono per amore, lui per esercizio. Tanto è che trova anche una (scema?) che muore per lui.
E l’esercizio predatorio si spiega sempre ed ovunque nei confronti delle dame della sua corte, ovviamente coniugate, nei confronti di una ragazzetta agganciata in chiesa ( talvolta l’agnosticismo giova se non all’anima all’integrità fisica) e di una autentica e conosciuta donnaccia, che “lavora” per le vie e in una osteria, quanto meno di dubbia fama.
Nonostante la connotazione inequivocabile di eroe negativo le possibilità di esecuzione sono varie. Come, infatti, varia è la tradizione interpretativa del Duca di Mantova.
Infatti al primo esecutore Raffaele Mirate, che era un tenore centralizzante, aduso a ruoli cosiddetti drammatici e con una certa propensione al repertorio rossiniano, subito si affiancò il tenore di grazia rappresentato da Mario de Candia.
E il doppio canale è proseguito. Si pensi ai coevi Alessandro Bonci ed Enrico Caruso, paradigmatici delle due scuole di interpretazione, sino al nostro recente passato Alfredo Kraus contrapposto a Luciano Pavarotti.
Questo perché la scrittura del Duca, pur insistendo ostinatamente sul passaggio superiore non prevede ( salvo puntature fuori ordinanza) acuti estremi. Certo è che certe frasi del duetto d’amore in particolare “Ah due che s’amano son tutto un mondo”, “sua voce è il palpito”, sino al “Ah dunque amiamoci” dove le continue indicazione di ppp, di crescendo e stringendo e le forcelle incrementano le difficoltà, piuttosto che l’intera sezione centrale dell’aria del secondo atto, e l’intera scrittura della parte del tenore nel quartetto insistono nella zona mi3 sol3.
E se l’esecuzione deve essere completa ci sono pure alcuni passi di agilità alla stretta della cabaletta del secondo atto, oltre all’esigenza della ballata e della canzone di un canto sillabico facile ed alla presenza di cadenze originali al duetto con Gilda tutt’altro che elementari.
Non per nulla tenori poco ferrati tecnicamente come Giuseppe di Stefano, in una poco felice ripresa scaligera del 1954 o il recente Alagna scaligero dimostrano che il Duca o sa passare di registro o si strozza ed il suo canto non è ne seducente né predatorio, ma arrancato e faticoso.
Perché che si aderisca all’idea di una seduzione aggressiva e spavalda, incosciente e padana (nessun personaggio di Verdi è più padano del Duca) sia che si segua l’idea di un seduttore quasi perverso e laido il Duca deve saper cantare, legare e smorzare. Chi infatti deve piacere e conquistare lo fa solo con il canto a fior di labbro, sfumato e raffinato anche alle prese con una “da sbarco”.
A questa raffinatezza esasperata, quasi femminea, in un personaggio che di femmineo ed efebico nulla ha risponde Giacomo Lauri Volpi. Sebbene ultracinquantenne e non troppo in regola con l’intonazione rende l’idea di quello che doveva essere il duca di tradizione ottocentesca dei grandi tenori. Interpretazione del Duca cui si attenevano, come dimostrano i reperti discografici tenori come Schipa, McCormack , Bonci ed Anselmi. Sorprende più di tutti Lauri Volpi perché, pur avendo debuttato come tenore di grazia si trasformò presto in tenore drammatico, sia pure lontano da stilemi vocali e gusto verista. Alla stessa idea di Duca si attiene in lingua russa, la cui marcata colorazione vocale in alfa, da un particolare misto di languore ed affettazione Kozlosky. Inutile dire che rispetta i segni di espressione e più ancora riesce ad essere al tempo stesso amoroso nel recitativo e nella sezione centrale della grande aria del secondo atto, conclusa con una cadenza spettacolare, che se non sbaglio porta la voce al re bem.
Dotati tutti di voce bellissima, gradevole, insomma, superdotati in natura Aragall, Bjoerling, Pavarotti indulgono un poco più al compiacimento del loro eccezionale strumento rispetto gli altri Duchi che proponiamo.
Basta raffrontare il recitativo di Bjoerling e quello di Kozlovsky ed il risultato non cambierebbe nel raffronto Pavarotti Schipa. E’ quella del cesello dell’eleganza la strada obbligatoria delle voci meno dotate in natura con l’irrinunciabile presupposto di una tecnica scaltrita e di una fantasia quanto meno varia.
Nonostante l’unico momento di vero sentimento, rappresentato dalla sezione centrale dell’aria del secondo atto, queste sono le note caratteristiche del Duca di Mantova, che lo staccano da tutti gli amorosi verdiani. Gli altri amano e soffrono e, magari, muoiono per amore, lui per esercizio. Tanto è che trova anche una (scema?) che muore per lui.
E l’esercizio predatorio si spiega sempre ed ovunque nei confronti delle dame della sua corte, ovviamente coniugate, nei confronti di una ragazzetta agganciata in chiesa ( talvolta l’agnosticismo giova se non all’anima all’integrità fisica) e di una autentica e conosciuta donnaccia, che “lavora” per le vie e in una osteria, quanto meno di dubbia fama.
