La Città morta approda per la prima volta alla Scala a quasi cento anni dalla doppia prima assoluta (Amburgo e Colonia, quest’ultima sotto la direzione di Otto Klemperer) e francamente l’approdo è tale da legittimare dubbi sull’opportunità della proposta. Dubbi che però si dissolvono quando si ascoltano o si riascoltano le testimonianze sonore, che rendono conto dei pregi di una musica scelta da molte primedonne (in primis Maria Jeritza, che ricoprì un ruolo minore alla prima di Amburgo per poi passare velocemente alla parte di Marietta e imporre l’opera anche al Met) quale solido mezzo per esprimere il proprio temperamento. Nell’ambito di una scrittura assolutamente tradizionale, appena spruzzata di modernità (un occhio alle avanguardie e uno, ben più attento, a Richard Strauss), la tragica infatuazione del vedovo per la provocante ballerina, sosia della defunta (liaison destinata a risolversi, con un coup de théâtre che inevitabilmente rimanda alla psicanalisi quanto al nascente cinema espressionista, con un “nulla di fatto”), è tratteggiata da Korngold con un’attenzione maggiore alle atmosfere, lugubri e sognanti, intrise di ombra e acqua, della “città morta” Bruges, vero terzo personaggio della vicenda, piuttosto che al dramma propriamente detto. Dramma che risulta osservato come a distanza, con un pudore che è facile scambiare per freddezza e sembra di fatto “sciogliersi” solo nel celebre Lied “Glück, das mir verblieb” (significativamente, un brano “interno” all’azione, come potrebbe avvenire in una rappresentazione in prosa) e nel parossismo della sequenza dell’omicidio (il punto di massima distanza dal “reale”). Tutto questo per dire che La Città morta può funzionare solo in presenza di esecutori capaci di rendere giustizia alla sua natura, assai poco enfatica, di sogno (o incubo) a occhi aperti. Alan Gilbert regge con mano abbastanza sicura l’orchestra (a parte le abituali intemperanze degli ottoni, segnatamente al terzo atto) e si sforza di evidenziare il gioco dei motivi conduttori, che ossessivamente ricorrono in partitura. Purtroppo latitano, come regolarmente avvenuto nel medesimo teatro per le ultime proposte pucciniane (e non solo), le atmosfere, quella del lugubre “tempio del passato” essendo perfettamente sovrapponibile a quella dell’improvvisato festino del secondo atto, mentre la scena della processione (durante la quale si consuma l’estremo duello amoroso) suscita in buca maggiore clamore, non già tensione. Viene poi da chiedersi come un’orchestra, che a prescindere dal direttore sfoggia parchi colori e dinamiche prossime allo zero in un’opera come questa, di complessità tutto sommato non superiore a una buona colonna sonora, e lo stesso fa nei titoli del grande repertorio novecentesco, possa affrontare, nell’appena annunciata nuova stagione, cimenti sotto ogni profilo ben più impegnativi. Chi al cimento semplicemente si sottrae e sceglie di portare in scena, ancora una volta, sempre e soltanto la propria voglia di “épater la bourgeoisie” è Graham Vick. Luci al neon e incongrui schermi ultrapiatti, arredamento da salone del mobile in provincia, riflettori e videocamere in scena (so arty…), i soliti nazisti dell’Illinois (pardon, delle Fiandre) ficcati dentro l’orgia dei ballerini (provenienti direttamente da un varietà televisivo anni Ottanta o dai cascami del morente avanspettacolo) e un bel pogrom piazzato al culmine della processione. Si dirà che lo stesso Korngold era ebreo. Per la stessa ragione Lucia di Lammermoor dovrebbe morire di sifilide? Il problema di un simile (nuovo, ma solo per i costi) allestimento non è solo la goffaggine e la bruttura di ciò che si vede in scena, ma la profonda estraneità del tutto rispetto al testo drammatico e musicale, e non basta lo svuotamento del palcoscenico alla scena conclusiva (anche qui, trovata carseniana riciclata ormai in ogni salsa) a riequilibrare e dare un senso al giochino.
