Le recite di Attila son terminate il 5 gennaio. Prosegue secondo l’ordine cronologico della produzione, invece, il viaggio del Corriere nelle esecuzioni verdiane degli anni in cui il primo Verdi continuava ad essere considerato il primo Verdi con il significante negativo dell’aggettivo. E quindi ecco “I due foscari” che ebbero un’esecuzione radiofonica nel 1951 ed una ripresa scenica in teatro a Venezia (31.12.1957) dove ambientato il melodramma. Aggiungo che alcuni baritoni grandissimi come Pasquale Amato, Riccardo Stracciari od esemplari professionisti come Enrico Molinari avevano registrato le arie del Doge.
I motivi per cui da sempre le due edizioni sono ricordate ed ascoltate: il debutto nel ruolo di Jacopo di Carlo Bergonzi, appena passato alla corda tenorile dopo gli incerti inizi quale baritono e già verdiano doc e la Lucrezia Contarini di Leyla Gencer.
Quanto scritto da Rodolfo Celletti su queste due prestazioni è esaustivo, ma il tempo passato dalle recensioni del critico impone taluni chiarimenti per il tempo trascorso ed il gusto deteriorato del pubblico. Mai Carlo Bergonzi fu eloquente e vario nel fraseggio come nei primi anni di carriera quando doveva, per affermarsi lottare e con una concorrenza copiosa ed una voce, carente della caratteristica predominante della corda di tenore ossia lo squillo in zona acuta. I grandi tenori della generazione precedente e non mi riferisco a Lauri Volpi, ma ad Aureliano Pertile e Francesco Merli avevano nei primi acuto almeno sino al si bem uno squillo una facilità ed una penetrazione che mai Bergonzi ha sfoggiato. Poi ci sono frasi in questo Jacopo che fanno la storia del canto Verdiano e può essere tutto il duetto con Lucrezia, l’aria, che apre il secondo atto “non maledirmi o prode” dove la tessitura centrale e declamatoria non si ripercuote sul gusto del cantante sino alla frase davvero altisonante e nobile “di Contarini e Foscari” dove esplode la retorica del personaggio piegato dall’avverso destino, ma sempre nobile.
Nella parte, al di sopra delle proprie caratteristiche vocali, di Lucrezia Contarini, ruolo pensato per Marianna Barbieri Nini, che fu una grande cantante e, forse una interprete non personale e varia (ed ecco spiegata la scrittura vocale impervia della Lady versione 1847 e le continua ripetizioni di sonnambulismo e primo duetto, inflittele da Verdi durante le prove di Macbeth) Leyla Gencer, che debuttava in un ruolo di drammatico di agilità, esemplifica come tecnica rifinita e scaltrita, lunga preparazione e riflessione sul ruolo consentano non solo di cantare, ma di assurgere alla qualità di grande interprete benché in assenza di un mezzo che possa soddisfare le esigenze della parte.
La Gencer costruisce Lucrezia mediante un uso sapiente di piani e pianissimi in tutte le scene in cui Lucrezia piange e supplica ovvero l’andante della sortita “tu al cui sguardo”, il duetto con il suocero non appena la situazione drammatica glielo consente e l’incontro nel sotterraneo delle carceri con il marito condannato all’esilio; all’epoca la cantante aveva un registro acuto facile e penetrante che consentiva di svettare e di “sfogare” in momenti (cabaletta della sortita, quartetto Francesco-Jacopo-Loredano, aria finale “Sorga Foscari possente”, di cui eseguita una sola strofe) che richiederebbero una autentica voce di soprano spinto che la Gencer non aveva in natura.
