What dreams may come: J. E. Gardiner dirige Semele alla Scala.

SemeleSin quasi alla fine del primo atto di questa Semele si ha la sensazione di una direzione musicale poco centrata, per così dire fuori fuoco: gli eccellenti English Baroque Soloists suonano bene ma con scarsa cavata, colori insufficienti, insomma in maniera piuttosto piatta e monocorde. Arriva poi l’annuncio del ratto della protagonista e, quasi si fosse acceso un riflettore, l’orchestra letteralmente risplende, spiccando il volo assieme all’eroina. Questo “colpo d’ala” è la prima grande trovata della direzione di John Eliot Gardiner, che nel secondo atto conferma l’impressione di una realtà “aumentata” caricando finalmente la protagonista, e il pantheon da camera che la circonda, di quella sensualità fin lì piuttosto latitante. Che poi la sensualità in questione sia a tinte pastello e rimandi più a Watteau e Fragonard che non ai grandiosi affreschi di Tiepolo è altra questione, verosimilmente collegata a un approccio incorreggibilmente British all’argomento e a un certo moralismo di fondo, che lega la storia di Semele più ai morality play (stile Carriera di un libertino, per intenderci) che non al tripudio grandiosamente amorale di un’Agrippina o di un’Alcina. Questa Semele ha i suoi punti di forza nelle scene languide e di compianto (su tutte il coro “Oh, terror and astonishment!” in morte dell’eroina, con evidenti richiami al finale della Dido di Purcell) e veri e propri intoppi laddove siano chiamati in causa i conflitti, poco importa che siano quelli coniugali di Giove (pessime le scene dedicate a Giunone, caratterizzate da un grottesco incontrollato e pericolosamente prossimo al vaudeville) o quelli che oppongono il padre degli Dei alla sua ambiziosa preda.
Lo scioglimento della vicenda (con l’annuncio della futura miracolosa nascita di Dioniso) non produce alcuna catarsi, ma un educato (e un po’ rumoroso) festeggiamento, a conferma della disgregazione di quello stato di grazia che l’amore divino aveva creato e l’insaziabilità umana irrevocabilmente distrutto. Aggiungono poco alla concezione musicale dello spettacolo il modestissimo allestimento di Thomas Guthrie (il solito trovarobato in abiti indecisi, più che sospesi, fra moderno e atemporale) e soprattutto le prove dei solisti. A parte Gianluca Buratto, che si difende bene come Cadmo e contiene i danni nella assai grave tessitura del dio del Sonno, i cantanti risultano mediocri (Hugo Hymas, buon tenore leggero che del tonante Giove non ha ampiezza, incisività e fluidità nelle fioriture), decisamente scarsi (Carlo Vistoli, sempre apprezzabile sotto il profilo timbrico, ma dal volume prossimo allo zero e in serio affanno nell’ultima aria di Atamante) oppure gravemente insufficienti (la protagonista Louise Alder, soubrettina in parte da soprano lirico, che interpola acuti privi di punta, farfuglia la coloratura e con il procedere della serata risulta vieppiù fissa e stonata – per ragioni ignote, che inducono a malignare, l’aria celeberrima “Endless pleasure, endless love” è assegnata a una corifea). Nella media del (cattivo) canto pseudobarocco (voce in bocca, enfasi sul registro grave che produce il consueto “buco” al centro e sistematiche difficoltà nei parchi acuti) come Ino, Lucile Richardot riesce a peggiorare quale Giunone e regala (si fa per dire) un ritratto forzato e caricaturale della Regina degli Dei, vista come una moglie megera tipo Petronilla o similari. Gli altri solisti (tolti dalle file del Monteverdi Choir) regalano gioie quando vi ritornano.

Georg Friederich Händel
SEMELE
Dramma musicale nello stile di un oratorio in tre atti
Libretto da William Congreve

Monteverdi Choir
English Baroque Soloists
John Eliot Gardiner – direttore

Interpreti principali
Louise Alder – Semele
Hugo Hymas – Jupiter
Lucile Richardot – Juno/Ino
Carlo Vistoli – Athamas
Gianluca Buratto – Cadmus/Somnus

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