E siccome l’opera, anche quella novecentesca, va pure cantata, il peggio viene dalla coppia protagonistica. A parziale discolpa di Klaus Florian Vogt va osservato come la parte di Paul, lunga (è in scena quasi ininterrottamente per le due ore abbondanti dell’opera) e con una marcata predisposizione per le frasi di tessitura medio-alta, è il vero ca**o amaro dell’opera, ma questo non può giustificare i suoni eunucoidi sul passaggio di registro sin dal primo dialogo con Frank, in uno con i tentativi di smorzatura, che regolarmente debordano nel falsetto. La dizione è ottima, ma il fraseggio obbedisce più spesso alla necessità del cantante di “tirare il fiato”, piuttosto che a un preciso disegno espressivo: emblematica in questo senso la frase “Mariens Stimme klang aus ihrem (pausa) Mund” nella seconda scena del primo atto. Dizione pastosa, sovente incomprensibile quella di Asmik Grigorian, che dell’allegra Marietta ha la prestanza e avrebbe anche la voce, se la regolasse con maggiore metodo, anziché limitarsi a “buttarla fuori”, col risultato di farsi coprire dall’orchestra nei momenti di maggiore concitazione di quest’ultima ed esibire acuti (i pochi previsti dalla parte) ghermiti e duri. Faticoso anche il legato, come emerge in particolare nel celeberrimo Lied, in cui il tentativo di cantare a mezzavoce e con dolcezza dà luogo a suoni calanti. Davanti a simili esibizioni basta a Markus Werba (nel duplice ruolo di Frank e del pierrot Fritz) mantere una linea di canto un minimo sorvegliata e priva di eccessi per risultare, nonostante il volume contenuto e i consistenti limiti in zona acuta, il migliore in campo. Nonostante l’esiguità della parte si distingue (in negativo) Cristina Damian quale Brigitta, incapace di esibire quel minimo di legato e dolcezza che spetterebbe all’anziana governante, umile vicaria di Paul nella custodia delle memorie coniugali. Al termine del secondo atto e più ancora dello spettacolo, calorosi applausi di un pubblico (non numerosissimo, a onta di sconti da fine stagione, biglietti regalati o quasi) il cui entusiasmo si giustificherebbe, forse, in presenza di Lotte Lehmann e Richard Tauber diretti da Fritz Busch, o almeno di Magda Olivero e Giacinto Prandelli sotto la bacchetta di Antonio Guarnieri. Da qui il vernacolare invito, che fa da titolo a queste riflessioni.
E. W. Korngold
Die tote Stadt
Atto I
Glück, das mir verblieb – Irene Jessner (1940)
Non sono d’accordo. Qualche tempo fa lessi – sempre da queste parti – che “Die Tote Stadt” sarebbe una banale puccinata ( o qualcosa del genere, cito a memoria ). Per fortuna il fenomeno che ha scritto tale idiozia è sparito – meritatamente – dalla circolazione e confidiamo di non averne notizia in futuro. Per chi non ne fosse al corrente sarà utile ricordare che “Die Tote Stadt” è titolo ampiamente apprezzato dalla musicologia più recente e ormai ritenuto da annoverare tra gli imprescindibili del ‘900 ( vedi Sablich, Principe e Nicastro, ad esempio. O, tra i letterati, Arbasino ). I dubbi sulla legittimità della proposta sarebbero dunque da chi ha poco letto e sentito, del resto sempre in numero copioso. Tra l’altro avere un occhio a Richard Strauss nel 1920 non mi sembra così strano e regressivo. Leggo che la complessità dell’orchestra sarebbe di poco superiore a quella di una buona colonna sonora: è vero che Korngold divenne autore di colonne sonore holliwoodiane, ma la (meravigliosa) partitura in questione è di estrema complessità, ricchissima e articolatissima, prossima ai turgori, alle densità e complessità straussiane. Altro che colonna sonora: ma quale film avete visto e sentito? L’allestimento della Scala è stato, a mio parere, di grandissima qualità. Straordinaria la prova dell’orchestra, uno spettacolo nello spettacolo seguirne le mosse. Di gran classe la regia di Vick, probabilmente oggi il numero uno: non tutto condivisibile, in particolare certe (prevedibili) volgarità nella recitazione di alcuni personaggi minori: ma che suggestione e che impatto emotivo! Le parti vocali dei due protagonisti sono molto impegnative: se Vogt se l’è cavata egregiamente ( la parte di Paul è davvero tremenda ) la Grigorian è stata, a mio parere, incantevole. Una vera irresistibile artista, sicuramente da seguire nella carriera ( forse un tantino impegnativa, visto che ha in programma futuro – ad esempio – Norma e Salome ). Il pubblico, non così sparuto come ho letto, ha apprezzato moltissimo: raramente – in tempi recenti – l’ho visto e sentito così coinvolto e commosso. Un consiglio a chi non ha ancora visto lo spettacolo: andateci, è bellissimo.
