Con encomiabile buon senso il Teatro alla Scala, ha utilizzato lo storico allestimento di Ponnelle per la recente ripresa di Cenerentola.
Scelta encomiabile sia per il risparmio sia per l’intramontabile bellezza nelle scene, nei costumi e nei movimenti degli attori sempre aderenti al ed alla musica.
Ero molto curioso di sentire dal vivo la direzione di Ottavio Dantone, in questa partitura, un terso capolavoro, ma irto di insidie e di trabocchetti, che Dantone ha risolto con sicurezza, ma una maggiore fantasia sarebbe stata auspicabile. Insomma sicuro il direttore, incerto il concertatore perché Rossini non è mai facile da dirigere, soprattutto ma in questa partitura dove bisogna coniugare l’aspetto malinconico, che è la cifra della protagonista con quello comico che qui prevale negli altri personaggi. È esattamente l’inverso di quanto accade nella Gazza ladra.
Marianne Crebassa (Angelina) sfoggia un bel timbro e un bel colore. Un ottimo punto di partenza, solo che, poi, bisogna cantare con cognizione di causa, dizione impeccabile e dare il giusto significato alle parole, altrimenti si buttano via intere frasi, come puntualmente è avvenuto, il patetico “Ma sempre fra la cenere sempre dovrò restar” qui non c’è nulla di difficile vocalmente, ma c’è la cifra del personaggio. Oltre a “dire” bene bisogna cantare con sicurezza come si addice ad una primadonna. E invece la nostra rimane incastrata nelle spine di “Sprezzo quei don che versa” nel finale primo. Due minuti di pura vertigine, di virtuosismi senza rete da affrontare impavidi con levità e perfezione, di pura fosforescenza vocale, dove Cenerentola si esprime da primadonna seria, come il momento scenico richiede. Purtroppo niente di tutto questo, ha risolto con incertezza rifugiandosi nell’agilità di grazia che con Rossini non ha nulla da spartire. E il direttore ben sa che uno dei caposaldi dell’opera barocca e dell’opera di Rossini è l’agilità di forza e poteva suggerirlo. Anzi doveva. Sarebbe un peccato perdere un sì bel timbro in quest’opera, dovrebbe ristudiarla con un maestro italiano che possa spiegare il significato di tutte le parole e guidarla nel fraseggio e quindi nella giusta interpretazione del ruolo. Interpretazione del ruolo, che talora può anche soccorrere od occultare i limiti vocali e tecnici.
Mironov ha una voce filiforme, troppo esile per la Scala, ma canta con sicurezza. Nel duettino “Una grazia un certo incanto” imita smaccatamente Matteuzzi, probabilmente il miglior Ramiro che abbiamo potuto ascoltare, mentre nell’aria imita Florez. È buona cosa avere dei modelli, poi ma bisogna costruire un proprio stile e una propria personalità.
Chausson (don Magnifico) ha dipanato la sua parte con scioltezza, mettendo in mostra anche l’avidità del personaggio e non solo il lato tronfio e comico.
Nicola Alaimo fa di Dandini il servo sciocco della commedia dell’Arte e ci può stare, non sono d’accordo nello sgallinacciare le agilità della sortita. Però, si muove agilmente, la dizione è precisa e chiara l’articolazione.
Erwin Schrott per me è un mistero. Non comprendo le ragioni del suo successo. Ricordo il suo Escamillo alla Scala, era veramente pessimo eppure è stato osannato. Comunque sia ha mal cantato l’aria non facile di Alidoro e per quanto io sia un fiero sostenitore delle edizioni integrali, per carità di patria, ha tagliato il da capo. Talvolta il taglio ha la propria utilità, ovvero salvaguardare le orecchie dell’ascoltatore
Peperine le due sorellastre. Solo quello.
Successo di stanca stima.
Andrea Nozzari