L’operazione le riesce per un motivo facilissimo che la cantante trova come direttore Tullio Serafin. Ci sono alcune scelte di concertazione che sostengono la vocalità della Gencer, realizzazione di quello che è “servire l’autore per mezzo dei cantanti” come il taglio della stretta del duetto Jacopo Lucrezia dove Serafin, secondo una prassi tipica dell’esecuzione dell’opera italiana, inverte, fra i due sposi, la linea di canto sicché entrambi cantano su linee di canto loro più consone. Ne sortisce un vero canto d’amore ad opera di due voci la Gencer e, soprattutto, Picchi che di amoroso avevano ben poco. Difficilmente l’orchestra di Serafin, pur in una presa d’ascolto non certo perfetta, suona male e contrariamente alla vulgata il direttore non è pesante e greve come i cori delle figure del lugubre carnevale (citazione da altra opera veneziana come il prologo di Borgia) conferma. Inoltre la situazione ovvero la descrizione dei luoghi e delle situazioni è sempre aderente e, poi, si deve ammirare la “regia vocale” che parte dalla guida ai cantanti e tiene a freno qualsiasi esuberanza e caduta di gusto di Giangiacomo Guelfi, che nel 1957 non poteva competere con i cantanti che ho citato prima, ma che evita ogni truculenza ed effettaccio, cui era naturalmente predisposto e di cui qualche mese prima in una Aida napoletana aveva dato ampio e fischiato saggio. In questo senso Giulini non è altrettanto capace pur delineando le lugubri atmosfere della Venezia 1457, che Piave e Verdi avevano costruito ed assecondando lo straordinario accento di Bergonzi. A solo titolo di esempio il coro che apre l’opera o l’introduzione della scena di Jacopo in carcere, dove, poi, Bergonzi monta in cattedra, ed anche i vari incontri fra i membri della famiglia Foscari a maggior ragione dove si consideri che Maria Vitale dispone della vera voce di soprano drammatico ampia, sonora in tutta la gamma e che, seppur non rifinita tecnicamente come la Gencer, poteva essere indotta ad una maggior varietà d’accento, che è generico più nelle pagine drammatiche come la stretta del duetto con Francesco Foscari o il quartetto, che chiude il primo quadro del secondo atto che non nei passi elegiaci e dolorosi dove, anzi, moderato il volume e con accento castigato, Maria Vitale fa sentire una definizione di canti ed interpretazione verdiana oggi davvero sconosciute.
I due Foscari
Francesco Foscari – Giangiacomo Guelfi
Jacopo Foscari – Carlo Bergonzi
Lucrezia Contarini – Maria Vitale
Jacopo Loredano – Pasquale Lombardo
Barbarigo – Mario Bersieri
Pisana – Liliana Pellegrino
Fante del Consiglio de’ Dieci – Aldo Bertocci
Servo del Doge – Gianni Barbieri
Orchestra e Coro della RAI di Milano
Carlo Maria Giulini
Milano, RAI, 5 Dicembre 1951.
Atto I
Atto II
Atto III
I due Foscari
Francesco Foscari – Giangiacomo Guelfi
Jacopo Foscari – Mirto Picchi
Lucrezia Contarini – Leyla Gencer
Jacopo Loredano – Alessandro Maddalena
Barbarigo – Ottorino Becali
Pisana – Marisa Salinbeni
Fante del Consiglio de’Dieci – Augusto Veronese
Servo del Doge – Uberto Scaglione
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Tullio Serafin
Venezia, Teatro La Fenice, 26 Dicembre 1957.
Atto I
Atto II
Atto III
Giusto una precisazione: l’ultima di Attila é domani 8 gennaio.
Buon giorno sono nuovo in questo blog ma apprezzo tantissimo lo sforzo che fate per preservare il buon canto. Ho assistito a diversi spettacoli recensiti da molti e mi trovo sempre molto d’accordo. Avrei due domande per il blog: a che punto siamo con le amplificazioni nei teatri e cosa ne pensate? Perché le proiezioni delle voci dei cantanti odierni risultano così inferiori rispetto a quelle del passato? Grazie mille e Cordiali saluti
Ciao e benvenuto
Le amplificazioni si sa che ci sono ma parlarne senza prove non è facile.
Le.voxi sono poco proiettate perché cantano senza tecnica. Perciò le amplificazioni.
Questo in sintesi telegrafica
Grazie del benvenuto. Vuol dire che non esiste più neanche un insegnante che riesca a trasmettere una tecnica decente?