Insomma a chi dovremmo credere, al solito citaredo meneghino o alle nostre orecchie?
La seconda che hai detto!!
Visto ieri sera. Teatro mezzo vuoto. Opera che non conoscevo e ho trovato interessante solo nel primo atto ovviamente per merito del bel Lied di Marietta. Per il resto ho trovato irritanti le continue “citazioni” di Strauss e il costante urlo a cui sono costretti i cantanti soprattutto nel finake del 2 atto. Capolavoro? Bho…ho qualche dubbio
Poi mi sembra scorretto citare un autore del corriere solo per il gusto di fare uno sgambetto visto il chiaro allontanamento. Io non mi sarei mai permesso.
Nessun allontanamento Nicola…una pausa, ma non vi libererete di me 😀 ahahahah
Non sono sparito affatto Gianmario…e rivendico quanto scritto sull’opera di Korngold (anche se la tua memoria ti tradisce: non l’ho mai definita una “banale puccinata” anche perchè Puccini no è banale).
Duprez, come si sarà capito quella tua affermazione ( sono andato a memoria ma il senso mi sembrava proprio quello ) mi ha contrariato non poco, soprattutto per il tono che mi è sembrato troppo sbrigativamente liquidatorio. Rileggendo mi sono accorto di avere pigiato un po’ troppo la mano nell’invettiva che ti riguardava. Faccio ammenda: se tornerai a scrivere è improbabile che sarò sempre d’accordo con te ma credo che ti leggerò con interesse.
Se non ricordo male feci cenno all’opera di Korngold in sede di presentazione della stagione scaligera in corso: era un breve inciso che riportava il mio gusto personale, ma nessuna intenzione di revisionismo critico del titolo. Korngold è un autore molto popolare in area tedesca e americana e non vi è alcuna diminuzione del suo valore nel sottolineare che compose molte colonne sonore (che spesso sono – nel loro genere – capolavori: lo stesso Prokofev e Šostakovič frequentarono il genere e adottarono uno stile più generosamente immediato rispetto ad altri loro lavori). Ho definito “La città morta” una specie di Puccini tedesco proprio per il suo carattere immediato e cantabile: la definirei “facile” in senso assolutamente positivo, ma proprio come Puccini che sotto un linguaggio immediatamente comprensibile vi è una grandissima sapienza musicale.
