Il Teatro del Maggio saluta il nuovo anno con un concerto dedicato a due dei più importanti balletti del ventesimo secolo, proposti in forma di concerto e affidati alla bacchetta di Esa-Pekka Salonen, di recente nominato direttore musicale (dal 2020) dell’Orchestra sinfonica di San Francisco. Programma ambizioso e coerente, che affianca a Daphnis et Chloé (proposto in versione integrale, con la presenza del coro) e a Le Sacre du printemps un brano (composto nel 2018) dello stesso direttore, intitolato Pollux, in prima esecuzione italiana: tre differenti aspetti (rispettivamente neoclassico, “barbaro” e contemporaneo) del mito, tre variazioni sul tema della morte e della rinascita, che prepotente si ripropone a ogni inizio d’anno, e in fondo anche una risposta a quei programmi di san Silvestro che sanno solo inanellare ballabili e “greatest hits”, scelti con poca fantasia, assemblati con scarsa coerenza, il più delle volte eseguiti alla bell’e meglio (quando va bene) con il concorso di interpreti anche prestigiosi, sempre più sensibili alle ragioni del marketing che non a quelle dell’arte.
Sorprende come un’orchestra di solito messa in difficoltà dalle richieste di un’opera italiana dell’Ottocento riesca a destreggiarsi con solo occasionali incertezze in partiture come queste, in ogni senso complesse. L’apporto del direttore, anche con un numero per forza di cose limitato di prove, è determinante in una sfida del genere. Salonen riesce a ottenere un suono che non sarà prodigioso per morbidezza e varietà di colori, ma ha comunque la flessibilità necessaria a restituire tutte le variazioni d’intensità della musica, tanto che il gigantesco Teatro del Maggio non sembra, come in altre occasioni, un contenitore dispersivo: ciò risulta evidente soprattutto nella prima parte del concerto, che dal diafano pianissimo iniziale di Daphnis conduce al vigore galvanizzante del baccanale conclusivo. In questa parte del concerto il limite, semmai, è che il carattere delle differenti sezioni del balletto non risulta sempre opportunamente evidenziato: l’esecuzione è graziosa, un poco affettata, almeno fino al numero conclusivo, in cui finalmente l’orchestra e il coro si scatenano, e con loro il pubblico, che tributa a questa parte gli applausi più calorosi della serata. Dopo l’intervallo si ascolta la composizione di Salonen, che appare un po’ come il manzoniano vaso di terracotta, schiacciato dalle musiche che lo circondano, in ogni senso più ampie e potenti. Pollux è un garbato omaggio a Ravel, più ancora a Debussy, una musica volutamente soffice e insinuante, percorsa da guizzi che risultano più inquietanti nella descrizione del programma di sala che non all’ascolto. Il brano sarà completato da un pendant maggiormente “estroverso” (Castor, naturalmente, al momento in corso di elaborazione) e allora, auspicabilmente, emergeranno meglio i caratteri distintivi dell’opera. Quelli che, a un secolo abbondante dalla prima esecuzione, spiccano ancora oggi prepotenti nel Sacre: il cerimoniale aspro e dirompente è restituito con toni prosciugati e una solennità grave, notevole soprattutto nella conclusiva Danza sacrificale, in cui sembra di scorgere i passi progressivamente più faticosi e pesanti dell’Eletta, sino a un epilogo in cui non c’è catarsi, ma un improvviso disgregarsi della tensione, un ritorno della musica alle fonti stesse del silenzio.
5 pensieri su “Esa-Pekka Salonen in concerto al Maggio fiorentino.”
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Non ho assistito al concerto., ma “grazioso e affettato” mi sembrano aggettivi azzeccatissimi per definire questo direttore, che io non trovo un prodigio.
Mi sbaglierò, per carità, ma le grandi bacchette si riconoscono alla prima nota. Salonen, al massimo, mi dà l impressione di essere un solido professionista, ma nulla di più. Saluti e buon anno.
Prendere un’orchestra mediamente disastrata come quella del Maggio (avvezza ai Luisi e Co, del resto…) e portarla a eseguire più che decorosamente un programma di questa complessità non mi sembra indizio di “semplice”, seppur solido, professionismo. Poi posso anche concordare sul fatto che esistano letture più entusiasmanti, su tutte quella di Pierre Monteux (in studio, però), se non altro per ovvie ragioni legate alla vicenda esecutiva di questi titoli. Ma con le prove concesse oggi ai direttori ospiti, anche grandi, anche (giustamente) star, di che cosa possiamo stupirci? Nessun teatro assicura più agli interpreti la prima delle risorse, ovvero il tempo di provare, di far maturare una lettura assieme ai complessi, in ogni senso sempre meno stabili, “della casa”. Il che è particolarmente triste, perché un buon direttore e un’orchestra di consolidato mestiere possono aiutarsi a vicenda. E invece prevale sempre il “mordi e fuggi”, a cui corrisponde, da parte del pubblico, un ovvio “paga e consuma”.
Solidissimo professionista, ce ne fossero! Semplicemente non lo si descriva (e non mi riferisco ovviamente al tuo articolo) come il genio che non è. Non è, per intenderci, un Petrenko o un Pappano.
Comunque, a me Luisi non dispiace. Anche lui è un solido professionista.
Tornando a Salonen, sono d accordo su quello che scrivi, devo dirti però che con la London Philarmonic, la sua orchestra con cui certamente ha un altro “feeling”, neppure ho mai sentito letture rivoluzionarie, se non a sprazzi, come tu stesso hai avuto modo di constatare a Firenze.
Le poche prove credo che siano un po’ il mal comune. D altra parte, non si può biasimare chi guadagna molto con il proprio lavoro e giustamente cerca di accontentare il più possibile i teatri.
Mi spiace doverlo ribadire, ma tutte le volte che ho sentito Luisi, dal vivo e in registrazione, non ho sentito un solido professionista. Tutt’altro. Tanta ambizione (a partire dalla scelta dei programmi), poca sostanza, tanti, troppi pasticci, forse scusabili in un esordiente, non certo in un direttore che “macina” blasonati teatri e orchestre considerate di primo piano. Lo Schoenberg di Salonen con la “sua” orchestra (che è la Philharmonia, non la London Philharmonic ), ma anche il suo Bartok con l’orchestra dell’Opéra di Parigi (altra orchestra “da battaglia”, non meno di quella del Maggio) lo collocano a un livello un bel po’ differente.
Scusate l’intrusione, sono nuovo e sono lieto di essere entrato a far parte di questa community, come si usa dire (benché lettore del Corriere della Grisi da anni; non sempre d’accordo con quello che leggo, però…).
Ho una domanda: quali sarebbero, in Italia, a parte Santa Cecilia, le orchestra non “da battaglia”? E quali sarebbero i direttori così superiori a Luisi (che anche a me è sempre sembrato un po’ arruffone)? Ce ne sono poi così tanti, almeno in ambito operistico?
Da fiorentino, lo domando con quel pizzico di acidità di chi si sente toccato nel suo orgoglio civico: il mondo non finisce a Milano.