Nonostante la connotazione inequivocabile di eroe negativo le possibilità di esecuzione sono varie. Come, infatti, varia è la tradizione interpretativa del Duca di Mantova.
Infatti al primo esecutore Raffaele Mirate, che era un tenore centralizzante, aduso a ruoli cosiddetti drammatici e con una certa propensione al repertorio rossiniano, subito si affiancò il tenore di grazia rappresentato da Mario de Candia.
E il doppio canale è proseguito. Si pensi ai coevi Alessandro Bonci ed Enrico Caruso, paradigmatici delle due scuole di interpretazione, sino al nostro recente passato Alfredo Kraus contrapposto a Luciano Pavarotti.
Questo perché la scrittura del Duca, pur insistendo ostinatamente sul passaggio superiore non prevede ( salvo puntature fuori ordinanza) acuti estremi. Certo è che certe frasi del duetto d’amore in particolare “Ah due che s’amano son tutto un mondo”, “sua voce è il palpito”, sino al “Ah dunque amiamoci” dove le continue indicazione di ppp, di crescendo e stringendo e le forcelle incrementano le difficoltà, piuttosto che l’intera sezione centrale dell’aria del secondo atto, e l’intera scrittura della parte del tenore nel quartetto insistono nella zona mi3 sol3.
E se l’esecuzione deve essere completa ci sono pure alcuni passi di agilità alla stretta della cabaletta del secondo atto, oltre all’esigenza della ballata e della canzone di un canto sillabico facile ed alla presenza di cadenze originali al duetto con Gilda tutt’altro che elementari.
Non per nulla tenori poco ferrati tecnicamente come Giuseppe di Stefano, in una poco felice ripresa scaligera del 1954 o il recente Alagna scaligero dimostrano che il Duca o sa passare di registro o si strozza ed il suo canto non è ne seducente né predatorio, ma arrancato e faticoso.
Perché che si aderisca all’idea di una seduzione aggressiva e spavalda, incosciente e padana (nessun personaggio di Verdi è più padano del Duca) sia che si segua l’idea di un seduttore quasi perverso e laido il Duca deve saper cantare, legare e smorzare. Chi infatti deve piacere e conquistare lo fa solo con il canto a fior di labbro, sfumato e raffinato anche alle prese con una “da sbarco”.
A questa raffinatezza esasperata, quasi femminea, in un personaggio che di femmineo ed efebico nulla ha risponde Giacomo Lauri Volpi. Sebbene ultracinquantenne e non troppo in regola con l’intonazione rende l’idea di quello che doveva essere il duca di tradizione ottocentesca dei grandi tenori. Interpretazione del Duca cui si attenevano, come dimostrano i reperti discografici tenori come Schipa, McCormack , Bonci ed Anselmi. Sorprende più di tutti Lauri Volpi perché, pur avendo debuttato come tenore di grazia si trasformò presto in tenore drammatico, sia pure lontano da stilemi vocali e gusto verista. Alla stessa idea di Duca si attiene in lingua russa, la cui marcata colorazione vocale in alfa, da un particolare misto di languore ed affettazione Kozlosky. Inutile dire che rispetta i segni di espressione e più ancora riesce ad essere al tempo stesso amoroso nel recitativo e nella sezione centrale della grande aria del secondo atto, conclusa con una cadenza spettacolare, che se non sbaglio porta la voce al re bem.
Dotati tutti di voce bellissima, gradevole, insomma, superdotati in natura Aragall, Bjoerling, Pavarotti indulgono un poco più al compiacimento del loro eccezionale strumento rispetto gli altri Duchi che proponiamo.
Basta raffrontare il recitativo di Bjoerling e quello di Kozlovsky ed il risultato non cambierebbe nel raffronto Pavarotti Schipa. E’ quella del cesello dell’eleganza la strada obbligatoria delle voci meno dotate in natura con l’irrinunciabile presupposto di una tecnica scaltrita e di una fantasia quanto meno varia.
Gli ascolti
Verdi – Rigoletto
Atto I
Questa o quella – Jaime Aragall
E’ il sol dell’anima – Giacomo Lauri-Volpi & Lina Pagliughi
Atto II
Ella mi fu rapita…Parmi veder le lagrime – Jussi Bjoerling, Ivan Kozlovsky
Atto III
La donna è mobile – Luciano Pavarotti
Un dì se ben rammentomi…Bella figlia dell’amore – Gianni Raimondi, Leyla Gencer, Cornell MacNeil & Carmen Burello
Per chi ha il satellite:stasera ARTE trasmetterá,in diretta dalla Semperoper di Dresda,il Rigoletto con Lucic,la Damrau e Juan Diego Florez.Inizio alle ore 21.
Grazie Mozart, sta’ pur certo che il Rigoletto sarà prontamente recensito… del resto gli ascolti di alcuni Duchi di livello erano l’entrée in vista della recensione.