Ciascuno, spero, crede alle proprie orecchie ( e occhi se non si sottovaluta il fatto che si tratta di teatro in musica, non concerto di voci ): è proprio questo il presupposto per opinioni e punti di vista differenti. Se tutti fossero d’accordo sul fatto che quanto prodotto e allestito al giorno d’oggi fosse null’altro che un’immensa discarica di nefandezze ( ipotesi che mi pare sia la quintessenza della filosofia – o ideologia – grisina ) verrebbe meno ogni possibile discussione, tutto affonderebbe nella plumbea noia e si potrebbe anche chiudere baracca. Credere alle proprie orecchie significa avere punti di vista differenti: dunque “la seconda che hai detto” è il presupposto per opinioni divergenti, a meno che non si voglia pensare che tutto sia riducibile al perenne lamento dell’insoddisfatto per progetto o per bizzarra vocazione esistenziale ( un vero e proprio tipo antropologico, presente – temo – fin dagli albori ). Sto seguendo “Die tote Stadt” nelle varie recite, lo trovo uno spettacolo bellissimo, rispetto l’opinione – come quella qui argomentata – di chi sostiene il contrario, constato però che se il teatro non è mai esaurito l’accoglienza è però sempre calorosissima. Un allestimento che è molto piaciuto e che ha molto emozionato (tutti, evidentemente, ascoltano “con le proprie orecchie” che non necessariamente sono quelle del pur autorevole Mr. Tamburini ). Le recensioni che conosco dell’opera di Korngold ripresa alla Scala sono tutte – spesso con validi argomenti – molto positive: ma in questo caso temo il subentrare – opzione molto contemporanea – di un certo “complottismo”: tutti venduti al nemico (Pereira) e dunque non attendibili. Al mondo c’è chi crede che la terra sia piatta e che lo sbarco sulla Luna non sia mai avvenuto. E anche che tutti i recensori siano sul libro paga del sciur P. Concludo aggiungendo che non ho ben capito l’allusione al citaredo meneghino: credo comunque che non possa riguardare il sottoscritto: se fossi un citaredo lo sarei a mia insaputa ( e comunque non certo meneghino, essendo un piemontese cresciuto in Toscana ).
Già il fatto che si senta la necessità di “seguire nelle varie recite” una produzione come questa la dice lunga sulla benevolente predisposizione all’ascolto e alla visione della stessa. Mi ricorda un po’ l’atteggiamento di certi ascoltatori parmigiani, che qualche stagione fa si vantavano di non aver perso una recita (su quattro o cinque previste) di un locale Don Carlo, che solo pochi anni prima non sarebbe andato oltre la première. Forse sto precisando l’ovvio, ma apprezzo molto l’opera di Korngold e, se voglio riascoltarla e riviverla, mi affido piuttosto al video dell’allestimento berlinese di Götz Friedrich, che propongo per ogni opportuno confronto con la pacchianata milanese: https://youtu.be/vpaJt4Rvhvo
Tornare più volte ad assistere a uno spettacolo che si sia apprezzato è cosa che può sembrare peccaminosa esclusivamente ai bigotti e alle beghine della vociomania passatista, per i quali unica voluttà è quella dello sprofondarsi nello scontento e nella sempiterna lagna intorno al disastrato tempo presente. Io – quando uno spettacolo mi piace ( o anche quando lo capisco poco e voglio approfondire ) – torno a vederlo più e più volte e la cosa mi dà ampia soddisfazione: è una pratica che, avendone il tempo e la possibilità, consiglio vivamente. La mia benevolente predisposizione verso “Die tote Stadt” allestita alla Scala è stata subito dichiarata ( e maturata non in modo preconcetto ma dopo aver visto la prima ), né vi rinvengo alcunché di strano: l’entusiastica valutazione dello spettacolo mi sembra sia condivisa universalmente, a parte naturalmente voi che , parlando male di tutti, è come se parlaste male di nessuno . Quanto a Parma non è un ambiente e un repertorio di mia predilezione: se però quel Don Carlo è piaciuto, benissimo hanno fatto a tornare e a godersi tutte le recite che hanno voluto. ( Rieccoci di nuovo al bigottismo che stigmatizza e censura l’altrui libero piacere e discernimento ). Il segnalato allestimento berlinese di G. F. è ormai piuttosto datato, ancora abbastanza bello da rivedere ma con qualche sentore di muffa che francamente comincia ad avvertirsi. Escludo che lo spettacolo di Vick sia una pacchianata: non però il diritto a sostenerlo. Piuttosto : vista l’evocazione presente nella korngoldiana Città Morta, quanto sarebbe stato interessante poter assistere, prima o dopo, a una ripresa di “Robert le Diable”!
va bene però ci sono delle colonne sonore che sono musica di tutto rispetto! Non è che dire hollywood vuol dire allora musica brutta!