L’Orfeo gluckiano torna sulla scena del teatro capitolino dopo un’assenza di quasi settant’anni (l’ultima volta era stato proposto nel marzo del 1951, protagoniste Ebe Stignani ed Elena Rizzieri sotto la bacchetta di Vittorio Gui) e, verosimilmente per la prima volta, nella versione viennese anziché nella tradizionale parigina (in traduzione italiana). Non è dunque la sontuosa tragédie lyrique, con ampi divertissement danzati, che viene offerta, ma la semplice azione teatrale che inaugura la stagione “riformata” del compositore tedesco. La produzione, firmata da Robert Carsen e proveniente dalla Lyric Opera of Chicago (dove ha debuttato nel 2006), accentua il carattere compatto del dramma proponendolo senza soluzione di continuità, con due brevi pause per il cambio di scena fra gli atti. Semplicità, rigore un poco funebre, eleganza e chiarezza di segno sono le caratteristiche dell’allestimento, specchio di una grecità non classica ma derivata, all’apparenza, dai film di Theo Angelopoulos: solisti e coro in nero si stagliano, come silhouette, su uno sfondo neutro di pietre e cielo, le anime dell’Averno sono avvolte in sudari che richiamano quello di Euridice e Amore veste panni ora maschili, ora femminili, a sottolineare l’universalità e la pervasività del sentimento, mentre tutta l’azione acquista un carattere collettivo, quasi di rito espiatorio, con il coro che, alla fine, porta in trionfo la coppia reduce dagli Elisi e la stessa divinità, arrivando a coinvolgere (con il favore delle luci che si riaccendono nella sala del Costanzi) l’intero pubblico. Al tempo stesso viaggio interiore nel deserto dell’elaborazione del lutto (la perorazione di Orfeo all’inizio del secondo atto esplicita il carattere intimo di questa catabasi) e riflessione sull’impossibilità di un amore privo di sofferenza (il gesto con cui Euridice sceglie di ritornare nel proprio sepolcro, appena prima che Orfeo si decida a violare la legge divina), l’allestimento trova il suo limite nella scelta di rendere l’eroe un “uomo comune”, sottraendo alla vicenda il fascino dell’esaltazione dell’arte (nello specifico, la musica, capace di sedurre persino la morte) e privando anche la conclusione festosa di qualsiasi nota spettacolare (nella medesima direzione va la scelta di sopprimere del tutto la sequenza di danze, che anche nella versione viennese sancisce, più stringatamente rispetto a quanto sarebbe avvenuto a Parigi, lo scioglimento della vicenda). Sul podio di un’orchestra più precisa del solito (sempre stentati, per contro, gli interventi del coro, centrali in un’opera come questa), Gianluca Capuano conferisce un buon ritmo all’azione ma fatica a trovare la cifra “orrida” che l’apparizione delle larve infernali dovrebbe evocare, e anche l’incanto del quadro delle anime beate risulta connotato da un tono più arcadico che non ultraterreno. Una prova che si segnala, insomma, soprattutto per un’apprezzabile pulizia e una preparazione attenta, ma che spesso rischia di scivolare nel generico, quando non direttamente nella routine. Fra i solisti spicca Emőke Baráth, Amore di buona voce, piccante senza bamboleggiamenti, mentre gli amorosi si rivelano, con i necessari distinguo, non all’altezza dei rispettivi ruoli. Carlo Vistoli ha musicalità, perfetta dizione, sensibile presenza scenica, tutte doti che esprime al meglio in altri repertori (soprattutto quello monteverdiano), ma l’emissione in falsetto fa sì che la voce non si espanda a dovere, soprattutto quando il ruolo insiste nel grave della tessitura (“Chiamo il mio ben così”, scena con le ombre all’inizio del secondo atto), limite accentuato anche dalle dimensioni della sala: si sarebbe potuto pensare di porvi (parziale) rimedio ricorrendo a qualche trasporto nei punti più ostici, soprattutto nell’ambito di una produzione come questa, in cui ai solisti (fortunatamente) viene offerta la possibilità di inserire fiorettature, sempre con il necessario buon gusto. Mariangela Sicilia (che pratica ormai stabilmente il repertorio del soprano lirico tra fine Ottocento e Puccini, con sporadiche incursioni nei ruoli tragici rossiniani) applica a una parte che sarebbe, in teoria, perfetta per la sua voce uno strumento ormai intaccato, se non consunto: alla ricerca di un accento adeguatamente patetico si accompagna un’emissione faticosa, con suoni talora ghermiti, privi della dolcezza e della nobiltà che dovrebbero, anche nell’espressione del dolore più cupo, caratterizzare la figura della sposa di Orfeo, ella stessa figura semidivina. Teatro quasi pieno e convinto successo conclusivo.
4 pensieri su ““Ho con me l’inferno mio”: Orfeo ed Euridice all’Opera di Roma”
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Bravo Tamburini, i tuoi articoli come sempre vanno sempre driitti al punto senza troppi giri a vuoto come del resto tutti i colleghi del corriere. Lo spettacolo non l’ho visto ma dopo aver letto l’articolo mi vien voglia di andarci ammesso che vi siano ancora recite in cartellone. Saluti
Grazie mille! Ci saranno repliche fino al 22 marzo. Tutto sommato è uno spettacolo da vedere (forse più che da ascoltare 😉 ).
Perché affidare il ruolo di Orfeo al controtenore piuttosto che al contralto?
Credo sia perché si parte dall’idea (priva di riscontri anche sotto il profilo storico) che si tratti di voci equivalenti.