Con “Ascesa e caduta della città di Mahagonny” il Festival di Aix ha proposto il suo spettacolo “kolossal” del 2019: nuova produzione in collaborazione (fra l’altro) con il Metropolitan di New York, direzione musicale di Esa Pekka Salonen, cast all star (comprendente molti habitué di vecchia data della manifestazione provenzale), persino qualche timida contestazione (indirizzata ai responsabili della parte visiva dello spettacolo) al termine della première del 6 luglio. Eppure il risultato, tutt’altro che spiacevole, non è all’altezza delle premesse e soprattutto della potenza tellurica del testo, persino più estremo della ben più nota “Opera da tre soldi”: più che una satira, un ritratto impietoso della società dei consumi, in cui l’unico crimine possibile è la mancanza di denaro. Al deserto dagli indeterminati tratti americani del libretto corrisponde, nella visione del regista Ivo van Hove, un teatro di posa, inizialmente vuoto, che progressivamente si riempie di “clienti”, al tempo stesso comparse e spettatori della propria addomesticata deboscia. Un cameraman, presente in scena fin dal prologo, si insinua senza sosta fra i solisti e i membri del coro, mentre le riprese “in diretta” compaiono sul megaschermo che domina il fondo della scena: le ragazze di vita intonano la loro canzone acconciandosi e truccandosi nel backstage dello show, il (peraltro castissimo) colloquio di Jenny e Jim avviene su un letto che inevitabilmente richiama il Bed-In di John e Yoko, l’annunciato approssimarsi dell’uragano innesca una mise en abyme visiva (con effetti optical stile videomaking “casalingo” anni Ottanta) che produce, nella seconda parte dello spettacolo (la meno riuscita), sequenze di realtà virtuale (i cantanti si muovono su un fondale verde e le immagini che ne risultano vengono mixate con video preesistenti, a visualizzare i deliri di cibo, sesso e violenza degli abitanti di Mahagonny) ben gestite sotto il profilo tecnico ma non altrettanto efficaci dal punto di vista espressivo. Qualche sottolineatura che vorrebbe essere grottescamente audace, e risulta solo un po’ pacchiana (la macchina da presa che indugia sul ventre di Leokadja, mentre la donna stringe con cupidigia un mazzetto di banconote), non basta a invertire la tendenza di un allestimento persino troppo spoglio e sobrio, elegante ma anche freddo e quasi indifferente, di un’indifferenza che non ha nulla del disincanto brechtiano e anzi sembra perdersi (involontariamente) nell’esibizione di trovate patinate quanto risapute (come i video alla National Geographic, anche questi stilizzatissimi, che accompagnano l’addio di Jenny al perituro Jim, o il caos solo apparentemente anarchico della scena conclusiva, in cui il regista tenta di operare una progressiva “demolizione” dello spazio scenico, riuscendo a esprimere, ancora una volta, soprattutto la propria incapacità di cogliere sino in fondo l’assenza di possibili vie di fuga che il testo prospetta). La componente musicale dello spettacolo soffre, e in parte si compiace, dei medesimi limiti: la Philharmonia Orchestra suona benissimo, ma la scansione brutale dei ritmi della musica “di consumo”, il colore tagliente dei legni, insomma tutto quello che costituisce l’autentica peculiarità della scrittura di Weill risulta come attenuato e ingentilito dalla lettura di Salonen, che trova i suoi momenti migliori nell’addio alla vita di Jim al terzo atto (anche qui, si abbraccia la prospettiva del personaggio con adesione acritica e davvero melodrammatica, sebbene il testo e la musica suggeriscano un approccio molto meno meccanico e infinitamente più interessante). Deludente la vedova Begbick di Karita Mattila: il fascino (ancora notevolissimo) della donna e dell’attrice non basta a compensare i limiti della cantante, ormai di limitato volume (soprattutto al grave, dal momento che la parte è da mezzosoprano, e non da soprano male in arnese). Annette Dasch (Jenny) prova a cantare tutto (con qualche suono un po’ “tirato” in alto) e ha una procacità ferina, ma lì, purtroppo, ci si ferma. Meglio il settore maschile, dominato sotto il profilo scenico da Willard White (ormai al di là del bene e del male come cantante, ma la parte di Moses è quello che è) e vocalmente da Nikolai Schukoff, un Jim dal bel timbro e dalle intenzioni sempre appropriate, seppur nell’ambito di un ritratto decisamente privo di zone d’ombra, tendente a fare dell’ex minatore l’eroe positivo, anziché l’esemplare protagonista, della parabola teatrale. Eccellente lo stuolo dei comprimari e davvero impressionante, sotto il profilo non meno vocale che scenico, la prova del coro Pygmalion (istruito da Richard Wilberforce), impegnato negli stessi giorni nell’altra grande produzione del Festival, il Requiem “di” Romeo Castellucci (di cui diremo nei prossimi giorni).
Un pensiero su “Festival di Aix 2019, terza puntata: Mahagonny (dal vivo).”
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grazie mille della recensione,
personalmente la messa in scena mi ha molto colpito: subito dall’inizio, dalla canzone delle puttane, il cameraman inquadra uno specchio verso il quale la Dasch canta truccandosi ma, improvvisamente, la Dasch gira la testa e guarda direttamente in camera, con uno sguardo pieno di orrore. Lo stesso orrore che per me ha attraversato tutto lo spettacolo: infatti, date le premesse della creazione di Mahagonny, la fine terribile della storia si sa già. E poi il fatto di filmare tutto, che è una abitudine sempre più diffusa, e di filmare tutto su uno sfondo verde, che è quello usato nei film per aggiungere qualsiasi immagine si voglia come sfondo, rappresenta credo il messaggio che questa opera può darci oggi: perché se ormai è un dato abbastanza noto che è meglio non vivere solo per il denaro e per il piacere ad ogni costo, lo è un po’ meno l’idea che non bisogna illudersi e crearsi una vita immaginaria e solo filmata. Detto ciò, e solo menzionando il messaggio relativo ai pericoli legati al climate change (l’uragano che può spazzarci via in una notte) che come spesso accade invece di sensibilizzare ottiene l’effetto opposto, in generale lo spettacolo mi è molto piaciuto.
Sulla parte musicale ha già detto tutto Tamburini, e vorrei sottolineare il fascino e la efficiacia della recitazione di Karita Mattila, pervicace e tenace padrona della scena. Mi ha affascinato moltissimo la scena dell’addio tra Jim e Jenny, con un trio di strumenti a sostenere il duetto dei cantanti che inizia circa a 1:51 del video qui sotto – un grande momento di opera.